Rock della perestrojka, requiem per un futuro perduto

Aleksandr Bašlačëv (il secondo da sinistra) e Viktor Coj (il quarto da sinistra) immortalati al Kotel’naja Kamčatka di Leningrado nel 1987

 

di Stefania Persano

Nella seconda metà degli anni ‘80 esplose in Unione Sovietica una scena musicale i cui protagonisti esprimevano la loro opposizione a un sistema repressivo con canzoni-poesie a cavallo fra il rock e la tradizione cantautorale. In questi pezzi, in bilico tra denuncia del presente e nostalgia di un futuro impossibile, si può cogliere il lamento funebre della generazione che vide infrangersi il sogno di un’alternativa al giogo sovietico diversa dal capitalismo mondiale.

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Mi siedo e guardo un cielo estraneo da una finestra estranea. / Non vedo una sola stella nota. / Ho percorso tutte le strade da una parte all’altra. / Mi sono voltato e non sono riuscito a vedere le mie orme. [1]

(Kino, Pačka sigaret )

Quella tra rock e URSS fu una relazione appassionata e feconda, benché perlopiù ignota a ovest dell’ex cortina di ferro, che portò al concepimento di un repertorio vasto ed eterogeneo, marcato da diversi stili, toni, carature. 

In questa sede, intendiamo approfondire un ceppo particolare di questa progenie. Ci soffermeremo su alcune canzoni – composte negli anni in cui il disegno socialista sbiadiva contro i presagi di un’eternità capitalista – che assurgono a capolavori poetici. I testi affilati, a volte folgoranti, combinati agli arrangiamenti incisivi e alle straordinarie doti performative degli autori ed esecutori, ne fanno una traccia viva, sensibile, della reazione contro-culturale a uno snodo storico epocale. Il paesaggio di queste canzoni ha le tinte sia del sogno che dell’incubo: esse si fanno espressione congiunta dei desideri e dei tormenti di un’epoca, entrambi in bilico tra il piano soggettivo e quello collettivo, e i loro accordi risuonano come le campane a morto di un progetto sociale fallito.

Ma andiamo per gradi.

Il rock’n’roll in Unione Sovietica conobbe una prima diffusione molto presto, quasi in concomitanza con il fiorire del genere negli Stati Uniti a partire dai germogli sonori del blues, del jazz e del country-folk. 

Tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘60 si sviluppò in Russia il movimento contro-culturale degli stiljagi – termine traducibile con l’inglese hipster o dandy – che sfidava la cultura egemonica secondo un modello tracciato a ovest dalla beat generation. Impossibile per i giovani sovietici sfuggire al riverbero mediatico della ribellione senza precedenti allo status quo proclamata dai beatnik. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, i giovani occidentali operano una rottura con la cultura ufficiale su vastissima scala, una sovversione iconoclasta degli equilibri su cui si reggeva – precariamente – l’edificio identitario sociale. Gli stiljagi sovietici rispondono consacrando i loro look, le loro letture e i loro ascolti – nonché il loro stile di vita – al modello controcorrente che si va affermando a ovest delle loro longitudini: indossano abbinamenti stravaganti, capi sgargianti e accessori massimalisti, in spregio al dress-code comunista, organizzano feste illecite e trafugano dischi rock occidentali per poi farli circolare copiandoli sulle lastre delle radiografie, dando forma ai leggendari plastinki na kostjach (dischi sulle ossa), agognati portali verso un mondo proibito per la generazione a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60. 

Fino alla morte di Stalin, nel 1953, la repressione di queste pratiche filo-occidentali fu durissima: ciononostante (come mostra il film Stiljagi realizzato nel 2008 da Valerij Todorovskij) il desiderio prevaleva sulla paura: un grappolo di momenti di libertà discinta, da assaporare nell’illegalità trionfale dei festini ad alto tasso di alcol e decibel, valeva il rischio di reprimende istituzionali severe, inclusa la sottrazione di ogni libertà. Tutto o niente: la libertà in quanto tale non era negoziabile né spezzettabile, non era riducibile allo stillicidio di modeste concessioni in cui la parcellizzava lo Stato sovietico. 

Si noti bene che la nozione di libertà coincideva per gli stiljagi con la versione che ne proponeva la controcultura occidentale: rilassamento dei costumi, rifiuto dei valori della generazione precedente, liberazione sessuale (benché in URSS quest’istanza fosse molto più vaga e disincarnata che in occidente), danze scalmanate, ubriacature selvagge, osteggiamento delle prescrizioni con cui gli organi istituzionali impugnavano la loro egida repressiva.

Naturalmente, questa concezione della libertà risentiva di una certa idealizzazione dell’altro, nello specifico del modello di Stato democratico con cui si confrontavano i giovani europei e americani impegnati a spingere più in là il confine delle libertà personali, oltre le consuetudini granitiche, le etichette asfissianti, la gessosa normatività di una presunta etica del lavoro di fatto asservita a politiche di controllo. In ogni caso, c’era ottimismo nell’aria: i giovani ribelli sovietici degli anni ‘50 e ‘60 condividevano coi loro coetanei beatnik l’esaltata e scapestrata fiducia in un ideale di vita all’insegna del rifiuto delle regole – regole che per i secondi coincidevano con le convenzioni borghesi, per i primi con la dottrina di partito.

Allo stesso modo sprizzavano ottimismo i giovani della decade successiva, gli anni ‘70, sull’onda della detonazione sociale attivata dalle istanze libertarie degli hippy. Quest’ottimismo, ulteriormente pompato dalle speranze figlie della distensione brežneviana, sfocia in ambito musicale nella produzione di gruppi come i moscoviti Zvety (Цветы) e i transuralici Ariel’ (Ариэль), autentici pionieri del rock anni ‘70 sovietico, le cui liriche – dal contenuto perlopiù sentimentale – si caratterizzano per la solarità hippeggiante, in sintonia con l’orizzonte di liete promesse caratteristico di quello zeitgeist. Anche le linee melodiche esprimono una visione radiosa e colorata della realtà, ondeggiando tra gai accordi maggiori, con un’energia strumentale squisitamente seventies che combina sonorità popolari e influenze del rock britannico e statunitense.

Molto diverso è il quadro musicale del decennio e mezzo successivo, gli sdruciti anni ‘80 e i primi anni ‘90 slabbrati dalla disillusione. Ecco che qui iniziamo ad addentrarci nel focus della nostra analisi, ovvero in quel territorio fuligginoso che è il panorama rock tardo-sovietico, il cosiddetto rock della perestrojka. 

Si tratta di un territorio di confine in più di un senso: oltre a quello propriamente geografico – l’essere una musica concepita e sviluppatasi oltrecortina – vi è quello storico – il suo rappresentare il passaggio dal pre- al post- raspad (dissoluzione) dell’URSS e quindi quello relativo al portato psicologico del suo attraversamento, al suo greve lascito sulle coscienze: la frattura narrativa da una parte, l’utopia infranta dall’altra.

Per evitare di smarrirci nei recessi di questo territorio così eminentemente di soglia, proviamo a tracciare una mappa spazio-temporale e individuare delle coordinate che dirigano la nostra esplorazione. Soprattutto, lasciamoci guidare dalle canzoni che ne furono a un tempo il vibrante sottofondo e il motore pulsante – come intona suggestivamente Viktor Coj nel 1986 su un sottofondo di beat sintetizzati, “il nostro cuore lavora come un motore nuovo” [2], per poi proseguire con: “noi faremo tutto quello che vogliamo, / prima che voi roviniate il mondo intero” [3] e infine: “e adesso, adesso vogliamo ballare” [4]: un lampante manifesto d’intenti.

Innanzitutto, è d’uopo segnalare che nella seconda metà degli anni ‘80 – all’inizio del mandato Gorbačëv – la scena musicale sovietica era assai peculiare, per non dire latentemente schizofrenica: se da un lato la dichiarata apertura all’occidente imponeva agli organi ufficiali una minore severità verso le forme di espressione artistica, dall’altro si manteneva una selettività stringente sul piano dei contenuti e delle modalità espressive. Se è vero che alcuni artisti sfuggivano al setaccio della censura nonostante la loro afferenza al rock’n’roll (essendo il genere ormai troppo popolare per essere tout-court bandito), perdurava  l’obbligo del decoro e dell’allineamento con il pensiero ufficiale. 

I musicisti a cui era concesso esibirsi a pagamento nei saloni della cultura – e perciò vivere della propria musica – dovevano attenersi a una rosa di prescrizioni vincolanti: i testi non potevano toccare temi rischiosi – cioè esulare dall’inoffensivo ambito amoroso – né fare allusioni meno che lusinghiere al panorama politico. Anche l’impetuosità acustica, pure elemento vitale del rock, doveva essere contenuta. Erano concesse le performance ritmate, purché senza incaute dissonanze o irregolarità melodiche troppo aspre, e soprattutto senza coinvolgimento fisico degli astanti: conditio sine qua non dei concerti istituzionali era l’ascolto da seduti. I musicisti che non rispettavano queste clausole non potevano esibirsi ufficialmente, perciò dovevano trovarsi un altro lavoro, pena l’accusa di parassitismo (ricordiamo che non lavorare era vietato per legge in URSS).

A essere sdoganata, in definitiva, era stata una versione scrupolosamente sanificata del rock’n’roll, epurata dei suoi aspetti più stridenti e corrosivi.

In questo assetto pericolante tra sostanziale intransigenza e fiochi sprazzi di permissività esplode con virulenza l’ondata germinale dell’underground sovietico, che trova nella musica rock il suo canale espressivo più feroce e urgente. Underground è un termine calzante in riferimento al fenomeno: le performance dei musicisti anni ‘80 hanno luogo proprio nel sottosuolo della vita urbana moscovita e leningradese (epicentri indiscussi di quel sommovimento tellurico), negli spazi invisibili e oscuri, al riparo dagli scanner istituzionali: garage, scantinati e soprattutto condomini. Si diffonde, con l’incredibile rapidità a cui spinge la propulsione adrenalinica della giovinezza, il fenomeno dei kvartirniki e dei kommunalniki, feste informali organizzate rispettivamente negli appartamenti e nelle case comuni – queste ultime, una prerogativa abitativa del mondo sovietico: edifici con su ciascun piano svariate stanze abitate da diversi inquilini e bagno e cucina in comune. A questi eventi si accede tramite passaparola e vi presiedono folle di giovani frementi dal desiderio di divertirsi oltre i limiti del concesso, di abbracciare l’ebbrezza, il movimento scomposto, l’ascolto di sonorità raschianti e testi sfrontati, liberi dai dettami imposti dall’alto.

Il fatto che queste feste abbiano luogo in ambientazioni casalinghe aggiunge colore all’esperienza: nell’invasamento dei corpi assembrati e delle coscienze annebbiate, gli elementi scenici familiari (carta da parati ingiallita, tavole imbandite con teiere e bollitori, caraffe di vodka, pescetti secchi, pane nero e sottaceti) mescolano i loro connotati a quelli irruenti e trasgressivi delle performance non autorizzate, dando origine a un mix stordente che vede sfaldarsi i confini tra pubblico e privato, tra domestico e sovversivo, tra regolarità e straordinarietà.

Un film che ha fotografato con maestria quella particolarissima atmosfera è Leto (2018) di Kirill Serebrennikov. A un certo punto della pellicola si vede una donna anziana ballare con un ubriaco squinternato dai capelli scompigliati, la voce ululante e le movenze di un folle (personaggio ispirato ad Andrej Panov detto Svin, “porco”, vocalist di quella che si considera la prima punk-band sovietica, gli Avtomatičeskie Udovletvoriteli), mentre tutt’intorno la folla fa loro spazio, indietreggiando tra volute di fumo esalanti da innumerevoli sigarette, risate rauche e intonazioni del testo di Vsecelo, un innesto di boutade demenziali sul tronco sonoro di una ballad romantica: “Io voglio possederti completamente, / Abbracciare il tuo grande corpo. / Baciare le tue labbra strette. / Io desidero, io voglio te!” [5].

Oltre all’effervescenza – innaffiata da fiumi di alcol – della produzione e riproduzione creativa, il film mostra le difficoltà materiali che ingombravano la vita degli artisti underground. Il personaggio che nel film incarna Mike Naumenko, vocalist della rock band leningradese Zoopark, disegna copertine di dischi delle rockstar occidentali (T-Rex, David Bowie) per sbarcare il lunario; il già citato Andrej Panov litiga con un uomo di mezza età sull’električka, dopo essere stato accusato da quest’ultimo di essere uno sbandato che anziché andare a lavorare canta le canzoni dell’avversario americano (e perciò viene picchiato a sangue dalle forze dell’ordine); in generale tutti i personaggi del film, corrispondenti ai nomi più noti del rock della perestrojka, si arrabattano per tirare a campare: possiamo vederli strimpellare durante un picnic ad alto tasso alcolico nel parco o seguirli nel loro processo compositivo a bordo di un letto sfatto o in una sala prove scalcinata.

Non potendo svolgere ufficialmente il mestiere di musicisti per via della censura su musiche e testi, questi funamboli del sottosuolo dovevano trovare lavoretti di copertura. Tra questi, il kočegar (кочегар) ovvero fuochista era uno dei più gettonati. Lavorando di notte, i fuochisti avevano a disposizione le giornate e le serate libere per dedicarsi alla musica. Inoltre, a chi svolgeva un mestiere così umile era concesso non essere iscritto al partito, ovvero mantenere un ampio margine di indipendenza intellettuale e non compromissione con le sfere istituzionali. Viktor Coj, leader della band Kino, pietra miliare del rock nato dal grembo delle sperimentazioni underground tardo-sovietiche, dichiara con foga in Ja hoču byt’ kočegarom,  pezzo risalente agli albori della sua carriera musicale: “Sono stufo di andare a lavoro, ogni giorno alle nove a lavoro. / Ho trovato una via d’uscita: voglio fare il fuochista, fuochista, fuochista!” [6].

Per i giovani anti-sistema, la disoccupazione non era un’attestazione di fallimento, tutt’altro: in quanto frutto del non schieramento con l’ordine vigente, l’inoperosità lavorativa era rivendicata con orgoglio, ri-significata in una luce positiva all’interno di quella cornice valoriale, al punto che sempre l’esordiente Coj cantava con sfrontato compiacimento: “Sono uno sfaccendato, mamma!” nella celebre Bezdel’nik, assurta a gioviale inno di protesta contro l’irreggimentazione mediante il lavoro.

Coj è stato e continua a essere una figura ammantata di fascino agli occhi (e alle orecchie) del mondo russofono, il cantore di un’epoca, una personalità talmente eroicizzata (e inevitabilmente feticizzata) da essere circonfusa di devozione. È indicativo il fatto che in tutte le grandi e medie città dell’ex URSS (in primis Mosca e San Pietroburgo) ancora oggi si possa vedere stagliata su una o più pareti l’emblematica frase “Coj živ” (Coj è vivo), e che i rari tentativi di ironizzare su questo slogan sostituendo al nome del predicato la parola mërtv, morto, l’intera comunità abbia reagito con scandalo e con il ripristino immediato dell’aggettivo originario. Kotel’naja Kamčatka, l’ex caldaia di Leningrado dove Coj faceva il fuochista (e si esibiva la sera in concerti non ufficiali) sorge ancora oggi in Ulica Blohina 15 a San Pietroburgo. Sulle sue pareti si possono ammirare innumerevoli foto, disegni e poster di Coj e di altri artisti della scena underground. Kamčatka, contenuta nel secondo album dei Kino, recita: “È uno strano posto il Kamčatka, / è una parola dolce Kamčatka” [7] (giocando sull’ambiguità tra il nome del locale abusivo e la penisola situata nell’estremo oriente russo). Il luogo è meta obbligata per i fan del cantante, attorno al quale si è formato un vero e proprio culto, in parte anche in virtù della sua morte in giovane età (nell’Agosto 1990, in un tragico incidente stradale in Lettonia, mentre l’allora ventottenne Coj tornava dallo studio di registrazione in cui aveva appena dato alla luce Černij al’bom, Album nero, pubblicato postumo nel Dicembre di quell’anno).

Con i suoi testi apparentemente accessibili – dal lessico semplice e  la sintassi essenziale – ma profondi e ispirati, aperti a molteplici chiavi interpretative, densi di immagini e riferimenti vividi e toccanti, Coj ha incapsulato l’essenza di un sentire pan-sovietico che ancora oggi fa vibrare in milioni di ascoltatori le corde della nostalgia – o ostalgie, come è stata definita (Berdahl, 1999) la nostalgia della DDR per la Germania post-unificazione, sentimento che è in rapporto metonimico con la communist nostalgia (Ekman, Linde, 2005) nei Paesi ex socialisti. L’oggetto di questa nostalgia è un passato irrecuperabile, vagheggiato come una singolare età dell’innocenza, di cui si esalta (nonché idealizza) la semplicità, l’attenzione al mondo interiore, la sensibilità al quotidiano; un’età ricordata come sgombra sì dell’abbondanza materiale che avrebbe portato la società dei consumi, ma anche della vacuità morale che ne avrebbe costituito il risvolto inesorabile. In Bosetunmaj (titolo dal significato ignoto) Coj scatta un’istantanea della vita sovietica nei centri urbani tipica del suo tempo, profondendo nei versi un’affezione per certi elementi – arredi, situazioni, abitudini –  immediatamente evocativi di quell’epoca, quasi una sorta di nostalgia preventiva (destinata in futuro a scatenare ondate di nostalgia retrospettiva). In particolare, dal suo elenco in stile annuncio immobiliare delle caratteristiche di una kommunalka l’ascoltatore può ricostruire l’immagine mentale dello spazio evocato – e, a distanza di decenni, ricordarlo con nostalgia:

Noi beviamo il tè in vecchi appartamenti. / Aspettiamo l’estate in vecchi appartamenti, / vecchi appartamenti dove c’è luce, / gas, telefono, acqua calda, / radio, pavimenti, parquet, / bagno separato, casa in mattoni. / Una famiglia, due famiglie, tre famiglie, / molti ripostigli [8].

È forse in virtù di questa (n)ostalgie che oggi la narrazione prevalente del rock tardo-sovietico tende a essere celebrativa in un modo per certi versi riduttivo: la visione luminosa per cui si propende inquadra tale corrente come espressione dello slancio propulsivo verso il nuovo. Dal contorno di questo quadro sono accuratamente rimossi i bordi più frastagliati, gli elementi sfuggenti, le ambivalenze: tutto ciò che insidia l’agevolezza di una lettura a posteriori del fenomeno. I musicisti sono completamente calati nelle vesti di audaci apripista a una liberazione dei codici espressivi destinata a intensificarsi nei decenni successivi. I loro spazi operativi, dagli scantinati alle kommunalki, sono celebrati come fucine di creatività. Le loro personalità vengono ritagliate sul modello di un personaggio ideale, dai connotati precisi: il genio estroso che usa il suo distintivo carisma per farsi portavoce delle aspirazioni libertarie dei coevi.

Alla cristallizzazione di questo immaginario, ribadiamolo, ha contribuito una produzione culturale post-sovietica – ma anche tardo-sovietica – largamente incentrata sulla commemorazione nostalgica. Andando a ritroso rispetto al già citato Leto, altri celebri esempi sono Rok (1988) di Aleksej Učitel’, documentario che segue i musicisti underground di Leningrado nelle loro vite (quelle diurne, ma soprattutto quelle notturne dominate dalla musica) e ancor prima Assa (1987) di Sergej Solovëv, con la sua celebrazione visiva degli ambienti e degli artefatti dell’underground in questo caso contemporaneo al film: taverne, sintetizzatori, musicassette, parrucche colorate, album di disegni psichedelici e altri materialia. Per quanto non sia esclusa un’interpretazione dell’opera come inno funebre anzi tempo, la leva esercitata sulle corde nostalgiche degli spettatori (tramite l’esposizione ai simulacri di una breve parabola che corrisponde al tempo della loro giovinezza) ha contribuito a forgiare l’immaginario sopra descritto. Per inciso, la pellicola è stata in parte responsabile anche dell’elezione di Viktor Coj a idolo della controcultura: l’iconica scena finale lo vede cantare: “My ždëm peremen!” (Aspettiamo un cambiamento!) davanti a un’esigua platea che, allo scorrere dei titoli di coda,  si è trasformata in una folla da stadio. 

Non che quest’immaginario sia infedele alla realtà: a essere infedele è la pretesa di ridurre a tale immaginario un’esperienza molto più complessa, attraversata da altrettante ombre che luci. Non è che artisti quali Boris Grebenšikov (voce degli Aquarium, a cui si deve l’intera colonna sonora di Assa), Mike Naumenko (il già citato frontman degli Zoopark), Viktor Coj, ma anche Egor Letov e Aleksandr Bašlačëv (di cui parleremo tra poco) mancassero del carisma che viene loro elogiato, tutt’altro. Il punto è che a questo indiscusso carisma, così come all’altrettanto indiscusso talento compositivo e performativo, si accompagnava un lato umbratile, spesso rasente il depressivo, uno smarrimento che attraversava piani esterni e interni al personale e che si riversava nelle canzoni attraverso immagini e concetti tetri, sovente legati all’idea di morte.

Questi musicisti, finemente sintonizzati sullo spirito dell’epoca, creano un sottofondo musicale in evoluzione, allineato con le oscillazioni storico-politiche. Se le liriche embrionali dei primi anni ‘80 sfoggiano i fraseggi ripetitivi e i motteggi scanzonati tipici del punk, con l’avvio e poi il consolidamento della perestrojka ecco che gli arrangiamenti si incupiscono e si increspano di dissonanze, i testi si fanno più ombrosi e sibillini.

Per gettare luce su tale contesto, è utile fare una breve digressione storica.

La perestrojka non è ricordata come una fase felice dagli abitanti dell’ex soviet-sfera, tutt’altro. A dispetto della narrazione dominante in occidente, si trattò di un periodo estremamente difficile (Fracassi, 1996), ricordato da chi lo visse come l’inizio di una profonda crisi. Il cambio di direzione politica e la conseguente apertura a ovest determinarono seri inconvenienti sul piano pratico. Tra questi, la penuria dei generi alimentari di prima necessità, che negli anni ‘90 sarebbero stati sostituiti sugli scaffali dei magaziny da prodotti esteri privi di certificazioni di qualità – data l’assenza di standard formalizzati e di organi preposti al loro controllo. Va da sé che, all’inizio degli anni ‘90, il tasso di morti per malattie all’apparato gastro-enterico in Russia aumentò vertiginosamente. Tra queste morti si annoverano quelle dovute all’alcolismo dilagante e alle intossicazioni causate dapprima dal consumo di alcol prodotto illegalmente e addirittura solventi – all’indomani del divieto di vendita di alcolici sancito da Gorbačev – e, in seguito, dalla discutibile qualità di molti prodotti neo-arrivati sul mercato.

Gli anni immediatamente precedenti il raspad furono dunque il preludio a una fase non meno tetra. Il comparto energetico-produttivo delle ex Repubbliche sovietiche fu svenduto ad aziende private – emblematico è il caso della Gazprom, prima impresa Russa nel settore, sorta dalla privatizzazione dell’ex Ministero del Gas dell’Unione Sovietica. Inoltre, lo sgretolamento delle istituzioni politiche si accompagnò a uno stato generale di confusione davanti a una realtà dai connotati irriconoscibili.

Erano crollati i punti di riferimento che avevano sino ad allora orientato – nel bene e nel male – i cittadini sovietici: nel nuovo assetto,  bucherellato da vuoti legislativi, diventava impraticabile anche il consueto ricorso (un classico dei totalitarismi) all’espediente della corruzione per ottenere favori, risposte o altri servigi, non essendo più chiaro chi bisognasse corrompere (Fracassi, 1996).

Come descrive magistralmente Aleksandr Bašlačëv (affettuosamente soprannominato SašBaš), cantautore attivo a Leningrado e morto suicida ventisettenne nel 1988:

Su un campo aperto, pioggia obliqua. / Ehi, indigenza, non un soldo per l’anima. / Non sapevo dove fossi, dov’era la Russia. / E dove sono io senza di lei? […] / Non sapevo come amare la Russia. / E dove va lei senza di me? […] / Ti ho vista, Russia. / E ora guarda, dove sono rimasto io [9].

(Aleksandr Bašlačëv, V čistom pole)

Sulla partitura di questi versi affranti la voce cavernosa di Bašlačëv intona un lamento che è sia personale, sia generazionale, sia esistenziale.

Bašlačëv è ricordato come un grande poeta dall’inventiva febbrile e dallo strabiliante talento nel tessere collegamenti tra il privato e il sociale, catturare istantanee del suo tempo e assemblarle in quadri universalmente rappresentativi. Il suo stile – voce e chitarra acustica, percossa più che suonata – rievoca le figure dei menestrelli o bardi cantastorie. È palese il suo tributo ai maestri del cantautorato russo, in primis Vladimir Vysockij (cantante, attore e poeta moscovita attivo principalmente negli anni ‘60 e ‘70, ritenuto alla stregua di Esenin per finezza stilistica e potenza lirica), di cui infatti Bašlačëv cita l’indimenticabile Spasite naši duši (Salvate le nostre anime) del 1967 in un altro verso di V čistom pole.

Nei versi che abbiamo riportato, il disorientamento dell’artista è palpabile. Vuole sapere che cosa sta succedendo alla Russia, dove sta andando. Non la riconosce. La direzione che sta prendendo il Paese non è quella in cui vuole andare lui. Quello che sta avvenendo sotto gli occhi di Bašlačëv (e della sua generazione) è un fatidico scollamento tra l’ideale e la realtà, la disintegrazione della propria idea di Russia e del futuro che si immaginava per essa. Quello che sta succedendo non è quel cambiamento tanto auspicato a cui facevano appello i Kino in Hoču Peremen: la rotta è un’altra, il mutamento si prefigura come un deterioramento. Le strutture sociali crollano, il Paese è al collasso, la fiamma che sembrava eterna è in procinto di spegnersi (Jurčak, 2014) per consunzione, come il moccolo di una candela. La speranza nel futuro appartiene ormai al passato. 

Quest’ultimo punto è cruciale: in un lasso di tempo molto breve, l’interrogativo passa dal che cosa potrà cambiare al che cosa sarebbe potuto cambiare. Si può azzardare che il sentire nostalgico – propriamente il doloroso anelito (άλγος, algos) a un ritorno (νόστος, nostos) – aleggiante nelle liriche di Bašlačëv rappresenti una proiezione sul piano psicologico di quell’esaurimento degli scenari futuribili che è all’origine dell’estetica retro-futurista (Guffey, 2006), codificata non a caso proprio al tramonto degli anni ‘80 in seguito alla sua esplosione nella cultura pop. Questo sentire è definibile come una visione del futuro con uno sguardo che il presente ha cancellato dall’orizzonte delle possibilità: in estrema sintesi, un futuro ipotizzabile solo nel passato. Il sogno passato di un certo scenario futuro ha perso di credibilità nel presente.

Nella poetica di Bašlačëv, questo scarto dà origine a una sovrapposizione tra piani temporali, un patchwork diacronico fittamente drappeggiato in cui convergono rappresentazioni multiformi di un’eterna sofferenza. Ma c’è ancora spazio per la speranza. Come l’artista intona nel suo pezzo in assoluto più noto, celebrato come un inno generazionale:

Abbiamo viaggiato a lungo attraverso il caldo e il gelo. / Abbiamo demolito tutto e siamo rimasti liberi. / Abbiamo mangiato neve e minestra di betulla. / E siamo cresciuti alti come campanili. / Nelle lacrime non risparmiavamo il sale. / Nei banchetti non risparmiavamo lo zucchero. /  Suonatori dai calli neri, / abbiamo strappato il nervo dall’altoparlante di ottone. / Ma giorno dopo giorno i tempi cambiano. / Le cupole hanno perso il loro oro. / I suonatori vagano per il mondo. / Le campane sono state abbattute e spaccate. / Perché allora vaghiamo / nel nostro campo come combattenti clandestini? […] / Ehi, fratelli! La sentite nei vostri fegati / la terribile risata delle campanelle russe? / Da un secolo mastichiamo parolacce con preghiere. / Da un secolo viviamo, sebbene abbiano fatto scoppiare i nostri palloncini. / Dormiamo tutto il giorno e beviamo a litri. / E non cantiamo. Ci siamo disabituati a cantare. / Aspettiamo da tanto. Siamo tutti sporchi. / In questo ci assomigliamo. / Ma sotto la pioggia sembriamo diversi, / per la maggior parte onesti e buoni. / E anche se la grande campana-Zar è rotta, / siamo venuti con chitarre nere / per il big beat, il blues e il rock ‘n’ roll. / Ci hanno incantato i primi colpi, / Scintille di elettricità nei nostri petti. / Cappelli nella neve – vomito tintinnante. / Paganesimo imperante. / È il tempo delle campanelle [10].

(Aleksandr Bašlačëv, Vremja kolokol’čikov)

Questo splendido testo è al contempo una promessa tuonante di rivalsa e un’elegia in onore di una patria da sempre e per sempre afflitta dal dolore. Nelle immagini evocate si evidenzia una posizione complessa e per certi versi controversa rispetto al passato imperiale: la grande campana-zar è rotta; la constatazione del fatto che le campane sono state abbattute e che le cupole hanno perso il loro oro (evidentemente un riferimento al declino della grandeur ortodossa) non è priva di un certo rimpianto. Tuttavia, tra le macerie della grandezza demolita fiorisce un bocciolo di speranza, la fiducia in un rinnovamento profondo, simboleggiata dalle piccole campanelle tintinnanti che danno il titolo alla canzone. La speranza quindi non risiede nel ripristino delle trionfali campane imperiali, ma nella vibrazione nascente di nuove campanelle, al tempo stesso annunciatrici e fautrici della trasformazione. Per Bašlačëv queste campanelle sono le voci della sua generazione, quelle voci numerose e plurali in grado di rimodellare il presente, a differenza della voce unica dell’impero – tanto di quello zarista quanto di quello sovietico – con la sua monoliticità paralizzante. (Košelev, 2000). L’immagine delle campanelle era così cara al giovane musicista che in alcune esibizioni – come quella ricordata da Dmitrij Revjakin, leader e fondatore dei Kalinov Most (Naumov, 2014) egli addirittura appariva al pubblico ornato di piccoli campanelli.

Ma ecco che, a un certo punto, la speranza nel cambiamento viene dolorosamente frustrata, come emerge dal testo di un altro capolavoro dello stesso autore, dall’eloquente titolo Oggi non cambia nulla:

Sono ridicole tutte le cose che possiamo sognare, ma ci siamo permessi l’un l’altro di sognare. / Aspettavamo l’arrivo di un uccello invisibile, / che sapesse volare meravigliosamente e velocemente. / Sembrava che una favola stesse diventando realtà. / E che tutto il resto fosse ridicolo e vecchio. / Che l’uccello avrebbe aperto le sue possenti ali. / E forse avrebbe lasciato cadere una piuma dall’alto. / Il mondo intero si sarebbe meravigliato dello splendore piumato. / Il mondo intero avrebbe alzato il viso per lo stupore… / Ora quell’odore è letteralmente ovunque. / Ora quell’odore è decisamente ovunque. / È come se da qualche parte un grosso uovo sia andato a male [11].

(Aleksandr Bašlačëv, Sevodnjašnij den’ ničego ne menjaet)

Qui i sogni si sono infranti contro la battigia aguzza del disincanto. Nel processo della cosiddetta ricostruzione (questo il significato di perestrojka) l’alternativa al modello repressivo rappresentato dal socialismo reale si va con sgomento materializzando in un modello altrettanto infelice, persino deteriore. Il comunismo di Stato sta per essere rimpiazzato da un non meno spietato capitalismo di Stato. Il sogno di un mondo di individualità libere e sensibili (il tempo delle campanelle) si va deformando nell’individualismo piegato all’imperativo del profitto. La società dei consumi getta la sua ombra nera sulle aspirazioni democratiche dei vati underground; la sua prosaicità strangola la poesia dell’appello a un cambiamento e irregimenta i battiti musicali – così come quelli cardiaci – nel ritmo sincopato di una marcia cadenzata, il cui nuovo colore politico non basta a dissimularne l’invariata azione di livellamento e appiattimento del pensiero.

Qui sta il nodo della nostra analisi: quello che rende il rock della perestrojka uno struggente requiem anticipato è il disincanto verso la possibilità di un’alternativa, che si intreccia al conflitto con il sistema vigente. Gli artisti di quest’ondata musicale vivono e trasportano nelle loro liriche un’ insolubilità che si traduce in un’autentica crisi del pensiero e del sentimento. Dinanzi a loro si para la scelta impossibile tra un presente censorio e un domani materialista, tra un’era sovietica agli sgoccioli – del cui imminente naufragio aleggia una consapevolezza non galvanizzante, bensì destabilizzante – e un sogno neoliberista trasformatosi in incubo senza possibilità di risveglio. Pochi anni dopo, l’annuncio di Francis Fukuyama (1992) sulla fine della storia darà un nome a un sentire diffuso. Nel frattempo, a entrambi i poli dell’arena geopolitica in cui un tempo si giocava la partita della guerra fredda rimbomba una risata amara di sottofondo al “There is no alternative” thatcheriano che decenni dopo Mark Fisher (2009) additerà come slogan profetico dell’attuale realismo capitalista. 

In occidente si accingono a spegnersi le ultime ceneri del punk, incede funereo il post-punk e guizza su un letto di fumo il disperato tentativo di resistenza di quella che sarà catalogata come l’ultima contro-cultura: il movimento rave. Nel frattempo, nel sottosuolo sovietico – di cui la scena leningradese a fine decennio è il più fertile avamposto – si riattizzano quelle ceneri punk a un diverso focolare. Si attingono elementi della tradizione locale, primo fra tutti lo sconfinamento delle canzoni – che l’etichetta punk vorrebbe testualmente scarne – in avtorskie pesnie (canzoni d’autore) cesellate con scrupoloso zelo linguistico. Queste braci si uniscono al materiale altamente infiammabile del già citato disincanto, un disincanto che va dal generale al particolare, dal politico al personale, e viceversa. In questo movimento bidirezionale l’io dell’artista assurge a paradigma di una generazione – o addirittura dell’animo umano, a voler leggere il disincanto politico come un viatico per la presa di coscienza della propria caducità. In quest’ottica, lo sconforto per quella specifica congiuntura storica innesca una contemplazione dell’abisso verso cui protende ogni mortale.

Il percorso musicale dei siberiani Graždanskaja Oborona esemplifica il progressivo incupimento del rock della perestrojka. Si osserva una transizione: dagli iniziali toni caustici, ma speranzosi nel cambiamento, alla mesta realizzazione della forma infausta che va prendendo quel cambiamento.

I primi testi della band, formatasi a Omsk nel 1984 e capitanata da Egor Letov, sono fortemente incentrati sulla critica anti-sovietica. Le canzoni raccolte nel primo album Poganaja Molodëž’ (Пога́ная молодёжь) del 1985 e nei successivi sei album del 1987 indirizzano attacchi al vetriolo, mordaci e spesso sboccati, alla nomenklatura, agli organi di partito, alle istituzioni e alla mentalità sovietici.

Nel brano KGB-rok l’attacco è inequivocabilmente diretto alla polizia politica e ai leader comunisti dentro e fuori dalla Russia, il cui socialismo di facciata (segnalato dall’epiteto tovariš, compagno) è accusato di occultare una natura di fatto fascista, rendendo la sinistra indistinguibile dalla destra:

Sinistra-destra, sinistra-destra. / La sua parola, compagno Mao. / La sua parola, compagno Mauser. / La sua parola, compagno baionetta. / La sua parola, compagno Nagan. / La sua parola, compagno leader. / La sua parola, compagno fascista. / La sua parola, compagno Ljuber. / La sua parola, difensore dell’Afghanistan. / Abbasso il punk rock, abbasso l’heavy metal. / Abbasso la new wave, d’ora in poi, viva solo il rock del KGB [12].

(Graždanskaja Oborona,  KGB-rok)

Questo testo è denso di riferimenti al contesto socio-politico: sono additati come “compagni” fasulli, fascisti sotto mentite spoglie, il leader cinese Mao, la rivoltella “Nagan” impiegata come arma durante la Rivoluzione d’Ottobre, gli esponenti del movimento anti-occidentale salutista e filo-sportivo “Ljuber” e i difensori dell’Afghanistan sovietico contro i mujaheddin spalleggiati dagli Stati Uniti nel conflitto sovietico-afgano (1979-1989).

L’ironia sferzante di Letov non risparmia le masse lobotomizzate dalla propaganda di partito:

Segnale rosso. / Riflesso condizionato. / Totalitarismo. / Totalitarismo. / I cani di Pavlov sputano saliva. / […] / Noi rossi. / Noi totali. / Totalitarismo. / Totalitarismo. / Noi tutti approviamo il totalitarismo [13].

(Graždanskaja Oborona, Totalitarizm)

L’artista rimarca con orgoglio la sua non appartenenza, il suo netto discostarsi da una collettività che risponde agli stimoli con la meccanicità di un automatismo pavloviano. L’individualità non conforme dell’artista si staglia contro la desolante omogeneità intellettuale e morale circostante. Va ricordato che il ventunenne Letov era stato internato forzatamente in un ospedale psichiatrico per tre mesi, in conformità alle disposizioni di un KGB – quel KGB che l’artista prenderà di mira due anni più tardi nella già citata KGB-rok – allarmato dalla crescente popolarità del cantante presso la gioventù sovietica. 

La rivendicazione di una soggettività libera – ideale in cui si sagoma la professione di anarchia di Letov – ricorre a una metafora suggestiva:  la gioventù che non si piega all’ordine costituito è paragonata al ghiaccio sotto i piedi dei detentori del potere, simboleggiati dalla figura del maggiore. È quel ghiaccio, immobile ma insidioso, che farà scivolare e cadere l’oppressore.

Il maggiore vorrebbe strangolarci tutti, uno dopo l’altro. / Arriva sbattendo gli stivali, ma cade sulla strada ghiacciata. / E noi – noi siamo il ghiaccio sotto i piedi del maggiore [14].

(Graždanskaja Oborona, My lёd pod nogami majora)

In questa prima fase della sua produzione artistica, alle liriche più politicamente infiammate la band ne alterna altre più amaramente esistenzialiste, in cui il senso di sospensione sotteso alla rabbia dei pezzi sinora citati si sposta dal piano politico a quello psicologico. In tal senso sono rappresentativi i versi di Klenovyj list, in cui la voce narrante appartiene a una foglia d’acero: “Mi hanno strappata via dal cielo. / Mi hanno strappata via dal ramo. / E il vento cerca invano / Un posto dove lasciarmi cadere” [15]. In queste frasi traluce la presa di coscienza di una fine imminente e inevitabile. Si avverte inoltre un senso di angosciosa attesa che la fine giunga. Poiché lo strappo è già avvenuto e non c’è modo di ricucirlo, la vita si consuma in attesa di una morte sicura. Echeggia già il dolore di un distacco forzato, della lacerazione di antiche illusioni. La voce non cerca facili panacee né anestesie confortanti: essa, roca, squarciata da urla di pena, si lascia trasportare da un basso sincopato che sembra a sua volta ammonire sull’inevitabilità del declino.

“La perestrojka procede e tutto va secondo i piani” canta sarcastico Letov nel 1988 in Vsё idёt po planu . Questa strofa è immersa in un testo punteggiato di immagini violentemente crude, quasi grottesche: “Il nostro buon padre Lenin è completamente rinsecchito, / si è decomposto in muffa e miele di tiglio” [16].

A queste se ne avvicendano altre di segno opposto, evocanti un idillio inverosimile, un’utopia parossistica:

E con l’arrivo del comunismo tutto sarà stupendo, cazzo. Arriverà presto, bisogna solo aspettare. Allora sarà tutto gratis, sarà tutto uno sballo. E probabilmente non si dovrà più neanche morire. [17] (Ibid.)

L’alternanza di immagini antipodiche riflette l’ambiguità del doppio discorso di cui si avvale la propaganda. Quest’elemento, di cui Zinov’ev (1981) denunciava la pervasività nella società sovietica, olia il meccanismo che trasforma in abito mentale la pratica incistata di dire cose diverse da quelle che si pensano e pensare cose diverse da quelle che si dicono.

Dietro la doppia polarità in cui si dimenano come spole impazzite i versi di Letov sembra esserci anche un tentativo di comunicare la dissociazione del proprio io. In effetti, l’altalena vertiginosa tra orrore e (falsa) perfezione aderisce bene al senso di sballottamento, di cecità e di impossibilità di rintracciare un senso o una direzione giusti.

Va altresì detto che il paradosso è una tecnica cara a Letov: l’accostamento tra pomposità magniloquente – strumento della retorica oppressiva – ed enfatizzazione dell’effettivo degrado schiaffeggia l’ascoltatore, costringendolo a prestare attenzione al messaggio racchiuso tra le urla e le sciabolate di chitarra.

Ma l’atmosfera agli sgoccioli degli anni ‘80 è ancora più tetra, più funesta e disincantata. La perestrojka è al suo culmine, l’orizzonte sovietico si sbriciola giorno dopo giorno. La sensazione nei circuiti della controcultura è, ormai per tutti, quella di un ritorno impossibile al tempo in cui ci si poteva ancora aggrappare a flebili speranze.

È ancora la voce staffilante di Egor Letov che, nel 1989, denuncia l’avvenuta infiltrazione del materialismo nella società, l’ormai compiuto affondamento delle sue tenaglie nella carne del mondo. Questo mondo non può più essere difeso, nessuna protezione civile (questo il significato del nome della band) può salvare la sua anima corrotta. L’unica difesa possibile è quella di sé stessi, della propria individualità impegnata in una strenua ancorché vana resistenza:

Il mondo di plastica ha vinto. / Il modello si è rivelato più forte. / L’ultima barca si è raffreddata. / L’ultima torcia è stanca. / E grumi di ricordi mi soffocano in gola… / Oh, la mia difesa. [18]

(Graždanskaja Oborona, Moja oborona )

Il manto sardonico di un altro pezzo del 1989 avvolge la disperazione per un futuro che si prospetta esangue quanto il presente, se non di più:

Il riflettore della perestrojka illumina la perestrojka. / Il costruttore del comunismo adora il comunismo. / Il funzionario del KGB approva il KGB. / Ogni pallottola giusta ama la propria mitragliatrice. / Il Partito è la mente, l’onore e la coscienza dell’epoca. / Grande ed eterno! / Sano ed eterno! / La libertà di cemento regna nelle città di ghisa. / I poster comandano le teste coraggiose. / L’inerzia comanda i corpi obbedienti. [19]

(Graždanskaja Oborona, Zdorovo i večno

Che cosa si può fare, ormai? Combattere una guerra persa o deporre le armi e abbracciare la rinuncia?

Per Letov, l’antidoto alla desolazione è la lotta a prescindere dal risultato – una lotta destinata al fallimento, ma che dà dignità al vivere. Se l’alternativa è l’accettazione passiva della sconfitta, meglio allora combattere contro i mulini a vento.

Questo messaggio, condensato nel testo che segue, offre al nostro resoconto una conclusione in perfetto stile trickster, inserendo nella parabola del disincanto tardo-sovietico una stilla di incanto, l’abracadabra della chiamata a non lasciarsi imbrigliare né inquadrare, a restare sempre, dispettosamente, di traverso:

Non essere un ingranaggio nei meccanismi dello Stato. / Non lasciarti masticare dal tritacarne dell’esercito. / Per dispetto! / Di traverso! / Danneggia quanto più possibile i sostenitori dell’ordine. / In una guerra persa resisti fino alla fine. / Per dispetto! / Di traverso! [20]

(Graždanskaja Oborona, Poperёk )

Note: 

[1]  Я сижу и смотрю в чужое небо из чужого окна. / И не вижу ни одной знакомой звезды. / Я ходил по всем дорогам и туда, и сюда. / Обернулся и не смог разглядеть следы.

 

[2] Наше сердце работает, как новый мотор

 

[3] мы будем делать все, что мы захотим, / пока вы не угробили весь этот мир

 

[4] а сейчас, сейчас мы хотим танцевать

 

[5]  Я хочу владеть тобой всецело, / Обнимать твое большое тело. / Целовать твои тугие губы, / Я желаю, я хочу тебя!

 

[6]  Надоело ходить на работу,  каждый день к девяти на работу. / Я нашёл выход: Я хочу быть кочегаром, кочегаром, кочегаром!

 

[7] это странное место Камчатка, / это сладкое слово «Камчатка»

 

[8] Мы пьём чай в старых квартирах. / Ждём лета в старых квартирах, / В старых квартирах, где есть свет, / Газ, телефон, горячая вода, / Радиоточка, пол, паркет, / Санузел раздельный, дом кирпичный. /Одна семья, две семьи, три семьи, / Много подсобных помещений.

 

[9] В чистом поле – дожди косые. Эй, нищета – за душой ни копья! / Я не знал, где я, где Россия. / И куда же я без нея? […] / Я не знал, как любить Россию, / А куда ж она без меня? […] / Я увидел тебя, Россия. / А тепеpь посмотpи, где я.

 

[10] Долго шли зноем и морозами. / Всё снесли и остались вольными. / Жрали снег с кашею берёзовой. / И росли вровень с колокольнями. / Если плач – не жалели соли мы. / Если пир сахарного пряника. / Звонари чёрными мозолями, / рвали нерв медного динамика. / Но с каждым днём времена меняются. / Купола растеряли золото. / Звонари по миру слоняются. / Колокола сбиты и расколоты. / Что ж теперь ходим круг да около / на своём поле, как подпольщики? […] / Эй, братва! Чуете печёнками / грозный смех русских колокольчиков? / Век жуём матюги с молитвами. / Век живём, хоть шары нам выколи. / Спим да пьём сутками и литрами. / И не поём. Петь уже отвыкли. / Долго ждём. Все ходили грязные. / От того сделались похожие. / А под дождём оказались разные. / большинство-то честные, хорошие. / И пусть разбит батюшка Царь-колокол, / мы пришли с чёрными гитарами / ведь биг-бит, блюз и рок-н-ролл. / Околдовали нас первыми ударами, / И в груди искры электричества. / Шапки в снег – и рваните звонче ка. / Свистопляс – буйное язычество. / Время колокольчиков.

 

[11] Нелепо все то, что нам может присниться, / Но мы разрешали друг другу мечтать. / Мы ждали появления невиданной птицы, / Способной красиво и быстро летать. / Казалось, что сказка становится былью. / А все остальное — смешно и старо. / Что птица расправит могучие крылья. / И, может быть, сверху уронит перо. / Весь мир удивится пернатому чуду. / Весь мир изумленно поднимет лицо… Теперь этот запах буквально повсюду. / Теперь этот запах решительно всюду. / Похоже, что где-то протухло большое яйцо.

 

[12]  Левой-правой, левой-правой. / Ваше слово, товарищ Мао. / Ваше слово, товарищ маузер. / Ваше слово, товарищ штык. / Ваше слово, товарищ наган. / Ваше слово, товарищ вождь 

Ваше слово, товарищ фашист. / Ваше слово, товарищ любер. / Ваше слово, защитник Афгана Долой панк-рок, долой heavy metal. / Долой new wave, отныне да здравствует лишь КГБ-рок, рок-КГБ.

 

[13]  Красный сигнал. / Условный рефлекс. / Тоталитаризм. / Тоталитаризм./ Собаки Павлова исходят слюной .[…] / Красные мы. / Тотальные мы. / Тоталитаризм. / Тоталитаризм. / Мы все одобряем тоталитаризм.

 

[14] Майор их передушит всех подряд, он идёт. / Он гремит сапогами, но упал гололёд. / И мы — лёд под ногами майора!

 

[15] Меня сорвало с неба. / Меня сорвало с ветви. / И ветер тщетно ищет / Куда б меня закинуть.

 

[16]  наш батюшка Ленин совсем усоп, / он разложился на плесень и на липовый мёд.

 

[17]  А при коммунизме всё будет заебись. / Он наступит скоро — надо только подождать. / Там всё будет бесплатно, там всё будет в кайф. / Там, наверное, вощще не надо будет умирать.

 

[18] Пластмассовый мир победил. / Макет оказался сильней. / Последний кораблик остыл. / Последний фонарик устал. / А в горле сопят комья воспоминаний… / О-о, моя оборона.

 

[19]  Прожектор перестройки освещает перестройку. / Строитель коммунизма обожает коммунизм. / Сотрудник КГБ одобряет КГБ. / Любая правильная пуля любит свой пулемёт. / Партия — ум, честь и совесть эпохи. / Здорово и вечно! Здорово и вечно! / В чугунных городах царит бетонная свобода. / В отважных головах распоряжаются плакаты. / Инерция заведует послушными телами.

 

[20] Не вейся шестерёнкой в механизме государства. / Армейской мясорубке не давай себя сжевать. / Назло! / Поперёк! / Сторонникам порядка навреди как можно больше. / В проигранной войне сопротивляйся до конца. / Назло! / Поперёк!

 

Elenco dei brani citati:

Автоматические удовлетворители, Всецело, Претензии не принимаются. Тел. 1979-1994.

Башлачев, Александр, В чистом поле, Лихо, 1994.

Башлачев, Александр, Время колокольчиков, Отделение Выход, 1996.

Высоцкий, Владимир Семенович, Спасите наши души, 1967.

Гражданская Оборона, Всё идёт по плану, Всё идёт по плану, 1988.

Гражданская Оборона, Здорово и вечно, Здорово и вечно, 1989.

Гражданская Оборона, КГБ-рок, Некрофилия, 1987.

Гражданская Оборона, Кленовый лист, Оптимизм, 1987.

Гражданская Оборона, Моя оборона, Здорово и вечно, 1989.

Гражданская Оборона, Поперёк, Война, 1989.

Гражданская Оборона,Тоталитаризм, Тоталитаризм, 1987.

Кино, Бездельник, 45, 1982.

Кино, Камчатка, 46, 1983.

Кино, Я хочу быть кочегаром, 46, 1983.

Кино, Мы хотим танцевать, Ночь,1986.

Кино, Бошетунмай, Группа крови, 1988.

Кино, Пачка сигарет, Звезда по имени Солнце, 1989.

Кино, Хочу перемен, Последний герой, 1989.

Bibliografia:

Berdahl, D., (N)Ostalgie’ for the present: Memory, longing, and East German things, Ethnos, 64: 2, 192 – 211, 1999.

Ekman, J., Linde, J., Communist nostalgia and the consolidation of democracy in Central and Eastern Europe, Journal of Communist Studies and Transition Politics 21: 3, 354 – 374, 2005.

Fisher, M., Capitalist Realism: Is There No Alternative?, Zer0 Books, 2009.

Fracassi, C. Russia. Che succede nel paese più grande del mondo, Ed. Avvenimenti, 1996.

Fukuyama, F., The End of History and the Last Man, The Free Press, New York, 1992.

Guffey, Elizabeth, Retro: The Culture of Revival, Reaktion Books, 2006, pp. 152–168.

Jurčak A. V., Eto bylo navsegda, poka ne končilos’. Poslednee sovetskoe pokolenie, NLO, Moskva, 2014.

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Letov E. F. (I. F.), Ja ne verju v anarchiju. Sbornik statej, Izdatel’skij centr, Moskva, 1997.

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Serebrennikov, K., Leto, Russia, 2018.

Solovëv, S., Assa, URSS, 1987.

Todorovskij, V., Stiljagi, Russia, 2008.

Učitel’, Aleksej, Rok, Russia, 1988.

Stefania Persano è insegnante di lingue e traduttrice. I suoi interessi spaziano dalla narrativa all’epistemologia della didattica, dalla musica alla poesia e all’intreccio tra queste ultime.

Parole chiave: rock tardo-sovietico, perestrojka, underground, antitotalitarismo