Reinventare il romanzo, tra agenzie non umane, io plurali, futuri posteriori e Apocalissi cicliche.

Paul Cezanne, Rochers dans les Bois, ca 1893
di Stefania Persano
In quest’articolo, proviamo a dare una risposta – per quanto magmatica e peregrina – alle domande: che cosa si richiede oggi al romanzo? Come si può reinventarlo senza sterilizzarlo?
L’antropocene reclama sperimentazioni narrative che ibridino i generi, scompiglino i piani temporali, tessano garbugli di coscienze, facciano irrompere forze ambientali e soggettività non antropiche nella storia: in breve, che detronizzino l’individuo umano per liberare voci tradizionalmente occultate.
Tuttavia, in questo sparpagliamento si rischia la deriva postmoderna di un’inaccessibilità che spegne l’empatia.
Esaminiamo in particolare due opere, accomunate dall’incrocio tra immaginari fine-sovietico e post-apocalittico, che riescono ad aprire i confini del romanzo tradizionale, senza sacrificare il coinvolgimento emotivo sull’altare della sperimentalità.
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Può il romanzo ripensarsi radicalmente? Può aprire i suoi pori e farvi transitare le voci della collettività, di ciò che non è umano, addirittura dei fenomeni ambientali, senza frantumarsi in schegge prive di significato, senza dissolversi nell’apatia? Il romanzo è costretto a scegliere tra le due condanne alternative dell’essere un reliquato o un’avanguardia evanescente? Oppure, invece, può imboccare un’altra via? Possono l’ambiente e le collettività occupare uno spazio narrativo tradizionalmente riservato agli individui, senza tuttavia annullare le differenze, mescolare le particolarità, tarpare l’espressività – in breve, senza espropriare il lettore della partecipazione emotiva?
Prima di provare a dare una risposta a queste domande, soffermiamoci sull’origine delle domande stesse. Innanzitutto, che cosa significa ripensare il romanzo e da che cosa scaturisce l’esigenza di questo ripensamento?
Il nostro mondo non è l’Europa del diciassettesimo secolo, quando Cervantes tracciò un solco epocale nella storia della letteratura col suo Don Chisciotte[1]. Non è neanche l’Europa del diciottesimo secolo, quando il romanzo venne codificato ed elaborato in una forma matura – cioè la forma che ha tuttora – dagli inglesi Daniel Defoe e Jonathan Swift. Il nostro mondo non ospita più né una netta demarcazione fisica tra spazio antropico e spazio incontaminato, né altrettanto inviolate categorizzazioni concettuali che possano giustificare la vetusta distinzione tra natura e cultura. L’epoca in cui viviamo vede l’intero globo sconvolto da cataclismi ecosistemici e climatici che alterano territori, seminano caos, fanno evacuare intere comunità. Questi eventi contribuiscono a corrodere la sempre più lisa funicella posta a delimitare arbitrariamente ciò che pertiene all’umano (culturale), separandolo da tutto il resto (naturale). Mai come oggi risalta agli occhi l’interdipendenza fra esseri umani e ambiente: così come i primi alterano irreversibilmente il secondo, così quest’ultimo agisce irreversibilmente sulle vite dei primi.
Seguendo le riflessioni di Amitav Ghosh (2016), nella civiltà dell’antropocene il romanzo non può più permettersi di slegare il racconto delle vicende umane dallo spazio in cui esse hanno luogo.
Riportando due attributi associati alla natura da Emma Bovary nel celebre romanzo di Flaubert, Ghosh (Ivi:21) si interroga:
“Consueta”? “Moderata”? Com’è che la Natura ha finito con l’essere associata a simili parole? L’incredulità che queste associazioni evocano oggi è un segno di quanto l’Antropocene abbia già demolito molte delle certezze che si fondavano sulla relativa stabilità climatica dell’Olocene[2].
L’ambiente non può più essere dipinto come una dimensione tranquillizzante che si limita a ospitare gli eventi narrati. Esso rivendica un ruolo agentivo che possa diventare, all’occorrenza, minaccioso: un ruolo aderente a quello che riveste nella realtà. L’ambiente chiede di diventare una forza propulsiva della narrazione, un elemento che contribuisce a forgiarla – alla stregua di un personaggio in sé.
Se il romanzo, dalle sue origini, è una piccola storia incapsulata nella grande Storia e pertanto si sviluppa in strettissima relazione con la variabile del tempo, la dimensione spaziale ne è tradizionalmente licenziata. L’ambiente è chiamato ad assolvere al ruolo di mero setting – al massimo a scatenare reazioni emotive nei personaggi che lo osservano, ma mai a sovvertire il corso delle loro vite agendo direttamente su di esse o fratturandole con eventi imprevedibili.
La natura, nel romanzo tradizionale, è spesso un ricovero dalla storia.
Prendiamo il romanzo vittoriano: la brughiera in cui Catherine e Heathcliff si struggono di un amore che l’etichetta sociale del tempo rende impossibile è il riflesso della loro passione tempestosa – una distesa su cui il vento impazza con altrettanta forza che il desiderio nei loro cuori. D’altro canto, però, lo scompiglio e la caoticità del paesaggio sono in rapporto solo simbolico con la parabola delle loro vite. L’ambiente è solo paesaggistico: non incide in alcun modo sulle vite, non le determina. Di quello si occupa la Storia. Sono le costrizioni normative e violente dell’epoca a oliare gli ingranaggi narrativi. Le selvagge cime su cui sorgono le case delle famiglie protagoniste, al netto di tutta la loro tempestosità, sono un luogo essenzialmente confortante, in quanto diretto rispecchiamento dell’animo. La loro tempestosità funge da mera esternalizzazione di interiorità travagliate. Sono una proiezione che, rendendo visibile il dolore, gli assegna una dignità sinestetica, lo immortala in istantanee sublimi, lo tratteggia con contorni descrivibili, gli infonde senso dandogli un volto – le cime tempestose, appunto, così aderenti alla coscienza dei protagonisti da dare il titolo al romanzo. Ma esse non sono un attivatore concreto di dolore – né di alcunché di influente sulle vite dei protagonisti. Sono un ponte scenografico tra esterno e interno. Costituendo un nesso di senso, sono agli antipodi rispetto all’incomprensibilità e all’insensatezza con cui i fenomeni ambientali si abbattono sulle vicende umane nel mondo di oggi.
Indietreggiando verso i romanzi svezzati nell’Inghilterra metamorfica della Rivoluzione Industriale, notiamo che anche l’ambiente urbano in essi rappresentato è a suo modo rassicurante, nella misura in cui è immutabile. Penoso, sì, ma affidabile nella sua prevedibilità. La Londra di Oliver Twist, David Copperfield, Esther Summerson, Amy Dorrit, Pip e gli altri piccoli orfani partoriti dalla penna di Dickens è un territorio spietato, ma con le sue regole precise: una sorta di riconfigurazione urbana della giungla. Le leggi della città sono severe, ma affidabili. Gli spazi del lavoro, del ristoro e della criminalità, distinti in fabbriche, case, strade e prigioni, al massimo si intersecano nei crocicchi delle workhouses e delle losche baracche, ma non subiscono sconvolgimenti repentini e spiazzanti.
Solo le narrazioni di viaggio, in particolare di viaggio marittimo, sfuggono a questa stabilità. Prendiamo le vicende di Achab in Moby Dick: esse sono in totale dipendenza dall’ambiente. La sua vita è in balia delle onde. La ricerca di un senso all’esistenza può avvenire solo in mare – perché in mare si annida il male (nelle fattezze della balena) che Achab sente il mandato di estirpare dal globo terracqueo. A ben vedere, tuttavia, il mare non è che una delineazione analogica o allegorica del turbamento interno del protagonista – psicologico, esistenziale, religioso. Il mare è una materializzazione del sublime che ci ricorda del limite, dell’impotenza e della miseria umane, ma che non irrompe sulla scena in quanto entità viva: è un monito, più che un’agenzia. D’altronde il mare non capita ad Achab – è lui che, deliberatamente, ostinatamente, lo cerca: una ricerca estenuata, guidata da una volontà potente e autodistruttiva, che rade via il piacere dalla vita e la immola in sacrificio pur di provare a infrangerne il guscio di insondabilità.
La ricerca di Achab, emblematizzando il rapporto tra anelito alla trascendenza e mortalità, tra senso e comprensione, tra desiderio e limite, ha segnato così profondamente gli immaginari letterari da ispirare riflessioni teologiche, sviluppi, riscritture. Ricordiamo fra queste ultime Il Colombre di Dino Buzzati, il cui protagonista Stefano Roi passa la vita a cercare per mare l’odiato animale che lo perseguita da sempre, salvo scoprire infine – nello struggente incontro finale tra le due creature ormai vecchie e moribonde – che esso non lo perseguitava affatto, bensì lo proteggeva. Anche qui il rapporto del personaggio umano con l’imprevedibilità del mare è determinato da un’intenzione attiva. Anche qui il mare non capita al protagonista: è lui che lo cerca.
Egualmente, il mare non capita a Robinson Crusoe, né a Gulliver, né al Marlow di Cuore di Tenebra: le loro storie non potrebbero svilupparsi altrimenti che in mare, perché attraverso il mare raggiungono luoghi ignoti e, ognuno a suo modo, oscuri.
Tuttavia, sia il mare sia le terre di approdo sono luoghi della mente e dell’anima più che realtà oggettive: se il mare materializza l’imperscrutabilità e la forza spesso violenta del fato, le terre ignote sono rappresentazioni in cui si incrociano sguardi al contemporaneo, critica politica, evocazioni oniriche, teleologie e introspezioni, più che geografie fisiche in cui osservare l’accavallarsi di cultura, condizioni materiali e rapporti sistemici ed ecologici. Si può dire in qualche modo che l’isola di Robinson e le terre in cui viaggia Gulliver non sono veri spazi, ma piuttosto rappresentazioni di immaginari, mentre l’Africa in Cuore di Tenebra è un luogo della psiche[3].
Se, come argomenta Ghosh, il fatto che la forma narrativa a tutt’oggi prevalente sia stata creata e codificata nel periodo in cui l’anidride carbonica iniziava ad accumularsi nell’atmosfera può aver determinato il suo essere impregnata sin dalle origini di valori industriali, positivisti e antropocentrici (Ghosh, 2016:8), l’oggi esige forme narrative svincolate da questi valori. Se si ostina ad attenersi a coordinate non più adatte a mappare l’oggi, infatti, il romanzo perde capacità descrittiva e investigativa. Si fossilizza. Occorre trovare nuove voci, nuovi sbocchi, nuove ermeneutiche per il romanzo, che travalichino i confini di quello a cui siamo abituati.
Per Ghosh, l’ambiente richiede di occupare un altro posto nella narrazione, un posto da cui esso è sempre stato avulso, restando relegato sullo sfondo degli eventi: quello della partecipazione attiva – anche violentemente trasformativa – agli eventi.
L’autore racconta un fatto accadutogli personalmente in gioventù: il 17 Marzo 1978, lui e le moltissime altre persone che si trovavano nel Nord di Delhi furono improvvisamente travolte da un ciclone di potenza devastante (Ivi:11-15). Il ciclone deviò il corso di quelle vite, le trasformò – non in quanto specchio di qualcos’altro, ma proprio in quanto evento climatico estremo. Un simile fenomeno ambientale, per Ghosh, non può essere derubricato a simbolo del piano psichico, né di speculazioni esistenziali o tantomeno del contesto storico-politico.
D’altronde, non è solo l’ambiente, ma tutto ciò che non è antropico – addirittura tutto ciò che non è un individuo, o al massimo una rosa ristretta di individui – a essere bandito dal campo dell’azione romanzesca. Ghosh denuncia a chiare lettere: “il romanzo letterario è […] rimasto sostanzialmente fedele al destino assegnatogli alla nascita”[4] (Ivi:27), cioè un destino in cui l’imperio narrativo è in mano all’individuo umano, giacché “a essere bandito dal territorio del romanzo è precisamente il collettivo”[5] (Ivi:78).
Urge dunque una crisi e una trasformazione, a partire dalla consapevolezza che la visione del mondo sottesa all’impianto e al registro narrativo del romanzo – rimasti sostanzialmente inalterati per tre secoli – non basta più a narrare il presente. L’attualità costringe a interrogare i codici dominanti del romanzo, ovvero ripensare la narrativa in un modo tale che il non umano possa permearla – e addirittura dirigerla.
Alla chiamata di Ghosh sembra rispondere certa letteratura. Pur essendo troppo eterogenea e costituzionalmente anti-genere per essere inquadrabile in filoni precisi, prende in prestito all’occorrenza diverse definizioni per amor di mappatura terminologica. Il poggiare su un impianto narrativo – per quanto tremolante – è forse l’unica costante discernibile nelle opere che la animano.
È una letteratura che sta al confine tra i generi – al risvolto incurvato nella piega che si forma sul limitare dei cosiddetti generi. Un rigonfiamento sull’estremo bordo – sul lembo periferico, distante dal centro ma in contatto con l’altro – che, per prendere in prestito una vibrante immagine con cui Jacques Derrida (2020:68) rappresenta la prossimità umano-non umano, non è un limite ma una limitrofia, una prossimità che al tempo stesso si nutre del margine e lo nutre (dal greco antico trophos, nutrimento).
In questa soglia sensibile e duttile, finanche fluttuante, le istanze di discontinuità da cui il romanzo mainstream è dispensato convergono e si sciolgono nella liquidità dell’ambientazione, dei personaggi, della storia stessa. Questo disegno di architetture plastiche, intricate e vaste, è mosso da un’ambizione audace: abbracciare la rappresentazione della vita intera. Come? Aprendo tagli per nutrire i bordi, squarciando la compattezza della voce, narrante o narrata, e saltellando tra echi di voci singole e corali, così da far eruttare il vecchio linguaggio in zampilli di nuovi linguaggi.
Tuttavia, se è vero che ogni limite che separa dall’altro è al contempo una frontiera che apre all’altro, troppo spesso oggi la facciata retorica della transdisciplinarietà, dell’intersezionalità e dell’ibridazione maschera una rigida classificazione culturale, esistenziale ed estetica. Questa compartimentazione parcellizza il mondo in lotti, erige steccati e agevola l’infiltrazione predatoria di un mercato che cuce offerte su misura dei singoli.
L’esplosione ipertrofica dell’io che ne consegue porta allo spegnimento dell’empatia. Nel romanzo che trabocca di io separati sovente non vi è pluralità, ma piuttosto una proliferazione di singolarità. Molti romanzi postmoderni sembrano caratterizzati da questa proliferazione che ha qualcosa di disfunzionale – bulimico o metastatico. La composizione postmoderna finisce spesso con l’essere un’accumulazione apparentemente scriteriata di significanti che sembrano non dischiudere alcun senso.
Il postmoderno, infatti, marca il passaggio dall’essere avant-garde (en avant, in avanti) del modernismo alla consapevolezza del fatto che non è più possibile creare niente che segua una traiettoria in avanti. Questa impossibilità di guardare in avanti scompensa anche il modo in cui si guarda indietro: così, il postmoderno distoglie e fa distogliere lo sguardo da un passato che, agglomeratosi nel bolo (o nella massa tumorale) del presente, risulta ripugnante – e che, essendo l’umanità ad averlo prodotto, ci ricorda costantemente la nostra colpa. Pertanto, il postmoderno si sbarazza dell’autentica significatività del passato, dopodiché lo scompone in innumerevoli simulacri, feticci e riferimenti, e infine attinge a questi frammenti di collage per comporre la forma culturale più squisitamente caratteristica della sua estetica: il pastiche.
L’effetto del romanzo postmoderno sui lettori è di solito stordente: nell’accozzaglia disparata di immagini, temi, citazioni, è difficile rintracciare un appiglio narrativo.
La lettura è faticosa – forse deve essere faticosa: secondo Franzen (2002:260-261), la cifra del romanzo postmoderno è la voluta inaccessibilità, costitutiva di una vera e propria
“estetica della difficoltà”, in cui la difficoltà è una “strategia” per proteggere l’arte dalla cooptazione e l’obiettivo di quest’arte è “sconvolgere” o “costringere” o “sfidare” o “sovvertire” o “segnare” l’ignaro lettore[6].
Il problema è che, per un effetto domino, l’incomprensibilità deteriorata in ostruzione del senso fa rompere il patto narrativo – cioè quel tacito accordo fra le parti per cui un lettore finge che quanto sta leggendo stia realmente avvenendo. Da questa rottura scaturisce un disinvestimento emotivo che inibisce l’immedesimazione empatica. Così si crea la situazione paradossale per cui, a dispetto delle intenzioni di riparare il romanzo dalla cooptazione del mercato, l’inaccessibilità ombelicale della scrittura foraggia un solipsismo che asseconda proprio gli interessi del mercato.
Non è da trascurare, inoltre, lo stretto legame tra inaccessibilità ed elitarismo, che stride con i natali popolari del romanzo e osteggia a monte lo sviluppo di una critica al sistema economico-politico.
Nel diciannovesimo secolo in Europa, contestualmente alla crescente alfabetizzazione e dunque all’ampliamento del pubblico di lettori, il romanzo fu incoronato forma testuale del popolo[7]. Il romanzo postmoderno, invece, si rivolge troppo spesso a un pubblico necessariamente acculturato – cioè abbastanza edotto sui riferimenti oscuramente sparsi tra le pagine da riuscire a coglierne i referenti. La lettura è resa ostica, condizionata alla dotazione di capitale culturale e pertanto indirettamente preclusa a intere fasce sociali.
Ma se da una parte la narrativa tradizionale è insufficiente a narrare l’oggi, mentre dall’altra molti romanzi postmoderni cauterizzano la lettura, allora quali nuove strade si possono imboccare?
Occorre un cambiamento strutturale, una letteratura che giochi con i suoi costituenti, vivace, incontenibile, in omaggio alla lezione di Ghosh. Una letteratura che potremmo definire post-post-moderna, che combini accoglienza del plurale e nitore del particolare.
Accettare la sfida della contemporaneità implica, per il romanzo, abbandonare la logica dei compartimenti e abbracciare un’estetica che potremmo definire floreale: schiudersi all’accoglienza e al dono, interagire col mondo, far entrare il mondo – direttamente o di sghimbescio – nel novero dei personaggi.
Urge una configurazione nuova dei rapporti sia tra i personaggi che tra la sostanza (la storia) e la forma (la lingua): un caleidoscopio testuale in cui veder brillare personaggi e ambienti vivi, mutanti, dialoganti, che si alternano e si scompongono, ma senza disintegrarsi.
A offrire un possibile sbocco liberatorio è quella narrativa che si sbarazza delle definizioni di genere, attingendo da svariati registri e modellandoli a piacimento per creare combinazioni originali, che Bruce Sterling (1989) ha battezzato slipstream fiction.
Laddove i generi cristallizzano codici, la slipstream li fonde. Li accoglie tutti e al tempo stesso li rifiuta.
Se il genere, come lo definisce Sterling, è qualcosa di vicino all’ideologia, l’accavallamento tra generi può funzionare come gli occhiali in They Live (1988) di John Carpenter: un espediente (in questo caso letterario) per vedere, seppur temporaneamente, il mondo così com’è – spoglio di infrastruttura ideologica, confuso, smagliato, polifonico, strano[8]. Elementi sconclusionati e assurdi trapuntano il testo di crateri di dubbio in cui sprofondano le convinzioni abituali e le aspettative, provocando uno scombussolamento che potrebbe avere il suo equivalente visivo nelle opere di M.C. Escher (Sterling, 1989).
Nella lista – volutamente parziale – di opere slipstream redatta da Sterling si annoverano romanzi che giocano con il registro della fantascienza senza attenersi alle sue regole, ibridandolo. Suddetto registro, va ricordato, negli anni ‘60 si era già rattrappito e anchilosato rispetto ai fulgidi esordi in cui era assurto a portale di liberazione dal canone: rifugiandosi nella nicchia letteraria della fantascienza, infatti, le storie avevano potuto svincolarsi dalle palizzate spazio-temporali in cui l’autorevolezza del romanzo mainstream le costringeva. Era proprio lo statuto di nicchia del genere, la sua minorità, a concedere agli autori una libertà che i romanzieri blasonati non potevano permettersi. Tuttavia, come osserva Sterling, la fantascienza si ritrovò presto a essere invischiata e assorbita nel tritatutto di quel mercato editoriale omogeneizzante da cui essa aveva offerto originariamente uno scampo. La fantascienza al tramonto degli anni ‘80 per Sterling (Ibidem)
è molto simile all’Unione Sovietica contemporanea: il possessore tentacolare di un sogno fallito. Il dogma ufficiale della fantascienza, che quasi tutti ignorano, si basa su un’idea della scienza e della tecnologia che è fallimentare e sempre più distante da qualsiasi tipo di realtà. Oggi l’“Hard-SF”, il nucleo ideologico della fantascienza, è una barzelletta; in rapporto alle realtà sociali del post-industrialismo high-tech, è rilevante quanto l’hard-Leninism[9].
Sterling, giustificando il neologismo slipstream con la necessità di dare un nome alle cose per convenienza espositiva, descrive tale produzione, di fatto non incapsulabile in un genere, come “un tipo di scrittura che ti fa sentire semplicemente molto strano, nel modo in cui ti fa sentire strano vivere alla fine del ventesimo secolo, se sei una persona dotata di una certa sensibilità”[10] (Ibidem).
Questo senso di stranezza riecheggia il perturbante freudiano (Freud, 2003 [1919]), un concetto che è a sua volta in rapporto attillato con il weird e l’eerie su cui Derrida (1994 [1993]) e Fisher (2014; 2018 [2016]) hanno ricamato fini e arcuate riflessioni. Il perturbante (o, secondo la traduzione inglese, uncanny, ovvero unheimlich) freudiano designa ciò che è stranamente non familiare, che veicola un senso di disturbante non appartenenza. Anche il weird e l’eerie si riferiscono a una sensazione di fuori posto. Per Fisher (2018 [2016]:17)
un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui. Eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide.
Le agenzie occulte del capitalismo, per Derrida come per Fisher (e, come abbiamo visto, anche per Sterling) emergono con forza in questo insieme di strane discordanze e sospensioni. Un insieme di cui i romanzi slipstream restituiscono le atmosfere – avvalendosi di forme e strutture inconsuete – per denunciare l’assurdità e la weirdness alogena del tardo-capitalismo.
Tra i romanzi che smagliano i registri per vagare nella liminalità della slipstream, Sterling cita opere diversissime fra loro: da Mattatoio n. 5 a I Versi Satanici e I figli della Mezzanotte.
Mattatoio n.5 o la Crociata dei Bambini – una danza obbligata con la morte (Vonnegut, 2014 [1969]) è la narrazione pindarica e allucinata di un’esperienza traumatica vissuta personalmente dall’autore: il bombardamento di Dresda durante la Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista viaggia nel tempo, percorre tappe alternate della sua biografia, vede il mondo e la sua stessa identità distorcersi col deformarsi del tempo lineare, finché non viene rapito dagli alieni di un pianeta immaginario, per i quali il tempo è circolare e la morte non esiste. Fino all’ultimo, non è chiaro chi parli – eppure è una voce sempre piena di sentimento e umanità.
I Versi Satanici (Rushdie, 2015 [1988]) è una storia su piani affastellati – realistici, onirici, storici, Coranici – raccontata con l’impareggiabile lirismo che contraddistingue la prosa di Rushdie. Dopo essere sopravvissuti a un incidente terroristico su un volo, Gibreel Farishta e Saladin Chamcha, due attori indiani, sviluppano attributi rispettivamente angelici e demoniaci: metamorfizzano in ibridi al confine tra mortale e spirituale. Le loro vicende di alternano a quelle di moltissimi altri personaggi, compreso il profeta Maometto.
I Figli della Mezzanotte (Rushdie, 2017 [1981]), dal canto suo, è un’avvincente narrazione corale che segue il percorso storico dell’India dalla colonizzazione all’indipendenza, spennellandolo di elementi soprannaturali (tra cui le doti magiche possedute dai cosiddetti figli della mezzanotte, ovvero i nati alla mezzanotte del 15 agosto 1947, data dell’indipendenza Indiana). Anche qui la coralità delle voci apre alla moltitudine, richiamando un’idea di collettività che è quintessenziale alla parabola storica dell’emancipazione Indiana dal giogo coloniale.
Sono romanzi che attingono alla fantascienza, al fantasy, al realismo magico, ma sconfinano al di là di questi generi. Soprattutto, in essi l’inclassificabilità non implica inaccessibilità – che, ricordiamo, è prodromo dell’anestesia. Nelle loro variopinte gallerie di volti – umani, onirici, demoniaci, angelici – nessun connotato particolare sbiadisce nella moltitudine. I personaggi restano memorabili nonostante cambino attributi e si ri-denominino, mentre storia e linguaggio abdicano al loro ruolo tradizionale di contenuto e contenitore e si impastano l’una nell’ (e dell’) altro.
Un romanzo che, pur non figurando nell’elenco stilato da Sterling, possiamo annoverare tra i più brillanti esempi di slipstream, è Le tre stimmate di Palmer Eldritch (Dick, 2019 [1964]). Privilegiando l’ibridazione alla compartimentazione, Philip Dick crea una storia oltre-fantascientifica, senza protagonisti né antagonisti inequivocabili, in cui i personaggi si compenetrano reciprocamente. Il Palmer Eldritch che dà il titolo al romanzo è un ibrido – in quanto umano-cyborg-demone – nonché un essere che incorpora altri esseri e si incorpora in altri esseri, essendo in grado di infilarsi nelle coscienze altrui (forse per sempre) mediante il canale aperto dalla droga Chew-Z: come un fantasma, aleggia, appare, scompare, ricompare. Parallelamente, le coscienze narcotizzate dalla droga entrano nella coscienza di Eldritch, al punto che il confuso Barney Mayerson si domanda se la sua intera vita non sia altro che un pensiero di Eldritch.
Prendiamo in esame con attenzione particolare due romanzi: Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (2012 [2011]) e Terminus Radioso di Antoine Volodine (2016 [2014]). Sono opere che Sterling molto probabilmente avrebbe collocato nel suo elenco slipstream, se non fossero state scritte oltre vent’anni dopo il suo articolo.
In effetti, al primo di questi romanzi non è stata assegnata alcuna etichetta di genere, mentre il secondo si colloca in un genere – il post-esotismo – coniato ad hoc dall’autore per dare un nome alla sua altrimenti non categorizzabile produzione.
Si tratta di due libri molto diversi fra loro, ma accomunati dal dare voce a soggettività internamente divise (il contrario di in-dividuo) o collettive: umane-animali-mostruose-animiche, ambientali, semi-umane. Comunque plurali.
In entrambe le opere, da un lato i non umani hanno una tale importanza da spingere a interrogare la legittimità etica dello statuto di inferiorità normalmente riservato loro, dall’altro l’ambiente eccede la dimensione di ambientazione per assolvere a un ruolo molto vicino a quello di agente narrativo a cui lo chiama Ghosh.
Si tratta in entrambi i casi di un ambiente irrorato di riferimenti a due immaginari strettamente incrociati, benché declinati in modi diversi: quello tardo- e post-sovietico e quello post-apocalittico.
L’immaginario fine-sovietico è un immaginario polivalente, giacché da un lato, riferendosi a un passato irrecuperabile, è un detonatore di nostalgia; dall’altro, poiché investe non solo il passato, ma anche la dimensione spettrale dei futuri non più possibili, fornisce una lente eerie attraverso cui mettere in crisi il presente. Infine, si presta benissimo a scuotere e rivitalizza il romanzo nonostante l’estinzione del suo referente, a produrre scenari fantapolitici, riscritture della storia, ritorni palingenetici e altre brillanti invenzioni narrative.
L’universo tardo-sovietico ha qualcosa del preventivamente nostalgico, uno spleen riconducibile all’essere stato incubato nel crepuscolo di un’utopia, al termine di una parabola consapevole della propria imminente fine. Esso è il prodotto di una cultura che si accorge di aver perso l’occasione di essere qualcos’altro rispetto a ciò che è stata (la cultura socialista) e di non avere più un futuro percorribile all’orizzonte, poiché sta per essere fagocitata dal capitalismo mondiale. E, proprio per il suo carattere di sospensione, di sovrapposizione tra l’onda dell’utopia e lo scoglio della disillusione, stimola a fare quel che per Sterling fa la slipstream: scuotere le categorie del genere letterario, aprire crepe, e così narrare le strane, coesistenti discrepanze del presente.
Senza contare che quel crepuscolo ci costringe a guardare al nostro crepuscolo, e lo spettro passato dei futuri mancati rivela in filigrana un’altra presenza spettrale: quella dei futuri che sembrano impossibili nel presente.
Riprendendo la definizione di Mark Fisher, i “futuri perduti” sono quei futuri che avrebbero potuto realizzarsi ma non si sono mai realizzati (Fisher, 2014) – i futuri mancati, che si sarebbero potuti tradurre in presenti alternativi e migliori, e di cui pertanto abbiamo una strana nostalgia: la nostalgia di un fantasma. Questa definizione è debitrice al concetto di hauntology (neologismo che accorpa haunt, infestare, e ontology, ontologia: letteralmente, un’ontologia dell’infestante), coniato da Derrida per riferirsi a ciò che è “né vivo né morto, né presente né assente: spettralizza”[11] (1994 [1993]:63). Questo fumoso contenitore abbraccia quegli eventi che non si sono mai compiuti perfettamente, ma la cui prefigurazione continua ad aleggiare nel presente, infestandolo come un fantasma[12].
Il connubio dell’immaginario tardo-e post-sovietico con quello post-apocalittico potenzia la spettralità: il senso di una catastrofe imminente o appena consumata si sparge per la storia come un alone, una presenza vaga e perturbante.
Per Gospodinov il mondo tardo-sovietico è uno spazio del ricordo, un’Apocalisse in sé (in quanto mondo finito), un’Apocalisse passata in cui aleggia lo spettro di un’Apocalisse futura: l’Apocalisse nucleare che in quel passato dominava la visione terrificante del futuro. Ma anche il presente ha le sue Apocalissi: così come la morte di qualcuno è la sua fine del mondo, la scomparsa di qualcosa decreta sempre una mini-Apocalisse.
Per Volodine, il post-Apocalisse è uno scenario fantapolitico che si immagina avere luogo nel futuro. Un futuro che ha recuperato dal passato l’Unione Sovietica, e dunque plasma un mondo in cui l’immaginario post-sovietico letteralmente coincide con quello post-apocalittico.
In Terminus Radioso, la storia ha luogo in un tempo circolare che lascia supporre future Genesi e dunque Apocalissi. La fine, pertanto, è solo apparente, o comunque non definitiva, bensì ciclica: nell’antefatto del romanzo, alla fine dell’Unione Sovietica è succeduta una seconda Unione Sovietica, mentre la fine del mondo ha inaugurato una post-Apocalisse che potrebbe essere perenne – una fine senza fine – o essere seguita da nuove Genesi e quindi nuove Apocalissi – cioè da eterni ritorni. Il tempo lineare è dunque rimpiazzato da un tempo infinito e convoluto. Il futuro imprecisato dell’ambientazione è più nello specifico un futuro posteriore: il futuro di un precedente futuro. Solo da cenni peregrini a questo futuro anteriore apprendiamo che un gruppo di terroristi anti-rivoluzionari ha fatto esplodere le centrali nucleari edificate ovunque dalla Seconda Unione Sovietica (il regime insediatosi globalmente al tramonto del capitalismo). Così l’atmosfera terrestre è stata avvelenata e la vita sul pianeta alterata radicalmente, benché non sterminata. All’indomani di questa Apocalisse che è a sua volta occorsa all’indomani di una nuova Genesi, si osservano figure umane a cavallo tra la vita e la morte, o morte eppure viventi, o vive e morte a fasi alterne, farsi largo tra fitte foreste abitate da nuove specie vegetali[13] e animali post-nucleari che hanno rimpiazzato quelli precedenti.
Il tempo, dunque, si libera dalla cattività in cui lo ha imprigionato il modello capitalista-estrattivista – un tempo lineare che vede nel presente il termine della storia e nel passato solo un’accumulazione di tempo – per danzare nelle correnti fantasmagoriche di quello che sarà stato, di quello che non è stato ma avrebbe potuto essere se qualcos’altro fosse stato, di quello che insieme sarà, è, è stato e di quello che nega tutti i verbi precedenti.
La dimensione post-apocalittica è molto cara a Volodine per le possibilità immaginative che dischiude: anche in Angeli Minori (2016 [1999]), Le ragazze Monroe (2023 [2021]) e altri dei quarantacinque romanzi finora scritti dall’autore (sotto gli svariati pseudonimi che ha inventato per dare polifonia autoriale a quel genere di suo conio – nonché esclusivo dominio – che è il post-esotismo), le vicende hanno luogo in uno scenario all’indomani della fine del mondo. I picchi di pathos che generalmente accompagnano l’avvicendarsi di un disastro nelle narrazioni catastrofiche sono già atterrati al suolo della posteriorità, anzi al sottosuolo di un infinito oltretomba.
L’ambiente derelitto, fatto di costruzioni diroccate e lande marcescenti, è determinante per lo sviluppo della storia. È questo strano ambiente a innervarla di pulsazioni che la attivano, la accendono, la spingono nei cunicoli labirintici e senza destinazione in cui essa – la storia oltre la Storia – è destinata a strisciare. Nella scelta di questo ambiente vi è una precisa intenzione espressiva – creare una forma romanzesca “confusa, sontuosa, fantastica, esuberante, […] altisonante” (2017[1998]:27) – funzionale a una visione politica che Volodine non esita a definire “rivoluzionaria” e “battagliera” (Ivi:19), avversa all’”universo capitalista e [al]le sue innumerevoli ignominie” (Ibidem).
Il post-esotismo, dunque, è esplicitamente all’insegna dell'”egualitarismo” (Ivi:27). Lo scenario post-apocalittico è intrinsecamente egualitarista, poiché da un lato tutti gli umani sono sullo stesso livello nell’ostile mondo radioattivo, alla cui tossicità nessuno statuto sociale offre scampo, dall’altro lato l’indistinto che è cifra del mondo dopo la fine del mondo – talmente indistinto da sciogliere le categorie di vivo e morto – mette gli esseri umani sullo stesso livello dei non umani, siano essi animali o altre entità.
Dunque un egualitarismo radicale, anzi un “egualitarismo criminale” (Ivi: 40), che risuona di ideali anarchici, anti-classisti e antispecisti. L’empatia per gli animali, in particolare, è molto forte in Volodine. Nell’immaginario interrogatorio a cui è sottoposto il post-esotismo nel libro che ne costituisce il manifesto, ovvero Il post-esotismo in dieci lezioni: lezione undicesima, gli ingessati rappresentanti della letteratura ufficiale chiedono ai vari eteronimi dell’autore, incarcerati nel braccio di massima sicurezza, di parlare della simpatia che essi nutrono per gli animali, per gli uccelli, e anche del ricorrente “parlare con gli animali, [del]la dimensione animalesca di tanti personaggi, [de]i rapporti di fratellanza con gli uccelli, persino con gli insetti” (Ivi:38). La replica, a distanza di pagine, è fulminante: “Il vostro mondo è un inferno per gli umani come per gli animali!” (Ivi:54).
Per certi umani e animali, in effetti, ogni giorno è un inferno – o un’Apocalisse.
Un egualitarismo nel dolore, dunque – lo stesso a cui chiama Gospodinov (2013[2011]:192) allorché, per parlare degli animali, usa l’espressione Darwiniana “confratelli nel dolore” (fellow brethren in pain). In una serie di paragrafi toccanti, di cui uno dall’eloquente titolo “Notazioni antiantropocentriche” (Ibidem), un episodio di cronaca – un toro ucciso a fucilate per aver assalito e ferito degli spettatori della Corrida – è ricondotto a un’immaginaria allucinazione del Minotauro e al suo cercare di raggiungere sugli spalti la visione della madre Pasifae, prima di essere ucciso da un assassino senza volto. Subito dopo, vengono citate testualmente le istruzioni (complete di disegni) sulla corretta macellazione dei bovini, compresa l’algida postilla sulla necessità di tenere conto della misura inferiore del cranio dei vitelli – in quanto cuccioli – durante la loro uccisione). Successivamente, si rievoca un frammento di L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (guardato dal narratore in un cinema insieme a due senzatetto) in cui la tentata “resurrezione” di una mucca – tramite il montaggio all’incontrario della sua macellazione – fallisce, poiché lo spasimo di orrore e di agonia catturato negli occhi dell’animale morente non fa che sancire l’irreversibilità della sua morte. Infine (Ivi:189) si informa seccamente che
ogni anno per i bisogni alimentari degli uomini vengono uccisi 1,6 miliardi di mucche, pecore e maiali e 22,5 miliardi di uccelli. Noi siamo l’inferno per gli animali, l’apocalisse degli animali.
Un inferno, appunto – proprio come per Volodine.
Quest’empatia per l’animale è in rapporto metonimico con l’empatia per il misero, l’abietto, il dimenticato, l’insignificante agli occhi del mondo.
In Fisica della Malinconia, il racconto dal punto di vista del Minotauro forzatamente sotterrato, così come la domanda: “pensi che l’orecchio d’orso (un’erba medicinale, ndr) figuri nella storia del mondo scritta dagli uomini?”(Ivi:197) vogliono spostare l’attenzione su chi normalmente non la riceve: i minuscoli o i repellenti, i subumani, gli interrati, i dimenticati.
In Terminus Radioso, “La sopravvivenza senza prospettiva” in un limbo che riecheggia il Bardo, ovvero il periodo di stasi dell’anima dopo la morte del corpo e prima della sua successiva reincarnazione secondo il Libro Tibetano dei Morti, “permett[e] al lettore di immedesimarsi in persone miserabili che non hanno pretese di “superumanità” e che, al contrario, si percepiscono come “subumane”” (Volodine in Gilles, 2023).
Dunque la post-Apocalisse post-esotica è, a differenza di quella rappresentata nella cosiddetta cli-fi (ovvero la fantascienza che immagina un mondo all’indomani della catastrofe climatica ed ecologica), l’habitat della minorità, dell’infimità e dell’intimità. A differenza che nella roboante ma strutturalmente compassata cli-fi (quella branca della fantascienza che immagina un pianeta futuro sconvolto dal cambiamento climatico)[14], con le sue ambientazioni orrorifiche, marcate da una decadenza monumentale, e le sue imprese umane cariche di pathos, nella narrazione post-esotica l’indomani del disastro è una soglia scontornata, popolata da creature misere, fragili e antieroiche.
In questo spazio limbico, tutto si fonde: coscienze, identità, tempo.
La vittima è il carnefice, il passato è presente, il compimento dell’azione è il suo inizio, l’immobilità è movimento, l’autore è un personaggio, il sogno è realtà, il non-vivente è vivente, il silenzio è parola eccetera[15].
Questo non significa che non ci siano regole, anzi: il post-esotismo è definito da un impianto rigoroso, suddiviso in sotto-generi (tra cui il romånso, lo zaconto, la shaggå, la nuvella o intrarcana) e avvalentesi di espedienti (quali la voce muta, il sotto-narratore, la parola fittizia, la contro-voce, la voce morta, il sotto-realismo, la policronia, l’apnea narrativa), nonché cifrato secondo sequenze numerologiche (in particolare, la ricorrenza dei multipli di sette nella paragrafazione e la ripetizione di una certa cifra nel numero complessivo di lettere di un’opera).
Questa sistematicità lascia intendere che, nella letteratura come nella vita, si possono inventare modelli alternativi e non canonici, ma non si può sfuggire alla necessità di perimetrare il caos in codici. L’ambizione a sbarazzarsi di qualsiasi modello, infatti, degenera in compromissione dell’unità complessiva e della comprensibilità – in breve, di ciò che rende accessibile e dunque emozionante il romanzo. Questa degenerazione è il marchio di una certa produzione postmoderna, che Volodine e i suoi eteronimi inquadrano nell’accademismo, servile a un potere iniquo e verso il quale nutrono il più profondo disprezzo. Pertanto, ne prendono dichiaratamente le distanze, affermando di aver inventato il termine post-esotismo proprio per evitare di essere confusi o maliziosamente misinterpretati come una sotto-corrente del post-modernismo. Gli autori post-esotici (Ivi:38-39)
cercavano di definire supporti letterari che non sarebbero scesi a patti con voi, che non avrebbero riprodotto nessuna delle vostre tradizioni e nessuno dei vostri conformismi o anticonformismi ufficiali. Hanno inventato forme nuove che voi non avete mai avuto modo di inquinare, e le hanno riempite di visioni estranee alla vostra sensibilità. Anche in questo, anche con questo, hanno aderito alla ribellione. Hanno inventato il genere romånso per non essere confusi con voi e con i vostri tentativi di rinnovamento del romanzo, con tutte le acrobazie da bottegai tipiche delle avanguardie istituzionali […], per affermare che, a dispetto delle vostre smargiassate, voi continuavate bellamente a essere i rappresentanti e i cani loquaci del mondo, i buffoni del nemico, i parolieri di un mondo da distruggere.
Al contrario delle imperscrutabili avanguardie, il post-esotismo fa un punto d’onore di accogliere il lettore nei suoi universi labirintici, permettendogli di visitarli senza smarrivisi (e senza smarrire il gusto della lettura). Così, al lettore è fornito un esilio, “un esilio tranquillo, fuori dalla portata del nemico, per sempre fuori dalla portata del nemico” (Ivi: 58).
Anche in Fisica della Malinconia il tempo zigzaga tra presente, vari momenti del passato e futuri immaginati nel passato – nello specifico, l’Apocalisse che il narratore ricorda di aver percepito così imminente, nella sua infanzia tardo-sovietica, da collezionare una serie di artefatti (oggetti, foto, scritti) pensati per essere dei futuri reperti archeologici post-Apocalisse.
Le vestigia dell’Unione Sovietica, in Fisica della Malinconia, sono rifugi mnemonici da una fine che era già conclamata nel passato – e che è già avvenuta nel presente. Si può dire che Fisica della malinconia, in bilico tra realismo magico, memoir e riscrittura del mito, sia in sostanza una sperimentazione nel campo della memoria, un campo con coordinate a parte, dove le assi di spazio e tempo si slanciano in direzioni inusuali. La narrazione procede per spicchi di ricordo, che, paragrafo dopo paragrafo, si allineano a formare un inventario mnemonico, fatto di portali verso la malinconia e la nostalgia[16].
Anche questo romanzo vede dunque slabbrarsi, oltre all’elastico dei generi, le maglie di spazio, tempo, ma anche struttura, trama e personaggi – giacché tra le forze agentive si annoverano soggettività non umane.
La storia gravita mollemente attorno a un io narrante che si dichiara affetto da “empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica” (Gospodinov, 2013[2011]:93), un disturbo raro che lo porta in certi momenti a essere magicamente sospinto nella coscienza di qualcun altro (contemporaneo o passato), vivere la sua vita, sentire col suo corpo e le sue emozioni. Qualcuno che può essere creatura umana, ma anche drosofila, essere eterno, imminente nascituro, rovo di rosa canina, pernice, gingko biloba, lumaca, nuvola di giugno, fiore autunnale turchino di croco, ciliegio precoce gelato, neve che ha gelato il ciliegio (Ivi:15-16).
Le fenditure si divaricano fino a occupare tutto lo spazio: quello che ne risulta è una narrazione non consequenziale, storta e sbilanciata, nonché scevra di un punto di vista definito – o, per meglio dire, esplodente in punti di vista moltiplicati.
Tra questi, è particolarmente interessante il punto di vista di una delle coscienze in cui si avventura temporaneamente l’io narrante. Tale coscienza appartiene non a un essere umano, bensì a una figura mitologica bistrattata dalla tradizione classica: il già citato Minotauro. Il narratore solidarizza con la creatura, relegata nel Labirinto Cretese dal padre Minosse per la sua indefinitezza, che è marchio dell’abominevole fornicazione di Pasifae: metà uomo, metà toro, e in quanto entrambi, nessuno dei due.
L’empatizzare profondamente con il Minotauro – al punto da identificarsi con lui e dedicargli un’accorata arringa di difesa in un immaginario processo (che tuttavia si conclude con la condanna a una perdurante cattiva reputazione) – si configura come un’attuazione di quella apertura del romanzo al non umano a cui esorta Ghosh.
In Terminus radioso, va detto, la compenetrazione tra coscienze e il mescolamento identitario si declinano non solo come empatia, ma anche come intrusione indebita, nei passaggi in cui il vaticinante Soloviei – figura a cavallo tra lo sciamanico e il demoniaco – si intrufola nei sogni delle figlie Samyia, Miriam e Hannko, declamandovi i suoi versi stentorei, sorvegliando le loro coscienze e violandone quasi incestuosamente la riservatezza.
In questi romanzi paradossali, intessuti di riferimenti[17] e talmente polifonici che è impossibile decretarne un solo protagonista, l’elemento forse più strano (nel senso assegnato da Sterling alla slipstream), più perturbante di tutti, è la combinazione di atmosfere apocalittiche e leggerezza umoristica del tono.
In Fisica della Malinconia la vecchiaia e la morte sono ricorrenti: quella dei vari personaggi, il tramonto sovietico, la fine dell’infanzia, l’impolveramento dei vecchi eroi del cinema e dei film sull’indiano Cingaciuk, i ritagli di giornale decrepiti, l’inattualità del marchio del vaccino sul braccio e l’invecchiamento dell’autore stesso, sono tutte manifestazioni dell’inevitabile declino. Ma è un declino su cui l’umorismo rende leggero scivolare, al netto di quella reazione naturale al declino che è la malinconia, segnalata già dal titolo ed effettivamente spalmata in tutto il romanzo.
In Terminus Radioso, l’ambientazione post-apocalittica e cimiteriale è tetra ma al contempo variopinta. La scrittura è animata da uno humour soffuso e onnipresente. L’ubiquità della morte è controbilanciata da un intenso pullulare di vita, ancorché in forme nuove, non ancora codificate né comprensibili. Tra queste si annoverano le nuove specie viventi, ma anche i molteplici stati dell’essere, che non corrispondono né alla vita organica né alla morte, e gli eventi che avvengono – o forse non avvengono – in tempi imprecisati; tutti elementi e situazioni che da un lato accolgono, dall’altro propellono la frattura dei nessi temporali, e innescano una causalità condizionata da altre variabili: i sentimenti familiari (quelli sì, quasi inalterabili: ne sono un esempio la possessività paterna incarnata da Soloviei, la rabbia e il timore delle sue figlie), l’amore, la reiterazione interminabile della violenza.
Se Franzen taccia implicitamente il tipico romanziere postmoderno di odiare il lettore – “come se, per lui, il rapporto con il pubblico fosse un piacere che minaccia di rovinare la purezza delle sue ragioni”[18] (Franzen, 2002:251) – Gospodinov e Volodine indubbiamente lo amano: lo accolgono e lo incuriosiscono, lo tengono sospeso e avvinto, a dimostrazione del fatto che la partecipazione emotiva alle vicende narrate e al sentire espresso non presuppone imprescindibilmente né una scriminatura logica di quelle vicende, né un’individuazione chiara di chi prova quel sentire. La partecipazione emotiva affiora come reazione spontanea, trasversale, popolare alla lettura.
Com’è possibile, verrebbe da chiedersi, appassionarsi alle vicende di qualcuno che non è nemmeno esattamente un personaggio, perché ha marcatori intermittenti e traballanti, o addirittura non c’è, essendo sparito sullo sfondo della sua (o della loro) voce? Eppure avviene[19].
Non resta altro da fare che restare sintonizzati sui processi in corso di attraversamento, fermo restando che il giudizio sull’esito – se il romanzo come forma testuale e non solo una sua nicchia sperimentale, riuscirà a reinventarsi senza devitalizzarsi – è rimandato allo scrutinio della posterità.
Note:
[1] convenzionalmente indicato come primo esemplare del romanzo moderno.[2] Commonplace’? ‘Moderate’? How did Nature ever come to be associated with words like these? The incredulity that these associations evoke today is a sign of the degree to which the Anthropocene has already disrupted many assumptions that were founded on the relative climatic stability of the Holocene.[3] Fu proprio questa riduzione di una complessa realtà geografica alla tela espressionista dell’io narrante ad attirare le critiche incendiarie di Chinua Achebe (1977): nelle parole dello scrittore Nigeriano, la descrizione che Conrad fa dell’Africa e degli Africani attraverso gli occhi di Marlow indulge in stereotipie inaccettabili, strumentali a una narrazione eurocentrica, ovvero una narrazione in cui il rapporto dell’io europeo con la realtà invade e silenzia qualsiasi esperienza eteroculturale della realtà.[4] to a quite remarkable degree, the literary novel has […] remained true for the destiny that was charted for it at birth.[5] what is banished from the territory of the novel is precisely the collective.[6] ‘aesthetics of difficulty’, wherein difficulty is a ‘strategy’ to protect art from co-optation and the purpose of this art is to ‘upset’ or ‘compel’ or ‘challenge’ or ‘subvert’ or ‘scar’ the unsuspecting reader.[7] Ricordiamo a tal proposito che le uscite seriali dei romanzi di Dickens sulle riviste letterarie mensili erano attese con enorme trepidazione dal pubblico, al punto che l’autore Inglese riceveva innumerevoli lettere con richieste accorate di far sviluppare la storia in un certo modo, far sopravvivere un certo personaggio, modificarne un altro: ad esempio, moltissimi lettori implorarono (invano) l’autore di risparmiare la vita alla piccola Nell di La Bottega dell’Antiquario, mentre la donna a cui era ispirato il personaggio grottesco di Miss Mowcher in David Copperfield chiese (e ottenne) di essere ritratta in modo più lusinghiero (Jennings;Douglas, 1991:187).[8] Secondo la lettura che ne dà Slavoj Zizek in The Pervert’s Guide to Ideology (2013), la pellicola di Carpenter sviluppa una riflessione sull’impossibilità umana di sbarazzarsi dell’ideologia. Nel film, il mondo nudo di ideologia è visibile solo indossando dei fantascientifici occhiali rivelatori – quindi di fatto impossibile da vedere. Privarsi di uno sguardo ideologico è un obiettivo irrealizzabile, essendo tale sguardo costituzionale all’umano: non risiede nelle lenti, bensì è incorporato negli occhi. Milan Kundera (2005 [2002]) è di un altro avviso: per l’autore Ceco, davanti al mondo si stende un sipario di pre-interpretazioni, fatto di miti, convenzioni, ideologie, narrazioni ereditate e altre visioni della realtà, ma il grande romanzo ha la capacità di scostare questo sipario e rivelare il mondo così com’è – il mondo spoglio di ideologia.[9] is a lot like the contemporary Soviet Union: the sprawling possessor of a dream that failed. Science fiction’s official dogma, which almost everybody ignores, is based on attitudes toward science and technology which are bankrupt and increasingly divorced from any kind of reality. “Hard-SF,” the genre’s ideological core, is a joke today; in terms of the social realities of high-tech post-industrialism, it’s about as relevant as hard-Leninism.[10] a kind of writing which simply makes you feel very strange; the way that living in the late twentieth century makes you feel, if you are a person of a certain sensibility.[11] neither living nor dead, present nor absent: it spectralizes.[12] Nel novero di questi eventi rientrano le utopie storiche, in particolare il marxismo.[13] venti righe sono dedicate al musicale elenco di piante ed erbe inesistenti, che sembra attinto da un antico almanacco calato nel futuro remoto (Volodine, 2016 [2014]:22, 28-29).[14] A proposito della cli-fi, Ghosh (2016:72) ne denuncia la costrizione dell’immaginario catastrofico nell’imbuto di un futuro remoto e dunque la scollatura dal presente. All’obiezione che anche Terminus Radioso (e la letteratura post-esotica in generale) privilegia ambientazioni future, si può controbattere che il futuro cli-fi è molto diverso dal futuro post-esotico: laddove il primo è una proiezione a distanza di paure presenti, che non intacca la struttura tradizionale, il secondo è un campo sperimentale, non proiettivo, dove le giunture narrative consuete si sfilano.[15] (Volodine, 2017[1998]:42). A questa serie di binomi che si fondono si può aggiungere quello ateismo-religiosità. Il Bardo Thodol, infatti, non ha ispirato il post-esotismo; piuttosto, è stato il post-esotismo a cogliere un’affinità di visioni e di valori con il Bardo Thodol e dunque a spargervi riferimenti svincolati da qualsivoglia adesione cultuale (Ivi:79).[16] Non è un caso che quest’inventario sia marcato dalla pervasiva – quantunque non panegirista – allure nostalgica del passato sovietico: gli oggetti della quotidianità tardo-sovietica catalizzano rievocazioni nostalgiche non certo in quanto reperti di un’epoca idillica, ma in quanto materialia diventati inutili e parossistici nell’arco di una stessa vita, manufatti di una cultura superata e irripetibile altrove che nella memoria.[17] Quelli a Bogdanov e al suo Stella Rossa (1989 [1908]), pietra miliare della fantascienza utopica socialista, sono disseminati sin dall’inizio di Terminus Radioso: il nome del kolchoz verso cui si dirigono tre personaggi moribondi in fuga dalle radiazioni è proprio “Stella Rossa”. In Fisica della Maliconia, invece, si intesse un costante dialogo con il mito – e con le diverse versioni che ne hanno dato storici e tragediografi.[18] as if, for him, intercourse with the public were a pleasure that threatened to taint the purity of his motives.[19] in una maniera non troppo dissimile – anzi con un’ulteriore messa in crisi delle categorie identitarie – che in Quell’oscuro oggetto del desiderio di Luis Buñuel (1977), film in cui pure l’oggetto del desiderio (la donna) cambia continuamente volto.Bibliografia:
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– Carpenter, J., They Live, 1988.
– Vertov, T., L’uomo con la macchina da presa, 1929.
– Žižek, S., The Pervert’s Guide to Ideology, 2012.
Stefania Persano è insegnante di lingue e traduttrice. I suoi interessi spaziano dalla narrativa all’epistemologia della didattica, dalla musica alla poesia e all’intreccio tra queste ultime. È membro del Collettivo Trickster.
Parole chiave: romanzo postmoderno, post-esotismo, slipstream fiction, immaginario tardo e post-sovietico, narrativa post-apocalittica.