Sciamanismo e ayahuasca.
Michael Taussig intervistato da Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey)

Nell’universo sciamanico che emerge dai racconti di Taussig non ci sono officianti da ossequiare o cosmovisioni a cui convertirsi. Tra le foreste e le città del Sud America da lui attraversate emergono principalmente persone, conflitti e contraddizioni. A partire dalle domande appassionate di Wilson (in arte Hakim Bey) l’intervista diventa l’occasione per interrogare la società nel suo insieme, i suoi rapporti con l’alterità, il potere, l’humor e la fiesta.
L’intervista è apparsa in questa traduzione in Altrove n. 21 (2020).
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Peter Lamborn Wilson (PLW): Vorrei iniziare chiedendoti perché hai fatto ciò che hai fatto. Prima di tutto perché sei andato in Colombia – la ragione profonda, se ce n’è una.
Michael Taussig (MT): La mia prima visita in Colombia fu nel settembre 1969. Andai per unirmi alla Rivoluzione come un medico dogmatico – il che lo ero! Volevo avere la mia parte, unirmi alla Rivoluzione, ma volevo che questa mi fosse favorevole e mi mettesse a mio agio. Andai anche come uno studente in erba di dottorato dell’Università di Londra. Nella mia ingenuità e auto-esagerazione pensavo che avrei potuto essere sia un rivoluzionario che un medico allo stesso tempo, intendo un medico con un dottorato. Ma quando arrivai lì mi sono subito reso conto di quanto fossi completamente fuori posto, di quanta violenza ci fosse nella guerriglia. Nella mia idiozia pensavo che sarei potuto entrare in qualche ufficio da qualche parte e arruolarmi. Non mi resi conto di quanto la situazione fosse violenta e difficile. Uno scenario con circa quindici sfumature di grigio. Proprio non mi resi conto della fisicità del pericolo o dell’enorme impegno richiesto. Andai lì come una persona del ’68, molto assorbito nella lotta contro la guerra in Vietnam e molto preso con la cultura anarchica, che ho assorbito a Sydney.
PLW: Eri già un antropologo?
MT: No, sono arrivato all’antropologia dopo la Colombia.
PLW: Ah!
MT: Ero interessato alla teoria sociologica, al marxismo, impregnato di qualche teoria anarchica europea del XIX secolo, che conoscevo abbastanza bene. Ma l’Inghilterra mi ha trasformato più in un marxista e poi la guerra del Vietnam, etc., in ciò che ai nostri giorni chiameremmo un maoista – il Terzo mondo ingloberà il Primo mondo, la campagna ingloberà la città. Alla London School of Economics un gruppo di noi si è in un certo senso aperto al Terzo mondo, in particolare all’America Latina. Ho scelto la Colombia perché mi sono sempre piaciuti questi tipi di luoghi problematici dove sembra che qualcosa di fantastico stia per accadere, una rivoluzione sociale che è uscita dai binari; la Colombia si è disintegrata nella famosa violencia del 1948. Così le droghe e lo sciamanismo erano lontani dalla mia mente. O perlomeno lo sciamanismo!
PLW: Hai mai pensato di leggere o studiare qualcosa su questi temi?
MT: Ciò di cui ero al corrente era qualcosa sulle droghe – cioè marijuana e LSD – e la componente anarchica della sinistra marxista, una fascinazione per ciò che Marx e i marxisti chiamavano “coscienza”; questo è ciò che ho assimilato dai situazionisti a Strasburgo e a Parigi. E il genere di felice ottimismo del libro di Ché Guevara sulla guerriglia – cioè che non dovevi attendere le condizioni materiali per fare la Rivoluzione ma che potevi crearle. Questa specie di marxismo spontaneo di sinistra, qualcosa che è stato moltissimo al centro del dibattito in Europa con la sua versione di destra e di sinistra una di fronte all’altra. C’era un modo in cui il marxismo di sinistra (“comunismo infantile” come lo chiamava Lenin) costituiva proprio un passaggio per considerare maggiormente quanto Marx pensava sulla coscienza (un termine molto elaborato). Non era proprio la coscienza l’impulso di qualsiasi cosa, nel marxismo così come in altre teorie sociali e politiche? E una volta che sei sulla traccia della coscienza – come pensano le persone? come penso io al pensare? – allora mi sembra che non ci voglia una grande spinta o sforzo per iniziare a interessarsi al mondo aperto dalle droghe e dagli sciamani. Così ammetto che, nel mio paradigma, quando sono arrivato, quell’interesse per la coscienza era già lì, per cui immagino che sia stato un terreno fertile di cui lo sciamanismo avrebbe potuto – anni più tardi – diventare una meravigliosa parte.
PLW: Alla fine sei ritornato a scuola per diventare un antropologo?
MT: No. È stata una specie di caso fortuito. Come molte altre persone mi sono formato sul tema che sembrava più di moda negli anni ’60, ovvero la sociologia. Ora pratico la varietà britannica, che era molto diversa da ciò che insegnavano in America – e non c’è bisogno di addentrarci in questo. Volevo studiare la “violenza” in Colombia, un termine usato per un definito periodo storico iniziato negli anni ’40 e durato dieci, quindici anni. Su ciò, adesso ho molte più idee di quanto non ne avessi allora. Mi trovavo in un’area rurale nel Sud della Valle di Cauca, proprio a Sud di Cali.
Nessuno conosce la differenza tra sociologia e antropologia, ma sono discipline molto diverse. Alcuni dicono che la sociologia sia lo studio della metropoli e l’antropologia quello della colonia. Ma nel mio caso, durante il mese o due trascorsi negli Stati Uniti sulla strada per l’America Latina, ero molto intrigato dai lavori di antropologi che avevano lavorato sul tema della rivoluzione contadina, che era un tema vicino al mio cuore per le letture sull’anarchismo del XIX secolo – in particolare i russi. Così ho pensato che sarebbe stato bello lavorare con alcune di quelle persone negli Stati Uniti. Mi sembrava che fosse una branca di inchiesta sociale che (ricorda la guerra del Vietnam) era anche estremamente impellente. Così è stata di grande interesse sia teoricamente che praticamente. Ero anche molto intrigato dalla cultura studentesca e dalla cultura degli Stati Uniti nei tardi anni ’60. Di conseguenza non avevo fretta di ritornare in Inghilterra, anche se la considero ancora come la mia destinazione finale. Scrissi a un paio di persone negli Stati Uniti, persone che lavoravano in dipartimenti di antropologia, e uno di loro mi invitò a insegnare per un anno. E quel lavoro si è sviluppato in un lavoro permanente – ma non avevo mai veramente letto di antropologia. L’ho imparata come insegnante – il che non è necessariamente molto onesto con gli studenti!
PLW: E tutto ciò mentre intendevi ritornare in Colombia?
MT: Ero molto attaccato alla Colombia, così quando ottenni un contratto per insegnare ancora negli Stati Uniti ho insistito per ritornare lì e ho iniziato ad andare avanti e indietro tra Ann Arbor e la Colombia.
PLW: Poi hai scritto The Devil and Commodity Fetishism come tua prima avventura in antropologia?
MT: Sì, era il 1980.
PLW: Così sono passati dieci anni pieni, andando avanti e indietro in Colombia…
MT: Di più. Negli anni ’80 sono passato all’insegnamento a tempo parziale in modo da trascorrere più tempo lì. Ora non posso più permettermelo! Direi che forse ho trascorso un terzo del mio tempo in Colombia.
PLW: Quali avventure ti hanno portato allo scenario di Shamanism, Colonialism and the Wild Man?
MT: Vorrei provare a fare giustizia di quella particolare transizione. Una confluenza di cose. La prima, la semplice fisicità della mia situazione. Lavorando in quella calda valle piatta, avevo l’abitudine di guardare intrigato le montagne, sempre coperte di nuvole meravigliose, chiedendomi cosa ci fosse dietro. Sapevo che c’erano diverse genti, sapevo che là era dove si trovava la “vera antropologia”. Perché per la maggior parte delle persone la vera antropologia sono gli Indiani o i Nativi Americani sulle montagne o nelle foreste dove il 90% degli antropologi ha trascorso il loro tempo, giusto? E per diverse altre ragioni. Perché finisco sempre in posti strani come queste città di piantagioni e piccoli villaggi contadini nelle valli dell’agrobusiness, dove non puoi bere l’acqua, non ci sono bagni, ci sono zanzare, fa caldo, è brutto; dei bassifondi rurali! Me la godo sempre molto ma ho sempre pensato, un giorno farò della “vera” antropologia. E poi c’era la bellezza fisica, o così uno se l’immagina, nelle parti più incontaminate in alta montagna od oltre.
La seconda cosa era che il mio interesse si è sviluppato lentamente dallo studio della storia della valle – basata sul lavoro degli schiavi… Vivevo in una città che era essenzialmente nera. I miei interessi andavano dalla storia al prendere in considerazioni attitudini, diciamo componenti della cultura – in cui pensavo che si potesse rilevare una diversa relazione non-capitalistica con il benessere e il prodotto della natura, la sua coltivazione o verso la natura in generale. Ero intrigato dalle storie sul Diavolo in relazione al benessere e alla natura quando il paese è passato da una società contadina a una di lavoro salariato nelle piantagioni di canna da zucchero. Così ci fu la schiavitù fino al 1851; poi una classe contadina libera nera che sembrava abbastanza sicura di sé stessa e del suo bersaglio politico. Il paese è stato lacerato da guerre civili, lo Stato era debole, così la classe contadina prese il potere. Queste guerre civili terminarono nel 1901 – la Guerra dei mille giorni, la vittoria decisiva del Partito Conservatore, lo Stato entra in scena con forza, i proprietari terrieri bianchi ritornano, la classe contadina nera si mette sulla difensiva e dopo il periodo della Seconda guerra mondiale, nel 1950, le piantagioni di canna da zucchero sono sistemate, la classe contadina si riduce e diventa una forza lavoro salariata. Questa era la storia che stavo studiando, in particolare l’ultima componente. In quel movimento da una classe contadina libera a una forza lavoro salariata (ovviamente è più complesso del modo in cui la racconto) ero intrigato dalla figura del Male, del Diavolo. L’ho ingrandito e semplificato, credo, ma era un affascinante problema metafisico e ho scoperto un paio di cose. Una era il ruolo degli uomini-medicina indiani erranti, che arrivavano al mercato due volte alla settimana e su cui la gente raccontava leggende e storie. Incontrai un uomo-medicina mulatto il quale mi disse che aveva un grande amico che era un uomo-medicina indiano, e gli portava questa strana cosa. In realtà cresceva nella sua finca. Si scoprì che era yagé. Non avevo idea di cosa stesse parlando, ma un giorno venne e disse che aveva preso questa medicina e aveva visto un gruppo di angeli e cose del genere. Mi fu detto che era una farsa, questo tipo era un artista da farsa, tutto gli ridevano dietro. Casualmente era il padre della mia padrona di casa. Un tipo senza un braccio, la sua foto si trova nel libro, il nome era Chucho Jiménez. Era un tipo straordinario, ho girato molto con lui. Questi angeli – non avevo idea di cosa stesse parlando. Era il 1971.
PLW: Nonostante il fatto che avessi qualche esperienza con l’LSD…
MT: Sì, giusto. Così sono andato alla sua fattoria a vedere questa cosa. Migliaia di bottiglie di medicina in varie fasi di decomposizione. Era un tale tipo disinvolto, molto eccentrico, una strana persona. L’immagine sul retro del libro sullo sciamanismo ti darà una buona idea di come sembrasse.
Gli uomini-medicina indiani come quello con cui egli girava sono molto sulla difensiva e circospetti, e difficili da conoscere, troppo abituati a essere vagheggiati – e questo è effettivamente il modo in cui acquisiscono potere e reputazione, con l’essere delle esotiche persone bizzarre. Ma questo rendeva difficile e complicato parlarci.
L’altra cosa a cui ero interessato era… stavo sviluppando una teoria secondo cui la magia in Colombia, se non in altri posti, avesse moltissimo a che fare con fantasie sull’alterità. I bianchi proietterebbero poteri magici sui neri, i neri sugli Indiani, gli Indiani sui neri, etc. Era come un rapporto a tre che non si fermava mai. Significa che tu tieni in considerazione l’altro ma anche che lo reprimi. Le due facce del razzismo. È effettivamente un’idea molto potente; si applica alle relazioni tra maschio e femmina, bianco e nero e così via, nella tua propria società anche qui negli Stati Uniti.
Così queste due cose in un certo senso si sono sviluppate insieme… l’uomo-medicina indiano errante e poi la natura della magia coinvolta hanno iniziato ad apparirmi gradualmente. Ora, in certe società come quella degli Stati Uniti, la cultura della classe media dell’illuminismo prevale, la parola “magia” fugge, è solo chiamata razzismo. È una brutta cosa, non dovresti farlo. La gente potrebbe uscirsene con complesse teorie psicologiche, psicoanalitiche. Ma il concetto di una componente magica è irrilevante se non inaccurata. Quando arrivi in una società contadina in cui tra certi strati della popolazione un vocabolario magico è importante, allora la vedi in quest’altro modo. Così quando avessi elaborato qualcosa di questo materiale nella Valle di Cauca, che è una valle dell’agrobusiness – strade, banche, cinema – avrei voluto esplorare le ramificazioni di ciò che stavo allora vedendo come una rete di attribuzione razziale. Avevo un’amica che lavorava con i nativi americani di lingua Siona dell’area del Putumayo colombiano. Sono andato con lei a Puerto Asís, il porto più grande sul fiume Putumayo nel Sud-Ovest della Colombia dove forma un confine con l’Ecuador, e scendendo lungo il fiume, un confine con il Perù. Un’area veramente grande, migliaia di miglia quadrate – l’area che gli Stati Uniti fumigheranno o bombarderanno in qualunque momento, avendo come bersaglio i campi di coca. Quando arrivai lì nel 1972, per quanto ne so, non c’erano piantagioni di coca.
PLW: Infatti tutte quelle coltivazioni sono piuttosto recenti, non è vero?
MT: In origine in Perù e Bolivia, poi gradualmente si sono fatte strada in Colombia.
PLW: Mi piacerebbe ritornare sul punto che hai sollevato: un contrasto tra una società in cui la magia è pubblica ed è legata al razzismo o al “pensiero razziale”…
MT: Un’alterità riservata.
PLW: Diresti che nella tua società questo è ancora assolutamente così, eccetto che non possediamo il vocabolario per discuterlo? O diresti che ci sia una reale differenza?
MT: Esito a dare una risposta pronta. Il mio sospetto è che sia la stessa cosa in entrambe le situazioni. Ma la magia negli Stati Uniti… è stata tradotta. Ora sono un grande credente nella forza del linguaggio. Non credo semplicemente che se cambi una parola cambi la realtà. Penso che se c’è uno iato o vuoto linguistico, ci sono precise potenti ripercussioni sulla comprensione culturale – e sulla realtà – ma non sono proprio sicuro che si tratti di linguaggio o di qualcos’altro.
PLW: Un pensiero che ho sempre preso in considerazione è che, poiché non abbiamo un vocabolario con cui discutere la persistenza della magia, siamo le vittime più della “magia nera” che di una cultura in cui le cose sono affrontate apertamente e discusse in termini specifici.
MT: Un argomento molto valido.
PLW: Non penso che la magia fugga. Ora non sto cercando di essere metafisico – di non parlare della magia come…
MT: …vincere la lotteria…
PLW: …ma del fatto che c’è un irriducibile livello della coscienza o dell’inconscio (o della relazione tra i due) che in mancanza di un termine migliore potremmo chiamare “magia” – e che non fugge mai… l’Ogre of Megadeath… la bomba atomica come il Diavolo… questi sono “archetipi” molto reali – se posso usare il termine senza essere accusato di junghismo – e a volte mi sembra che le cosiddette società “primitive” possono avere a che fare con queste cose meglio di noi perché almeno le discutono faccia a faccia e in pubblico.
MT: Lascia che su questo ti esprima un pensiero deciso, che è in relazione alla differenza tra il mio libro sullo sciamanismo e un libro che ho pubblicato nel 1997 intitolato Magic and the State, basato sul lavoro di campo su una “montagna magica” in mezzo al Venezuela. Per me queste sono state situazioni molto contrastate. Mi piaceva lavorare nell’area del Putumayo; poteva essere il punto più alto della mia vita. Odiavo lavorare in Venezuela e in particolare odiavo quel tipo di “magia di Stato”. La mia sensazione, sia all’inizio che ora, era che la “magia” del Putumayo (includendo in particolare gli Indiani ma in misura minore anche i colonialisti, i contadini bianchi poveri) prendeva ogni cosa con buon senso. Certamente credevano che esistono degli spiriti, che lo yagé apra una finestra sul mondo del potere spirituale. Ma vedevano tutto in modo molto complicato. Non sapevi mai se ciò che stavi vedendo era veramente giusto o sbagliato, o un’illusione. La mente, lo yagé o lo sciamano possono giocare degli scherzi. Gli sciamani sono umani come qualsiasi altra persona, possono cercare di ucciderti, possono passare momenti brutti, possono essere avidi, possono provare a uccidersi l’un con l’altro, possono rivoltarsi contro i loro pazienti o “studenti”, etc. Così non sapevi mai bene qual era la questione. E di base c’era molto humor. Se leggessi Andrew Weil sul Putumayo, una delle cose che ho notato che ha enfatizzato è che se tu giri con questi uomini-medicina, ridono tutto il tempo. É proprio vero, specialmente per gli sciamani delle pianure. Mentre la magia che ho visto sulla Montagna Magica in Venezuela – gente che gira in vecchie Chevrolet ammaccate – gente che viveva in città… Il Venezuela è un paese molto più “sviluppato” – puoi comprare tutte le cose convenzionali, lavatrici, sistemi per l’acqua calda, etc. – ricco per decenni per la presenza di petrolio. Questa gente era “ciecamente superstiziosa” e la loro magia non aveva (secondo me) complessità. Ancor di più, non aveva alcuno scetticismo insito. Erano come zombie dagli occhi vitrei.
PLW: Vittime piuttosto che maestri di magia…
MT: Vorrei aggiungere questo alla tua osservazione – che se esiste un linguaggio della magia e la gente può parlarne faccia a faccia, possono averci meglio a che fare – e stavo pensando questo nel caso del Venezuela, che considererei più come magia “moderna”, ma poi non intendo proprio questo – perché ogni cosa è moderna, assume solo differenti configurazioni in differenti parti del mondo. Ma come tipizzare questa cosa in Venezuela, che ora è veramente molto comune nelle città del Terzo mondo? Forse sto esagerando – forse il Putumayo è un caso unico – ma non credo. Per cui c’è una differenza. Una cosa mi colpisce come un’attitudine molto sana, e l’altra come qualcosa di stupido e malsano. Questa cosa del Venezuela si adatta così alla perfezione alla “magia di Stato”. Quelle persone erano stupide! Ora lo puoi vedere con questo tipo, Chávez, che gira impettito invocando lo spirito di Simon Bolivar. Per me Chávez (e un autore raramente sperimenta questi momenti) è testimone di tutto ciò che è valido in quel libro, The Magic of the State. In un certo senso ha predetto che qualcuno come Chávez sarebbe arrivato a rubare il tuono della magia, del potere della resistenza, dei movimenti anti-colonialisti, dei morti, dei martiri, tutte quelle sciocchezze.
PLW: Come caratterizzeresti la differenza tra i due tipi? La magia in Venezuela è in transizione verso la secolarizzazione – ha perso il potere di guarire?
MT: No, non in transizione verso la secolarizzazione! Penso che le qualità ineffabili o misteriose del potere, nel caso del Venezuela, si siano congelate nella formazione dello Stato. Ma invece del linguaggio della burocrazia o della ragione dell’illuminismo (come spesso tipizziamo questo modo di pensare), a livello popolare è stata assorbita questa qualità originale, mistica. Non è in transizione verso la secolarizzazione. È più come se avessero magnificato il misticismo, che in realtà esiste in tutti gli Stati moderni.
PLW: Osservando la storia a fondo, le origini della civilizzazione, diresti che lo sciamanismo è sempre stato tradito nel diventare la magia di Stato, cioè religione, ideologia?
MT: Non conosco abbastanza la storia. Credo di tenermi alla larga da schemi macro-storici, forse è una via d’uscita economica e facile. Ho sempre avuto una grande mancanza di fiducia nell’archeologia. Quel poco che ne so arriva da studi latino-americani. Sono molto sospettoso degli schemi con cui gli archeologi costruiscono narrazioni dai cacciatori-raccoglitori a, diciamo, lo Stato inca, azteco o maya. Vedo troppe supposizioni, troppi salti e interruzioni. Non posso accettare molto di tutto ciò… se la storia significa costruire una narrazione o una storia su così tante migliaia di anni, questo mi rende nervoso. Forse potremmo ricostruire la questione.
PLW: Farne una questione più strutturale che storica.
MT: La mia tendenza sarebbe cercare una spiegazione a-sincronica, a-storica, non più strutturata – per cui ciò che tu e io sembriamo intendere con il termine “sciamanismo” esiste in un particolare tipo di società – e le religioni di Stato esistono all’interno degli Stati. Preferirei non provare a vedere una transizione.
Un tratto che sarei interessato a discutere potrebbe essere la distinzione fatta da Mircea Eliade (quasi mi fa ridere) tra sciamanismo e possessione spiritica. Ne ha ricavato moltissimo.
PLW: Nello sciamanismo uno esce fuori dal corpo e si muove verso gli spiriti; nella possessione spiritica gli spiriti entrano nel corpo…
MT: Suona stupido, ma mi è capitato di vedere che in Venezuela è tutto possessione spiritica (trans-caraibica, fino al Brasile e all’Uruguay – quel genere di cose) e lo sciamanismo che conosco è più amazzonico – ha una differente diffusione geografica.
PLW: È una tua impressione che la possessione spiritica sia più un’importazione dall’Africa?
MT: Sono sicuro che giochi una grande parte, di nuovo, la storia è molto complicata. Ciò che vorrei dire è che – sebbene sia sicuro che tu possa trovare moltissime differenze ed eccezioni – la mia impressione è che c’è qualcosa nella possessione spiritica che propende alla gerarchia, la stratificazione e forse anche allo Stato. Questo ha qualcosa a che fare con il ruolo dei morti e l’invocazione degli spiriti del passato e dei morti. Lo sciamanismo che conosco – che naturalmente è solo uno tra un trilione – non si preoccupa molto dei morti, se non per niente. È un approccio a-storico molto profondamente radicato. Mentre lo spirito dei morti è storico nel senso che ha a che fare con il Tempo Prima degli Spiriti, la presenza del Passato.
PLW: Ritorniamo all’autobiografia. Ero interessato ad ascoltare qualcosa delle tue prime esperienze con l’ayahuasca (yagé), se avevi intenzione di farle quando sei salito sulle montagne. In qualche modo sei stato indotto a ciò? Perché lo hai fatto? Quante volte?
MT: Un giorno due contadini rivoluzionari mi hanno invitato a unirmi a loro, un grande onore per me e una grande gioia: Luis Carlos Mina e un tipo chiamato Alfredo Cortés. Entrambi erano coinvolti nei comitati dei contadini – sindacati se preferisci – per i mulini dello zucchero. Luis Carlos Mina era un ardente coltivatore, molto esperto, ed entrambi erano coinvolti in un’organizzazione di contadini che stava sviluppandosi su scala nazionale. Questo gruppo voleva costruire una sala riunioni nella principale città del mercato – Santander De Quilichao – in modo che la gente che arrivava da lontano al mercato del sabato non avrebbe dovuto dormire su cumuli di cartoni per strada o pagare un hotel, ma poteva dormire e incontrarsi in questo posto e organizzarsi. Così dovevano prendere i materiali da costruzione, e un modo per farlo era chiedere alla povera gente delle campagne di contribuire con qualcosa. Così a metà altezza della montagna, a Sud della valle, c’era un gruppo di Indiani che sarebbe migrato attraverso la catena centrale delle Ande verso gli anni ’30 o ’40, e stavano lavorando come servi (come l’ho inteso) per un padrone relativamente povero di un’hacienda, di nome Zuñiga. Così pernottavamo da Alfredo. Ho dormito con Luis Carlos in un orrendo letto informe. Aveva la radio accesa tutta la notte, come spesso capita nelle case contadine in Colombia. Stava vendendo alla lotteria questa radio, portandola in giro per convincere la gente a comprare i biglietti. Così al mattino siamo saliti su questi piccoli pony magri (c’è una foto nel libro sullo sciamanismo); andavamo sempre più su. Alla fine arriviamo all’hacienda di Zuñiga. È un tipo coriaceo, magro, lavora con le mani tutto il tempo – e lui è “l’uomo bianco”. Mi chiede cosa stavo facendo lì e dico: beh… sto scrivendo una storia, e sono anche un dottore. Mi chiede se posso consigliargli qualcosa per dei dolori di stomaco di cui soffre sempre. Parliamo un po’. Aveva sempre questi disturbi di stomaco, non poteva dormire di notte. E quando andava veramente male doveva scendere a valle, prendere un autobus a Sud di Pasto, prenderne un altro e girare con alcuni Indiani che lo avrebbero curato. Pensai che fosse la cosa più strana che avessi mai sentito. Così un paio di settimane più tardi ritornai alla città del mercato, Santander, e incontrai alcuni Indiani – i servi, questa volta ubriachi e felici, e dissi: il vostro capo crede di essere stato stregato – malificio – e va da questi Indiani a Sud nella giungla per essere curato. Chiesi: chi lo starebbe stregando? Risero a più non posso e dissero los mismos compadres, i genitori dei bambini di cui è padrino. Vedi cosa sarebbe successo in un’hacienda come quella, il padrone sarebbe diventato padrino dei figli dei servi. Così quello che intendevano (dietro i sorrisi) era che egli pensava che essi lo stessero stregando – noi Indiani, i suoi schiavi, i suoi servi, e per curarsi andava da altri Indiani nella giungla, totalmente diversi, con piume e altro, si curava e ritornava. E così questa cosa mi ha aperto la mente. Perché se lo vedessi nel solito modo meccanico-sociologico, hai un tipo non ricco – un povero bianco – con poche centinaia di ettari sulle Ande, tre o quattro famiglie indiane che lavorano per lui quattro giorni alla settimana, che poi per il resto della settimana li lascia coltivare per loro stessi i propri piccoli appezzamenti – questo lo chiamerei feudalesimo. Ed era spaventato dalla stregoneria indiana – perché i bianchi pensano che gli Indiani abbiano poteri speciali, proprio come gli Indiani lo pensano dei bianchi. Così andrebbe a servirsi di più Indiani di potere nelle foreste di pianura per curarsi e ritornare, continuando a sfruttare il sistema. Così per me questa era una delle grandi… una storia sorprendente che in effetti è il cuore del libro sullo sciamanismo.
PLW: Così sei andato a cercare questi Indiani?
MT: Proprio gli stessi? No, ma negli anni seguenti ho incontrato molta gente che era come Zuñiga – che andavano al Putumayo per curarsi così potevano ritornare e mantenere le relazioni di sfruttamento che sentivano che li ammalavano.
PLW: Alla fine che cosa ti ha spinto a trovarli?
MT: Una curiosità immensa.
PLW: Stavi agendo sulla base di informazioni da gente come Zuñiga? Per dire, un tale villaggio, una tale persona?
MT: No! Ho un’amica antropologa che si chiama June Langdon che mi ha raccontato delle storie sui Siona del Putumayo. Ho anche un amico che era negli affari politici degli indigeni nativi americani, Scott Robinson, che si era impegnato contro la guerra del Vietnam alla Cornell University, ed è andato in Ecuador e ha vissuto con gli Indiani Kofan del corso superiore del Putumayo. Si è trovato veramente bene con un particolare gruppo di persone, gli è stato conferito un nome indiano e mi diede un regalo da portare a qualche suo amico Kofan. E questo è stato ciò che mi ha veramente introdotto nella questione – Scott e i suoi amici Kofan, Salvador e Gratulina Moreno.
PLW: E lì fu dove provasti per la prima volta lo yagé? Ricordi molto di questo?
MT: Quello che ricordo venne dopo, con un tipo di nome Santiago Mutumbajoy, a Mocoa. È una persona così divertente, mentre Salvador era cupo e ritirato e sembrava sofferente. Non riesco a ricordare molto bene la prima volta con Salvador. Forse la prima volta fu effettivamente con Santiago Mutumbajoy. Penso di sì.
PLW: Allora il tuo primo viaggio non fu una grande rivelazione?
MT: Fu con Santiago Mutumbajoy. C’è un interessante paragone da fare tra questi due sciamani. Diversamente da sua moglie Gratulina, Salvador era cupo e ritirato, e ciò che posso definire, a beneficio della discussione, un vero e proprio “purista”. Aveva una capanna dello yagé proprio nel profondo della foresta. Dovevi seguire una dieta, smettere di mangiare almeno 24 ore prima, e in nessun modo lo si poteva prendere se vicino c’era una donna con mestruazioni o incinta. Una grande cosa! Era circondato da molti tabù. Interessante è che il padre di Salvador era un raccoglitore di gomma, un cosiddetto uomo bianco, non un indiano, ma sua madre era indiana. Successivamente incontrai un altro sciamano Kofan chiamato Pacho Quintero, che stava morendo lentamente presso un altro fiume, l’Hormigero. Scendendo dalla città di Hormigero. Pacho mi fu descritto come un brutto tipo, sempre coinvolto in fatti di stregoneria e omicidi. Quando gli feci visita (un’avventura in sé stessa) mostrò una profonda avversione per la società dei bianchi. Una persona a favore degli Indiani uscita da Black Elk Speaks! Un piccolo tipo raggrinzito, che viveva nel profondo della foresta, da lì stava facendo venir fuori tutte queste cose indigene. Ed era tutto sui generis, non come ora. Oggi consiglio a tutti di essere estremamente sospettosi delle filosofie a favore degli Indiani avanzate da gente dell’Amazzonia, perché ora sono stati completamente esoticizzati sia da cantanti come Sting che da attrici di Hollywood che vanno a salvare l’Amazzonia. Nel mondo tutta la gente “primitiva” è ora consapevole che ha un ruolo speciale da giocare nell’immaginazione occidentale. Ma questo che ti dico è accaduto prima. Per me Pacho era sorprendente. Suo padre era un raccoglitore di gomma, bianco. Quello che mi interessava sia di Pacho che di Salvador era che c’erano questi forti sciamani dell’ayahuasca, profondamente immersi nella purezza della tradizione. Così tanti divieti! Ma entrambi sono nati da matrimoni ibridi. Molto interessante per me. Ricordo che Pacho aveva un figlio di nome Benjamin che viveva dall’altra parte del fiume – padre e figlio separati da questo piccolo fiume – e il figlio aveva questi poster alle pareti sull’importanza dell’istruzione e cose di poca importanza. Ricordo suo padre prendersi gioco di questo e dire: la foresta è la mia scuola! Così se pensi che la tradizione derivi dal fatto di essere Indiani puri, qui hai questi due tipi i cui padri erano effettivamente bianchi, e tuttavia sostenevano il tradizionalismo più estremo.
A proposito, devo dirti questo. Era la vigilia del nuovo anno ed ero lì con il mio ragazzo, Tico, che aveva circa due anni – lo stavo ancora portando in giro – e Anna, insieme a Pacho Quintero. È arrivato un tipo, un bianco, forse di 50 o 60 anni, con stivali di gomma, dall’aspetto molto selvatico, che portava una bottiglia di aguardiente come regalo per il nuovo anno. Era tedesco e mi sembrava che vivesse nascosto lì nella foresta del Putumayo. Poi ho saputo di questo nazista che tutti stavano cercando – penso che il suo nome fosse Bormann…
PLW: Martin Bormann?! Hai preso l’ayahuasca con Martin Bormann?
MT: Beh, non l’ayahuasca… ma me lo sono sempre chiesto! Chi era quel tipo? Il Putumayo nasconde curiose persone. Scott mi ha detto del Putumayo, di come molte persone dedite alle droghe siano venute qui. William Burroughs è stato qui, e un certo Claudio Naranjo che ha scritto sull’ayahuasca, uno psicologo cileno che ha studiato e insegnato a Berkeley… Scott dice che molte persone hanno attraversato il Putumayo…
La cosa che volevo dire era che la persona con cui mi è veramente piaciuto prendere lo yagé non è stata Salvador, ma quella a cui sua moglie Gratulina mi ha indirizzato. Disse: Oh, devi fare una visita a Santiago Matumbajoy, a Mocoa. Ho resistito a questo consiglio perché mi trovavo nel profondo della foresta e Mocoa mi suonava troppo urbana. Un piccolo paese di campagna, molto lontano dal resto della Colombia – ma era una città. Ora, per ammissione lui viveva qualche miglia fuori – dovevi attraversare un ponte oscillante di bambù, viveva in una piccola casa su una collina nella foresta e così via. Volevo fare la vera esperienza primordiale, e Macoa sembrava troppo civilizzata! Ma Santiago Matumbajoy era – ed è – una persona molto divertente e incredibile… Mi piaceva…
PLW: È ancora vivo?
MT: Sì. Alla fine il mio libro tratta basicamente delle mie esperienze con lo yagé insieme a lui. Il punto che volevo stabilire è questo, lui è certamente un indiano “puro” ma parla la lingua degli Inga (e lo spagnolo), mentre Salvador parla la lingua dei Kofan (e lo spagnolo). Ora, molto probabilmente gli Inga sono il più grande gruppo di Indiani nel Putumayo. Vivono nelle pianure ma anche sulle montagne della Valle di Sibundoy, e quegli uomini-medicina Indiani erranti di cui ho parlato prima – vanno dappertutto, per la Colombia, Panama, Venezuela, Ecuador – vedi, sono tutti Inga. Questi uomini-medicina erranti sono come zingari. E c’è un altro gruppo simile in Bolivia, chiamati Collahuyas – questa gente è affascinante, vaga per mezzo continente…
PLW: Pensi che lo stiano facendo da migliaia di anni?
MT: Probabilmente da molto tempo. La Valle di Sibundoy forma una specie di autostrada naturale tra le montagne e le pianure della Colombia. I montanari erranti sostengono che il loro potere arriva dai severi sciamani delle pianure, che non viaggiano – gente come Santiago Matumbajoy – e c’è molta tensione tra gli Inga. Gente come Salvador ti dice che devi digiunare, non mangiare o bere – ma agli Inga non importa. Dicono: Oh sì, va bene, non ti è permesso fare questo, non ti è permesso fare quello. Ma abbiamo una medicina che puoi prendere, e allora puoi farlo! Così per ogni tabù hanno una medicina che ti dà la licenza di aggirarlo. Gli Inga mi piacciono veramente. Possono aggirare qualsiasi cosa con una pianta. Così questo è il divertimento, la malizia se preferisci, degli Inga – specialmente di un tipo come Santiago Matumbajoy. Leggendo altri rapporti etnografici o parlando con persone come Salvador, ho avuto la sensazione che gli Inga, che sono più vicini alla città, non sono familiari o a loro agio con molta della cosmologia indigena. Ma lo dico con qualche esitazione, perché penso che gli antropologi (specialmente in questo periodo) abbiano la tendenza a sovra-sistematizzare e sovra-elaborare certe cosiddette “cosmologie indigene”. Sai che si siedono lì per giorni, mesi, anni con il loro taccuino a unire gradualmente i puntini – e non sono sicuro quanto di ciò sia conoscenza generale e quanto sia posseduto da una particolare persona o “informatore”, quanto di ciò sia sovra-imposto… Così con un tipo come Santiago Mutumbajoy a volte penserei che fosse… non secolarizzato ma forse urbanizzato o modernizzato…
PLW: Usava perlopiù la sua conoscenza per guarire?
MT: Sì. C’erano cose che non conosceva o di cui non si sentiva sicuro, o per le quali non conosceva la risposta. Ma a volte ho percepito che era così perché era semplicemente più onesto della maggior parte delle persone.
PLW: Non hai scritto da qualche parte che nel caso dell’ayahuasca – e di altre cose – la “vera conoscenza” è sempre da qualche altra parte?
MT: Sì, è come un’allegoria della conoscenza stessa.
PLW: Così ricordi il tuo primo viaggio con Santiago?
MT: In modo preciso. Si trova nel libro, quando si trasforma in una tigre. Mi sono girato e ho visto questa tigre seduta su un’amaca, corpo umano con piedi e gambe nei pantaloni, il tronco era una via di mezzo, ma la testa, con tutte quelle strisce e il pelo attaccato, era quella di una tigre – una tigre seduta su un’amaca. Ho allontanato lo sguardo ed era uno sciamano; mi sono girato ed era una tigre. E poi ho vomitato. Ho vomitato di brutto. Ricordo molto chiaramente la prima notte. Questo è ciò che mi fa pensare che probabilmente non avevo preso lo yagé prima con Salvador, perché era un tale lagnoso.
PLW: Non hai potuto seguire esattamente tutte le regole?
MT: Beh, lui non aveva lo yagé o le stelle non si trovavano sul meridiano giusto… Ma successivamente presi lo yagé con Salvador e fu un’esperienza molto toccante. Sarebbe andato nel profondo della foresta a fare questa capanna, solo un tetto con quattro pali – una cosa piuttosto discreta, più lunga di questa stanza, forse il doppio, coperta di paglia.
PLW: Per i viaggi in gruppo?
MT: Quattro o cinque persone.
PLW: E hai seguito le regole dietetiche?
MT: Solo non mangiare per 48 ore… Puoi bere…
PLW: È stato il caso in cui questa dieta ha reso il viaggio più facile, con meno defecazione e vomito?
MT: Beh, così dicono. Ho un cattivo rapporto con il vomito. Per me è molto doloroso, come se avessi l’esofago diviso. Voglio dire che quando vomito è come se mi si aprisse tutto, è veramente doloroso. Questa è una delle ragioni per cui verso la fine dell’esperienza rallento un po’. Negli anni ho preso molto yagé, ma sono spaventato… Quando sei nel profondo della foresta e senti come se il tuo esofago stesse per scoppiare… nessuno sta per… non sopravviveresti.
PLW: Quante volte hai fatto l’esperienza?
MT: Non ho mai tenuto il conto, ma credo che possano essere 30 o 40.
PLW: Qual è il risultato di questa esperienza di 30 o 40 viaggi con l’ayahuasca? Quale conoscenza ne hai ricavato, se ce n’è una? Eri solo stordito? Hai avuto rivelazioni? La tua vita è cambiata a causa dell’ayahuasca o era solo qualcosa che stavi facendo?
MT: Non saprei. Queste sono domande che appunto continuo a chiedermi. Sarebbe bello ripensarci ora in un momento impulsivo concentrato. Penso che ora sappia di più su molte cose e sia meglio capace di sostenere l’esperienza. Così in un certo senso sto rispondendo alla tua domanda dicendo… C’è qualcosa oltre o a lato dell’esperienza, o che non è dato nell’esperienza. È un trucco. Credo che ora mi piacerebbe pensare a quelle esperienze al di fuori delle esperienze stesse. Tutto ciò che sono in grado di ricordare ora è la sorpresa, l’eccitazione, la visceralità… Penso che sia come un laboratorio… o una tavolozza, come quella di un pittore, di sensazioni e idee, idee mezzo formulate su cui puoi continuare a ritornarci e riordinare in modi diversi. Per esempio, uno potrebbe provare a rimescolare immagini isolate e frammenti di immagini, a confronto con una qualche trama sviluppata in modo abbastanza lineare. L’esperienza con lo yagé è sempre qualcosa a cui puoi ritornare (finché sei in grado di ricordarla) per ripensare a tutte queste questioni molto di base, perché sei stato così diviso e perché si è presentata una tale insolita miscela di sensazioni. In parte è come avere un altro organo di senso aperto, oltre ad avere occhi, orecchie, il gusto, la pelle, i genitali, ora c’è anche l’“organo yagé”, ed esplode attraverso la coscienza, così come la viva essenza intelligente di sé stessi.
PLW: Hai già scritto su alcuni di questi temi. Diresti che il tuo pensiero era direttamente modellato dalle esperienze con l’ayahuasca? Non proprio scrivere su, ma scrivere a partire da?
MT: Dio, mi piacerebbe pensarla così. Penso che nel libro ci sia molto di ciò.
PLW: Lo penso anch’io, e questo è il motivo per cui ti sto pressando su questo argomento.
MT: C’è un’intersezione tra l’impatto dello yagé da una parte, e il tipo di stile e il problema sollevato da Walter Benjamin dall’altra.
PLW: Beh, anche lui ha usato droghe – e ha imparato da esse.
MT: Vero! Ma è stato più come se le droghe avessero confermato le sue intuizioni e teorie estetico-politiche (che possiamo in parte, ma solo in parte, ricondurre al surrealismo, Proust, Marx e il misticismo ebraico).
PLW: Consideriamo la questione, diciamo della “fuga” dell’ayahuasca dalla giungla nel mondo urbanizzato. Non sarebbe mai dovuto accadere? Naturalmente è una questione teorica, perché è accaduto – ma è una cosa buona o cattiva o non lo sappiamo ancora? C’è un modo “proprio” per l’ayahuasca di entrare nella nostra cultura urbana esterna a partire dalla sua origine nella giungla?
MT: Non sono soddisfatto della mia reazione a questa domanda. Non mi piace, e l’ho percepito per lungo tempo – per 20 o 25 anni. Ricordo quando ero seduto a Popayan con un vecchio hippie che arrivava dagli Stati Uniti – io non sapevo niente dell’ayahuasca o del Putumayo o di altre cose. Stavo dicendo di quanto spiacevole fosse l’idea che i gringo andassero nella giungla a prendere l’ayahuasca con gli Indiani. Il tipo mi diede, molto giustamente penso, una buona possibilità di confronto e disse in modo molto rilassato che non poteva vedere niente di sbagliato in ciò – qual era il mio punto? – etc. In un certo senso la tua domanda è solo un ampliamento di quella. Trovo la mia attitudine spiacevole. Ho avuto questa stessa discussione recentemente, un mese fa, di nuovo a Popayan, questa volta di notte, a una grande festa di antropologi perlopiù giovani (per dire, dei ventenni). Mi stavano pressando con la stessa domanda, e hanno trovato difficile seguirmi e conservatore.
PLW: La tua avversione è ispirata da idee o è proprio viscerale?
MT: (Ride). Penso che sia un’avversione viscerale. Beh, prima di tutto penso che la ragione per cui mi trovo in disaccordo con me stesso sia che devo distinguere tra un’esperienza autentica e un’esperienza non autentica commercializzata – e sono sospettoso di questa dicotomia. So quanto sia facile farlo, e sono spaventato dalle implicazioni di questo tipo di distinzione. Ma ciò nonostante queste sono le mie basi. Mi piace pensare che ci sia un’esperienza meno e più commercializzata, che in quest’ultima la gente mente o permette alla loro immaginazione di fluttuare in aree in cui altrimenti non si troverebbero – ed è questo che mi preoccupa di tutto ciò. Mi trovo preso in un particolare tipo di percorso. Quando ho parlato con Santiago Mutumbajoy – di niente in particolare – ricordo una storia che mi raccontò, che ho inserito (in modo molto deliberato) nel libro sullo sciamanismo. Mi disse che quando era giovane e prendeva l’ayahuasca con uno sciamano e un altro sciamano e così via, c’era un tipo che tutti loro rispettavano moltissimo, un piccolo vecchio indiano raggrinzito – Patricio – e prendevano l’ayahuasca con lui. Egli fece il giro del gruppo chiedendo alla gente che tipo di fortuna o destino volessero. Una persona disse che voleva una magia per fare soldi, un’altra che voleva una magia per la caccia. E Patricio disse: va bene, questo tipo è sulla giusta lunghezza d’onda. E quando ascolto Santiago che racconta la storia, penso, sì, va bene, sono i cacciatori contro i capitalisti, e questo vecchio sciamano sta per mettere con le spalle al muro questo tipo che vuole soldi. Ma la storia continua. Patricio disse: la magia della caccia è la migliore perché con quella fai anche i soldi! Così mi sono reso conto di che tipo di persona affettata fossi. Stavo facendo una divisione del mondo, e questi Indiani erano, penso, nietzschiani, dionisiaci. Può esserci di tutto! E cos’era quella stupida costrizione che stavo imponendo, quella linea che stavo tracciando tra il mondo del denaro e quello della caccia, il mondo della città e quello della giungla? Così ho sempre cercato di ricordare questa storia. Penso che questo fatto dionisiaco di prendere la droga possa trascendere tutti questi mondi.
D’altra parte avevo fatto delle esperienze. Ricordo che una volta stavo guardando delle persone preparare una sessione di yagé a Bogotà. Era la prima volta che mi accadeva – nei tardi anni ’80. Era coinvolto un mio amico, un indiano. L’impressione generale della situazione non mi piaceva per niente. Rinunciai proprio prima che prendessero l’ayahuasca, quest’ampio gruppo di gente della classe media che aveva invitato un indiano, il quale, pensavo, non sembrava saperne moltissimo – non sarebbe stato classificato come uno sciamano potente o una figura importante nel Putumayo. Ma era il meglio che potessero avere a Bogotà. Nessun dubbio che avesse imbrogliato qualche cugino per vendergli pochi galloni di ayahuasca e che stesse per fare una discreta quantità di soldi con questa gente. La presero a casa di un dottore. La mia sensazione era che sarebbe stato spiacevole – c’era un solo bagno, in un sobborgo della classe media, con candelieri e tappeti spessi. E c’era questo tipo indiano seduto su un piccolo sofà, scalzo, che si arrotolava una sigaretta, il quale sembrava incredibilmente fuori posto. Tuttavia rilassato e padrone della situazione, sentivo che sarebbe andato tutto bene. Ma credo che stessi pensando ai mondi del pensiero e alle fantasie che i bogotani della classe media apporterebbero a questa situazione. Proprio come avrei fatto, feci e continuo a fare io – ma loro non avevano la profondità dell’esperienza che avevo io per, forse, modificare… Mi sentivo spaventato da ciò, da queste proiezioni e desideri, queste fantasie che la gente di città porta con sé. Se questa cosa si ingrossasse come una palla di neve e diventasse sempre più potente, potrebbe sembrarmi che essi apporterebbero le pratiche indiane alla loro scia e le modellerebbero – in dieci, venti, quarant’anni – e si svilupperebbe qualcosa di completamente bizzarro. Come penso che sia successo con i culti brasiliani dell’ayahuasca come il Santo Daime. Ho visto un video su questo che mi ha mandato fuori di testa – il tutto sembrava molto autoritario, molto diverso, con una netta divisione tra i sessi, etc. Posso adattarmi, posso vederci delle basi logiche, ma c’era qualcosa della razionalizzazione gerarchica di ciò che per me è sempre stata una pratica semi-religiosa di tipo informale e scherzosa – una spinta verso una specie di incrocio tra l’esercito e la Chiesa Cattolica, il che non mi piace per niente.
Qui c’è un problema profondo, il provare a capire la mia antipatia per quanto ti ho detto. Mi taglia fuori da molte cose. Mi piacerebbe molto prendere l’ayahuasca qui, a New York… ma non saprei…
PLW: La mia domanda non era se ti piacesse o meno, quanto se pensi che esista un certo uso in altra gente che lo fa. In altre parole, sei disposto ad accordare un aspetto “sociale” a questo fenomeno in crescita della fuga del potere delle piante dai loro tradizionali segreti nascosti? Uno pensa alla storia piuttosto terribile di Maria Sabina, come la sua vita fosse stata quasi mandata in rovina da Gordon Wasson…
MT: Questo non lo so, dimmi.
PLW: Anni dopo che incontrò Wasson, Maria Sabina fece un’intervista con un antropologo messicano in cui espresse molto rammarico – spiacevoli problemi con la sua famiglia, nel villaggio, etc. Deplorò l’invasione degli hippie – sembrava persino percepire che fino a un certo punto i funghi avessero perso il loro potere. Da un certo punto di vista sono sicuro che avesse ragione – ma non sarebbe stata in grado di vedere o di giudicare veramente il valore di ciò che era successo fuori del suo mondo: un’intera generazione di persone, in tutto il mondo, proveniente da ogni esperienza di vita, che hanno… beh, lo sai, espanso la loro coscienza.
MT: A questo proposito ho due cose da dire. La prima è che c’è un’assunzione antropologica tradizionale che suona un po’ superficiale, che la droga ha un vero significato nel suo contesto culturale, cosicché prenderla in città o negli Stati Uniti, etc. è cancellare o tralasciare quell’aspetto fondamentale. La seconda è che uno reifica la droga e la rende più importante di tutto il resto, mentre per l’antropologo la droga è importante ma solo nella cultura in cui la si usa, diciamo qui nel Putumayo. Questa è la classica assunzione antropologica e naturalmente si è ottenuto molto nel seguirla. L’altra cosa che volevo dire è che il figlio di uno sciamano del Putumayo, che ho conosciuto quando aveva circa 15 anni, non ha mai mostrato un vero interesse per la cultura indiana – mostrava proprio una specie di imbarazzo per ciò, cercava di non apparire come un indiano, indossava abiti occidentali e aveva un taglio di capelli occidentale, non parlava mai la sua lingua eccetto quando era costretto a farlo. Quando aveva 25 o 28 anni, qualcosa in Colombia è mutata di 360 gradi – lì è successa una cosa fenomenale. Improvvisamente gli Indiani erano “alla moda”. Prima era gente da rovinare con il vaiolo, ubriachi, etc. Ma a causa della mobilitazione politica nelle Ande Centrali, fino ai Paéz e Guambyani – ci sono stati due senatori indiani, un movimento politico, stavano riprendendosi la terra, stavano orgogliosamente ostentando la loro lingua e modi di vestire. Meraviglioso. Ma i bianchi, la gente di città non indiana, erano improvvisamente cambiati: anche loro volevano essere indiani. Tutti erano affascinati dagli Indiani – che formano forse l’1% della popolazione colombiana – cioè da quelli “ufficialmente designati come Indiani”, così gli Indiani divennero di gran moda, come è successo in tutto il mondo. Rivitalizzazione. Cosa è nato prima, l’uovo o la gallina? In un certo modo, i gruppi indigeni, incoraggiati dall’interesse del Primo mondo nel loro modo di vivere, sono stati capaci di costruire la loro propria fiducia e poi mettere pressione sulle società dei bianchi che – nonostante alcune contraddizioni – ora erano più aperte a pensare agli Indiani in un modo diverso da quanto avevano fatto per molto tempo. Così il figlio dello sciamano era parte di quel movimento. Decise che sarebbe diventato uno sciamano. Gli piace sempre prendere lo yagé. Così ha iniziato, attraverso questa rete urbana, a creare contatti e ottenere inviti a viaggiare – prima in Costa Rica, penso, con seminari sulla religione, la religione occidentale, etc. – poi a Puerto Rico, San Francisco e New York. Quando ho chiesto di lui il mese scorso, in Colombia, mi è stato detto che il padre e la madre erano andati via dalla sua casa perché non potevano sostenere la tensione, ed erano ritornati nella foresta. Il figlio li ha tirati fuori dalla foresta otto anni fa, quando furono attaccati (ma questa è un’altra storia). Ora questa coppia molto anziana è ritornata nella foresta. Perché non potevano sostenere la situazione in casa? Perché con i viaggi del figlio sua moglie, in sua assenza, frequentava un altro tipo. Questo tipo si ubriacava e la picchiava – brutte scene in giro. Ora sarebbe troppo facile, e avrebbe il gusto di qualcosa di moralistico da parte mia, dire che non posso fare a meno di pensare – sulla linea della tua storia di Maria Sabina – che è possibile che stiamo assistendo alla distruzione di gente o sotto-culture, o almeno a nuove tensioni e traumi.
PLW: Supponi di considerarlo dal punto di vista degli ayahuasqueros, e diciamo – anche solo come una metafora – che le piante stesse hanno un ordine del giorno. Gli spiriti hanno un ordine del giorno. A volte questo è stato espresso con il concetto per cui, poiché le culture tribali sono in pericolo di essere distrutte, sia che condividano i loro segreti o meno, le piante “vogliono” essere liberate dalla giungla (o quello che sia). Lo trovo intrigante perché ne ho avuto esperienza io stesso. Come hippie degli anni ’60 non avrei fatto le esperienze che ho fatto – effettivamente neanche con l’LSD – se Wasson non fosse andato in Messico e avesse riscoperto le piante “dimenticate”. Il movimento psichedelico dovrebbe moltissimo a Maria Sabina e agli sciamani di “altri mondi”. Per loro ebbe effetti negativi e distruttivi, ma anche per noi! Così se le piante veramente avessero un ordine del giorno, è come se questo fosse il caso – così possiamo anche accettarlo e conviverci. Parte di ciò è il feedback nelle culture indigene che hai descritto. Naturalmente era di tipo politico – l’orgoglio indigeno – ma coinvolgeva anche lo sciamanismo e le piante. Per il meglio o il peggio? Su questa base potremmo forse giudicare avvenimenti particolari o tipi di turismo perniciosi e il falso neo-sciamanismo.
MT: Sono d’accordo. C’è un modo per rimanere “impassibili”, ma non molta gente è in grado di vederlo o esserlo. Il pericolo sarebbe un’interazione culturale disonesta. C’è molta fluidità tra… diverse parti del mondo (stavo per dire, tra culture o società, ma queste cose diventano difficili da definire sotto la globalizzazione). Se hai a che fare con gente che va in giro scalza e coltiva grano, e può anche avere una televisione, anche se non si muovono molto da dove vivono… il loro senso dell’humor, il loro modo di comprendere, il loro senso di essere nel mondo, sarà diverso dal tuo e dal mio. Prendono insieme questa droga (in genere gli uomini molto più delle donne), che potenzia e accelera le loro percezioni, visioni, sogni di vita, paure. Dovresti pensare che ci sia un’enorme spaccatura o in ogni caso una differenza, tra questa gente. È difficile vedere come ci possa essere un mescolamento tra di noi. A parte ciò, molto di questa esperienza con la droga – l’ayahuasca – dipende da componenti sconosciute (per gli Indiani e i non-Indiani). Mi sembra che i non-Indiani, specialmente la classe media cittadina, latino-americana, europea, nord-americana, elaboreranno incredibili fantasie sui poteri degli sciamani, caratteristiche coerenti di cosmologie, etc. Per me è qui che si è fatto il danno principale, nel costruire (come fanno gli antropologi, forse con più cautela ma ugualmente colpevoli), una “cultura indiana” con cui dare senso alle loro esperienze con la droga. Questo mi procura moltissima ansietà e rabbia.
PLW: Si è condannati a un transfert negativo? Non potrebbe esserci un mutuo miglioramento? E gli antropologi “impegnati”, i “difensori”? C’è vera reciprocità? A beneficio della discussione dirò che non sembri aver considerato le possibilità positive del transfert culturale, che può funzionare da una parte e dall’altra.
MT: Posso vedere tentativi nella protezione economica, sforzi per stimolare il potere politico, ma in entrambe queste situazioni sembra che ciò che io considererei divertente e importante per la cultura sarà distrutto. Sia che tu sia sradicato economicamente o sostenuto economicamente da nuove istituzioni, è una nuova partita. Qualcosa sarà radicalmente cambiata. Forse questo è solo per dire che ogni cosa sarà seppellita man mano che il tempo passa.
PLW: Allora non è “colpevole” anche l’antropologia?
MT: Non proprio. Pochissimi antropologi, che scrivono brevi monografie e articoli, ma se parliamo, diciamo, di tentativi istituzionali per aiutare le tribù indiane a mantenere il “possesso” della loro propria conoscenza – costruzione di un’istituzione, quantunque per difesa o resistenza – una volta che una cultura si pone in un modo difensivo autocosciente, è distrutta. Non voglio argomentare contro, perché la distruzione accadrebbe anche per altre ragioni. Forse la vedo come una situazione di non-vittoria. Forse una strada è leggermente meglio dell’altra, ma è tutto.
PLW: Circa 50 anni fa la gente credeva che le culture indigene fossero condannate. Era un’emergenza. La conoscenza doveva essere salvata prima che la modernità la distruggesse. Oggi invece vediamo una rivitalizzazione paradossale delle culture indigene – in parte grazie all’impulso dall’esterno. È vero?
MT: Uhm, una situazione difficile. Mi ricorda le discussioni che ci sono state pochi anni fa in antropologia. Come l’argomento di Marshall Sahlin secondo cui, a causa della globalizzazione e contro la globalizzazione, c’è una rivitalizzazione delle culture indigene nel mondo. Che modernizzazione significa veramente indigenizzazione. Ho molta simpatia per questo argomento e desidero che sia vero, ma la mia sensazione è che sia un’indigenizzazione falsa, totalmente falsa, il che mi spaventa. E lo sentirai ogni volta, Peter, nel canto.
PLW: Non stai forse facendo della “purezza” un feticcio?
MT: Sì, è da lì che abbiamo iniziato questa conversazione! Mi rendo conto che mi sono messo da un’angolazione da cui vedo culture “autentiche” e “non autentiche”, e non mi piace! Comunque, questa distinzione è precisamente ciò che viene esacerbato dalla globalizzazione. Più che esacerbato. Prima la questione era la vita o la morte degli indigeni. Ora è la loro “autenticità”. Incidentalmente, nel Putumayo gli Indiani furono uccisi durante il boom della gomma (1900-1920) come l’Altro razziale. Ora i bianchi vanno dagli Indiani per una cura allucinogena! Puoi intenderla come le due facce di una stessa medaglia.
PLW: Non crediamo più nella cultura primitiva immutabile, non è vero?
MT: È vero. Ma c’è un’enorme differenza tra i cambiamenti nelle società indigene verso il 1850 e quelli attuali negli anni 2000. Per esempio, prima della colonizzazione la società aborigena australiana è cambiata in diversi modi e ha ricevuto influenze da direzioni molto differenti – fenomeni naturali, l’Indonesia, etc. – ma niente sulla scala di ciò che sta accadendo ora. Specialmente quando le culture sono soggette a una profonda distruzione, come è accaduto in Australia giusto negli anni ’50, con il governo che portava via i bambini aborigeni (bambini che sembravano “bianchi”) – quel genere di porcherie – un’incredibile distruzione ed eliminazione intenzionale della cultura aborigena. Ora tutto ciò è cambiato – la politica è fortemente polemica su questo – ma ciò nonostante c’è un movimento diffuso secondo cui queste culture sono buona cosa e dovrebbero essere preservate. Beh, questo ha anche i propri rischi incredibilmente distruttivi, giusto?
PLW: Ma considerando la cosa dal punto di vista delle tribù (se possibile), che altra speranza esiste? Non possono dire, scusateci, stiamo ritornando al 1700! Tutti assumiamo che non si può riportare indietro l’orologio della storia. Un giorno mi piacerebbe pensare a un argomento contro questo cliché, ma prendiamolo per dato.
MT: Lasciami dire questo, in accordo con il punto che stai discutendo. Mi sembra che in un paese come la Colombia ci potrebbe essere una specie di de-borghesizzazione della società mainstream. Questo mi sembra importante. Prendi la questione dell’incarcerazione come punizione stabilita dalla legge “occidentale”, in tutto il mondo. Sulle montagne della Colombia al Consiglio Regionale Indiano di Cacua (se si chiama ancora così) non piace l’incarcerazione, pensano che sia disumana e inefficace. Preferiscono frustare la gente o metterla alla gogna (una pratica coloniale spagnola amalgamata con certe idee degli Indiani, la gogna non è un’idea degli Indiani, per quanto ne sappia). Questo ci porta nel territorio che Foucault ha aperto: idee dell’illuminismo contro quelle del pre-illuminismo sulla punizione in Francia. Io stesso tendo a pensare che le frustate e la gogna sarebbero molto meglio che l’incarcerazione. Questo è il mio personale punto di vista. Sosterrei qualcosa del genere per me stesso.
PLW: Se dovessi essere punito, preferiresti questo?
MT: Certo. Sappiamo che le prigioni sono incredibili buchi d’inferno, depositi di gente, etc. Offro questo come un esempio, un parallelo con la situazione dell’ayahuasca.
L’altra cosa su cui mi piacerebbe riflettere è di provare a spostare l’attenzione dalla preservazione o autenticità e provare a pensare al possibile impatto sulla società mainstream. Come con gli zingari, l’esperienza proletaria di massa, i vagabondi (negli Stati Uniti), il futuro contributo degli indigeni sarà un’oscura coscienza urbana che si stabilirà ai limiti – che non sarà mai veramente accessibile alla società mainstream. Sono consapevole dei pericoli di questa “romanticizzazione”. Ma ciò che accadrà, o è già accaduto agli indigeni, è che vivranno nelle crepe della burocrazia, a lato di autostrade e linee ferroviarie. Uno non può predire il futuro, ma sospetto che questa è la realtà di cui stiamo parlando. Per me, negli anni ’60 molte delle relazioni con le droghe non sono avvenute con gli indigeni ma con la sottocultura urbana che usava marijuana o cocaina a partire dalla fine del XIX o inizio del XX secolo. Gente forzata a vivere oltre le loro capacità in circostanze disperate nell’America urbana piuttosto che tra gli imperturbati primitivi nella Madre Natura. Mi è sempre sembrato che questo fosse la componente centrale della cultura della droga.
PLW: Il romanticismo non è necessariamente una cosa brutta. Negli anni ’60 abbiamo romanticizzato la figura dell’indiano come un eroe sconfitto, in quanto noi stessi ci sentivamo sconfitti. E nonostante tutte le fesserie, gli errori e l’“appropriazione”, credo ancora che questo scontro con lo sciamanismo possa essere l’unica cosa positiva che possiamo tirare fuori dai detriti degli anni ’60.
MT: Mentre parlavi mi sono venute in mente un paio di cose. La prima, la più ingenua osservazione del secolo, è che in Occidente la droga è usata moltissimo. Non nel mio immediato ambiente. Due mesi fa stavo bevendo una tazza di caffè a Manhattan, fuori, doveva essere primavera, pochi momenti da far trascorrere. Uno yuppie si siede, evidentemente appena arrivato a New York, ha un appuntamento con una ragazza; entro tre minuti stava parlando di tutte le droghe che aveva e che avrebbe preso durante il fine settimana. Dagli amici dei miei figli ho avuto l’impressione che l’America è sommersa da adolescenti che prendono droghe. Mi dico, sii realista! Questa cosa quasi-sciamanica è proprio dietro l’angolo, esiste già. Ma che forma prende? Non voglio dire che la gente dei sobborghi del New Jersey che prende droghe semplicemente non possa per niente avere lo stesso tipo di esperienza degli sciamani – questo è “mero individualismo” o individualismo totalmente autodistruttivo. Ma le droghe sono qui e ci staranno per lungo tempo. Deve esserci qualche adolescente molto creativo, lì, che fa cose meravigliose con esse. In che modo possiamo anche solo iniziare a parlare di ciò usando l’inventiva e gli esperimenti delle pratiche indigene in Sud America come una guida molto grezza? Il contrasto e il confronto possono essere utili, anche positivi. Fino a quel punto sono d’accordo con te.
Un’altra cosa, ritornando alla questione nietzschiana/dionisiaca. Ricordo di essere stato portato a visitare un certo curandero nel Messico Centrale da una mia amica della classe media, negli anni ’70. Aveva dei problemi personali e consultava costantemente questo tipo. Per quanto ne so, non usava droghe. La prima cosa che le disse fu: bene, comadre, dobbiamo sapere la differenza tra i nostri amici e i nostri nemici. In quel periodo stavo leggendo Mao Tse Tung e ne ero stimolato! – quella dichiarazione politica molto pacata su come trattare con la sfortuna nella propria vita, come le cose non sembrino mai andare bene, dipendenze, depressione, come la chiamiamo in termini occidentali. Poi ho pensato di prendere una droga (lo yagé) nel Putumayo. Un certo livello di oscenità, di humor ignobile, passione per l’omicidio, paura di essere uccisi o voler uccidere mentre si prende lo yagé – tutto quel genere di cose – sembrano finora rimosse dalla nostra esperienza. Questa miscela di interessi pragmatici quotidiani, anche economici, con una sorta di poesia ed estasi. Questo è ciò con cui è così difficile avere a che fare o calcolare in Occidente (o almeno per me). Perché tendo immediatamente a dicotomizzare e a chiedermi come questi due aspetti possano coesistere. Ma questo è l’unico modo in cui io o tu possiamo trattare il problema. Un problema filosofico se vuoi, o un problema di interpretazione. Molto di ciò che possiamo provare a imparare dagli indigeni sulle droghe non si farà strada, perché non possiamo trattare con quella miscela di durezza e tenerezza. Una barriera insuperabile. È probabile che nelle nostre facezie e discorsi di ogni giorno maneggiamo bene tutto questo, ma quando ci sediamo e proviamo ad analizzarlo troviamo che, come intellettuali, non ne abbiamo gli strumenti.
PLW: Dopo tutto, da una parte hai società che hanno socializzato queste piante per – diciamo – migliaia di anni. Nessuna repressione, nessuna “legge”. Dall’altra, una società che conosce tali piante da un secolo o meno è troppo tecnologicamente brillante per la sua propria prosperità ed è istericamente repressa. Forse, se sopravvivessimo per mille anni o giù di lì, queste faccende si risolveranno. Se ora non stiamo subendo la Fine della Storia, le piante avranno un ruolo da giocare. È intrigante che siano illegali. Questo mostra che è in gioco il potere effettivo.
MT: Quanto della repressione è dovuto alla pianta stessa e quanto all’associazione con la cultura indigena?
PLW: Ampiamente il secondo caso, credo. La maggior parte delle droghe illegali arrivano da culture “non bianche”. Pensaci, è così per la maggior parte delle droghe civilizzate come caffè, tè, tabacco e cioccolato.
MT: Quanto di questa repressione nasce dalla diminuzione dell’importanza del carnevale (nel senso di Bakhtin) nella cultura occidentale?
PLW: Moltissimo, ne sono sicuro.
MT: Mi piacerebbe portare la nostra attenzione su una qualità carnevalesca, la capacità di godersi la fiesta. In Colombia è presente tra i bianchi poveri, e forse anche tra i bianchi non così poveri. Proprio poche settimane fa ero presente a una festa per la Vergine di Rosario, sulla costa del Pacifico. Tre giorni! La gente dorme sul pavimento e aspetta di alzarsi e ballare per tre giorni di fila, ballare e bere, cadere a terra ubriachi e rialzarsi. Il cibo era incredibile per qualità e quantità, non finiva mai. Non conosco nessuno negli Stati Uniti che arriverebbe in una casa con il suo sacco a pelo e poi facesse festa per tre giorni, sia vecchio che giovane. La musica! Disc Jockeys, CD e kazoo – sulla costa colombiana del Pacifico, un milione di miglia da ogni altro posto. Generatori Suzuki, palme ricoperte di papier maché, un palco sulla sabbia per ballare, barche per portare la Vergine sull’oceano alle tre comunità vicine e ritorno. Il problema con ciò che sto dicendo è che non credo che in Occidente sia scomparsa la capacità di allargare gli spazi, entrare in estasi, essere carnevaleschi. Ciò nonostante, ciò nonostante, penso che… sono parziale sull’argomento, che sia scomparso qualcosa di basilare della capacità occidentale di fare esperienze.
PLW: Come Halloween, che nella nostra società minaccia sempre di andare fuori mano, fuori controllo. Da un lato i “disturbi” sono severamente repressi, dall’altro c’è un’intensa commercializzazione, due forme di controllo.
MT: E quando la gente diventa carnevalesca, spesso lo fanno in modi grotteschi, distruttivi, stupidi e da macho testoni e violenti.
PLW: Non viviamo in una società carnevalesca, così quando compare sotto la repressione prende forme negative.
MT: Ricordo un’osservazione di una riga in un libro di Irving Goldman, The Cubeo, un libro estremamente valido basato su un lavoro di campo nella regione del Vaupes in Amazzonia, verso il periodo della Seconda guerra mondiale. Non parla molto di droghe, ma in un punto discute l’esperienza con lo yagé come qualcosa che la gente non fa per piacere. Dice: non conosco nessuno che ha preso queste droghe per piacere ma per l’intensità dell’esperienza, o un’espressione con lo stesso effetto. Le esperienze che ti strappano il cuore portate al limite della resistenza. Sono sicuro che abbia aspetti che chiameremmo piacevoli – ma ha anche qualcos’altro di importante su cui meditare. Molta gente non prenderebbe l’ayahuasca, una droga che induce vomito, defecazione e nausea. Le droghe sintetiche eliminano e mettono da parte tutto ciò. È una buona o cattiva cosa? Fino a che punto l’Occidente può trattare esperienze con la droga se qualcosa è successo a ciò che chiamiamo la capacità di godere a partecipare alla fiesta, al carnevale? Prendendo una pagina dal libro di Goldman potremmo dire: non dimentichiamoci che il piacere è un piacere molto complicato. Porta con sé del dolore. Coinvolge anche la distruzione corporea.
Mi piacerebbe aggiungere questo, che ho usato le parole “fiesta” e “carnevale” ma mi piacerebbe semplicemente citare la capacità di stare insieme in un gruppo – due, tre, fino a venti persone, diciamo, forse otto o dieci – e avere una conversazione che può andare avanti per molte ore – con humor scoppiettante, una specie di orchestrazione ma senza un leader…
PLW: Con lo yagé?
MT: Senza lo yagé. E poi prendi lo yagé, lo aggiungi a quella capacità. Non solo tra gli indigeni. Ho trovato questo in Colombia tra gente con diverse esperienze di vita, classe media, classe media inferiore, urbana, rurale – ma non l’ho trovato molto negli Stati Uniti. Le ragioni sono oscure e complesse. Non voglio speculare, ma sto considerando la capacità di un piccolo gruppo di persone di raccontare storie e godersele in questo modo, storie normalmente umoristiche ma anche filosofiche. Conversazione.
PLW: Un valido punto. Ciò che manca nella nostra società sembra essere forse una certa serietà – chiamala “ceremonialità enteogenica”. Ma lo hai inteso meglio semplicemente enfatizzando il modo in cui un gruppo di persone interagisce. Forse abbiamo bisogno di essere più seri per guadagnare il diritto a tale calore sociale o anche carnevalesco.
MT: Penso alla velocizzazione, so che suona semplicistico, la velocità di cui abbiamo bisogno per andare dal punto A al punto B. Allora penso alla gente che conosco in Colombia, scrittori, piccoli affaristi accademici, contadini, pescatori, estrattori di oro – una varietà piuttosto ampia. Là, la vita è decisamente più lenta. C’è qualcosa di seducente nella velocità, di, diciamo, New York. Tutti i miei amici… Ci sono dentro anch’io…
PLW: “Frenesia”.
MT: Il motore si è imballato. È come una droga…
PLW: Bene, procediamo verso la conclusione, altrimenti avremmo troppo materiale da discutere. Ci sono altri punti che vorresti sollevare?
MT: Una cosa importante con l’ayahuasca è la nausea. Nessuno ne parla molto. Penso che sia responsabile di molte immagini stregonesche e paranoidi – una specie di malattia o disagio stomachevole per la propria posizione o essere nel mondo. Forse procura qualche intuizione privilegiata sull’esistenza delle creature? La sgradevolezza è vista come un guado verso il piacere o bei colori o l’illuminazione – ma non c’è dubbio che tu possa associare la nausea alle parti macabre e spaventose del viaggio con lo yagé. In effetti, esiste probabilmente una correlazione perfetta. Non riesco a capire la resistenza a parlare di questo.
PLW: E gli sciamani? Dicono che è importante passare attraverso la defecazione e il vomito?
MT: No, forse penserebbero che sia pretenzioso dire una cosa del genere. É accettato. Si ride di questo. Scherzi da vomitare?
Un altro punto: quali nuove forme possono assumere queste visioni dello yagé? Ho lavorato con gente che non possedeva i modelli cosmologici di cui leggi negli scritti di antropologia, diciamo tra i Siona o più a valle, o nella regione del Vaupes. Ho vissuto con gli Inga, quelli che possiedono tutti i modi per evitare i tabù. Ritornando alla tua domanda sul “transfert culturale”, penso che gli Inga possano essere quelli in grado di dare un grande contributo al mondo moderno – secondo me ancor più degli Indiani più “puri” o dei “grandi pensatori” tra gli Indiani puri, con cui l’antropologo entra in contatto e poi se ne va con ciò che sembra un’autentica visione intatta o una cosmologia. Questa è una ragione per cui il mio libro sullo sciamanismo potrebbe interessare – perché tratta di gente che, da un punto di vista social-scientifico tradizionale, sarebbe considerata come se avesse sofferto una discontinuità con la tradizione. Come la famosa immagine del bricoleur discussa da Lévi-Strauss, la persona che inventa a partire da brandelli. Penso che probabilmente gli Inga siano sempre stata gente del genere. Questa è la ragione per cui la loro lingua è quella più comunemente usata nella regione. Probabilmente sono stati bricoleur per secoli, che hanno lavorato tra culture. Il fatto che hanno delle droghe per contrastare le trasgressioni dei tabù sarebbe anche parte di questo complesso. Li vedo capaci, come gli artisti modernisti nell’Europa occidentale, di dare grandi contributi alla cultura moderna o post-moderna alla fine del XX secolo.
PLW: Ancora una domanda. Quando sei tornato dalla Colombia mi hai detto al telefono che una delle cose che ti sembrava diversa era come la coscienza ecologica si fosse diffusa. Ti ho chiesto: intendi tra gli intellettuali? E tu mi hai risposto: no, no, tra la gente normale, ordinaria, di tutte le diverse esperienze di vita. Così proprio verso la conclusione mi piacerebbe legare insieme i nostri temi, ayahuasca e sciamanismo, con questa coscienza ecologica. Vedi una relazione?
MT: Non ho visitato il Putumayo, questa volta…
PLW: Intendo a livello mondiale.
MT: Ho trovato che gli Indiani con cui ho vissuto nel Putumayo erano molto non-ecologici. Abbattevano un albero per prendere qualche noce dalla cima piuttosto che arrampicarsi su. Gettavano pannolini per bambini nel corso d’acqua che andava verso la casa successiva. Fregava la gente che viveva mezzo miglio più giù. Defecavano nei corsi d’acqua e così via. Sarebbero stati completamente ingannati da gente che scriveva di Indiani che vivevano in armonia con la natura. Credo che tutte queste siano fesserie. Era semplicemente il fatto che gli Indiani erano una piccola popolazione in tali gigantesche giungle e foreste; non importava se avessero abbattuto tutti gli alberi intorno. Non usavano prodotti chimici. Ma negli anni ’80 potevi venire qui e vedere gente come il mio caro amico sciamano Santiago Matumbajoy ordinare alla gente che lavorava nella sua fattoria di usare spray chimici, e spiegarmi quanto fosse molto più economico che fare il lavoro con una zappa. Sono sprezzante rispetto al concetto di una certa saggezza innata rispetto all’ambiente, o di ciò che possiamo chiamare sensibilità ecologica, da parte degli indigeni. Ammetto che è piuttosto irriverente. Ma, in qualche modo, per ragioni a me mai chiare, in Colombia c’è un movimento diffuso (e perciò immagino anche altrove) che sta inculcando una sorta di coscienza ecologica “politically correct”. Sono stupefatto. Penso che questo in parte sia entrato nei discorsi dello Stato, e lo Stato è dannatamente potente, specialmente a livello della parola – la parola burocratica. Migliaia e milioni di regolamenti e aggiunte e cambiamenti ai regolamenti. E in qualche modo si è diffusa la coscienza che sia sbagliato abbattere gli alberi del corso superiore dei fiumi perché puoi influenzare l’erosione, il volume d’acqua, la sua purezza. È sbagliato uccidere le femmine di una particolare specie animale. È sbagliato usare il veleno barbasco per pescare nei fiumi. È sbagliato usare la dinamite nei fiumi (come facevano tutti) perché non ci sarà più pesce per molti anni, decenni. Sto parlando di due regioni in particolare. Una sarebbe nelle zone dell’agrobusiness, gente che lavora nelle città e appena fuori, contadini circondati da enormi interessi dell’agrobusiness e più recentemente industrie multinazionali. E là gli interessi ecologici sono forti e la gente li usa per combattere e ottenere accordi migliori dalle multinazionali. Lì, salvare e proteggere l’ambiente si trova sullo stesso piano della domanda di lavoro. Suona come se dicessi che la gente stia giocando cinicamente e strumentalmente la carta ecologica per ottenere degli accordi. Ma non vi vedo una contraddizione. Non voglio dire che sia una cosa cinica. Ora i contadini con cui ho lavorato in queste zone sono in grado di usare l’argomento della riforestazione del corso superiore dei fiumi come un modo per stimolare la cosiddetta “agricoltura tradizionale”, che era arborea. Alberi di cacao, caffè, alberi da frutto, da legname, un’agricoltura tridimensionale basata su modelli di coltivazione molto più intricati e complessi dell’idea del Midwest degli Stati Uniti (o europea) di eliminare la foresta e piantare grano, cotone, canna da zucchero, riso come monocoltura – com’è successo con tutta la bella pianura in Colombia. E qui c’erano questi contadini, sia durante che dopo la schiavitù, che usavano una coltivazione arborea tridimensionale, come la chiamo io. Affascinante, meraviglioso. Così il movimento ecologico si adatta perfettamente a un modo di proteggere e portare avanti uno stile di vita opposto ai lavoratori senza terra, i disoccupati delle città, etc. Poi vai sulla costa del Pacifico – completamente distante – e vedi enormi tratti di foresta (come in Amazzonia). Lungo i fiumi ho scoperto la stessa cosa, e non potevo crederci, è successo tutto in una decade. Pensi che la mentalità sia difficile da cambiare e in genere hai ragione. Ma è come se fosse a macchia d’olio. È come se fosse una religione secolare – e al rischio di sembrare uno svampito dirò che ciò ha toccato proprio i fondamenti di ciò che costituisce una persona, o un animale, o la terra. Deve farlo, vero? Si comprende. Qualcosa ha toccato un nervo scoperto.
PLW: E pensi che tutto ciò ha qualcosa a che fare con l’indigenismo e lo sciamanismo?
MT: È possibile. Certamente le due cose hanno coinciso nel tempo.
PLW: So che non vorresti apparire come un fatuo ottimista, ma non vedi qui qualcosa di positivo?
MT: Certamente. È la cosa più grande. Non potevo credere a ciò che avevo sentito nel 1999. Ero completamente pessimista. Fino in fondo. Ero dannatamente stupefatto dall’essermi imbattuto in questa mentalità nelle zone dell’agrobusiness – una possibilità di far girare le cose. Ero eccitato, devo avertelo detto. Questo è il motivo per cui pensavo che la questione ecologica fosse potente. Sta operando a livello statale, sono entrati nello Stato e hanno iniziato a far girare le cose. Cose stupide come la “trattazione” di Foucault hanno iniziato veramente ad avere un senso per me quando ho dato un’occhiata alla documentazione e ho parlato con gente che si occupa di burocrazia. Quando vanno a quegli incontri burocratici, quando vanno dal Governatore dello Stato, l’enorme dannata burocrazia che si occupa dell’ambiente – sanno come parlare la lingua, la lingua che ora è diventata così importante. È molto più impressionante di ciò che ho visto negli Stati Uniti. E ti ho detto, non è vero, del pamphlet sulla guerriglia in cui mi sono imbattuto (datato al 1998), un pamphlet che era distribuito nelle zone forestali della Cordillera, dove c’è una rapida colonizzazione da parte di bianchi poveri che scendono dalle montagne e si mescolano con neri poveri che sono qui da due o trecento anni, e hanno idee completamente diverse sulle strade e l’agricoltura. E questo dépliant di due pagine sulla guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia ti dice che non puoi tagliare alberi per profitto ma solo per costruire una casa o dei mobili; chiunque sia trovato a fare legna sarà multato e il ricavato andrà alla cassa del tesoro della comunità. Non puoi usare la dinamite per pescare. Non puoi tagliare foreste per coltivare la coca. Meraviglioso. Così ovviamente la semplice equazione tra le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia e la coca (il che è sufficientemente vero in certe zone, non per questa). Come la maggior parte delle cose in Colombia, diventa complicato. È difficile fare una qualche affermazione generale. Ora quelli della Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia sono conosciuti come stupidi autoritari e dei puritani. Ma non mi sono reso conto che sono anche coinvolti nell’ambientalismo. Sta accadendo da tutte le parti. Se anche le multinazionali possano essere forzate a osservare le regole è naturalmente un’altra questione. Ma il fatto che anche la gente comune è entusiasta è per me incredibile. Immagini che stia succedendo proprio qui?
Traduzione di Gianluca Toro
Michael Taussig insegna Antropologia alla Columbia University di New York. Di origine australiana, ha svolto diversi studi etnografici in Sud America. Oltre allo sciamanismo, i suoi interessi si sono rivolti a Karl Marx e Walter Benjamin, in particolare all’idea di feticismo delle merci. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo La bellezza e la bestia (Meltemi, 2017) e Il diavolo e il feticismo della merce (DeriveApprodi, 2017).
Peter Lamborn Wilson (1945-2022), anche noto Hakim Bey, è stato filosofo, saggista e poeta. I suoi interessi hanno toccato diversi territori, tra cui l’anarchismo, le controculture e la mistica sufi, approfondita nei suoi lunghi soggiorni tra India, Pakistan e Iran. Tra le sue pubblicazioni più importanti ricordiamo T.A.Z. La Zona Autonoma Temporanea (Shake, 2020).
Parole chiave: sciamanismo, colonizzazione, antropologia, turismo psichedelico