Hamid Ismailov, Il figlio del sottosuolo, Utopia Editore 2025

di Stefania Persano

Scarica il pdf: Recensione di “Il figlio del sottosuolo” di Hamid Ismailov

Il 13 giugno è uscito per Utopia Editore Il figlio del sottosuolo. Il libro è la traduzione dal russo, a opera di Nadia Cigognini, del romanzo Mbobo di Hamid Ismailov, dato per la prima volta alle stampe per la rivista Družba Narodov nel 2009.

Questo scarto temporale di sedici anni dalla prima pubblicazione (dodici dalla  traduzione inglese, firmata da Carol Ermakova e uscita col titolo The Underground per i tipi della RestlessBooks), se da una parte testimonia la persistente ritrosia dell’editoria italiana a far circolare opere incubate nel pur vastissimo grembo della letteratura post-coloniale, d’altra parte segnala anche un nascente interesse verso di essa.

L’aggettivo post-coloniale identifica non ciò che verrebbe utopicamente dopo il colonialismo, bensì ciò che insegue, si mette sulle tracce, indaga e interroga un colonialismo mai terminato.

Lungi dal favoleggiare uno svincolamento – di fatto mai avvenuto – dai legacci del giogo coloniale, la scrittura postcoloniale si misura con quei legacci. In breve, a partire da una posizione di marginalità – a seconda dei casi denunciata, combattuta o rivendicata – la produzione postcoloniale si scontra di petto con retaggi dolorosamente persistenti e nuove forme di oppressione, che lotta per smantellare.

Concepita nelle periferie dei grandi imperi, questa produzione – nel cui solco si inserisce l’opera di autori, come Ismailov, provenienti dall’ex soviet sfera – ne interroga la perdurante egemonia materiale e culturale, così smascherando la retorica mendace della destituzione del potere centrale.

La scrittura post-coloniale consente un’auto-affermazione identitaria – o più esattamente esistenziale – grazie all’uso di una prima persona a lungo negata. Essa è pertanto una scrittura che ri-scrive, dando spazio alle storie che la Storia ha lasciato in ombra.

Tra i modi impiegati per riscrivere la Storia coloniale figurano gli esperimenti di riscrittura di quei classici letterari che hanno contribuito a raccontarla. Questi esperimenti hanno prodotto contro-narrazioni del calibro di Wide Sargasso Sea (Rhys 1966), ovvero la riscrittura di Jane Eyre di Charlotte Brontë dal punto di vista della “pazza in soffitta” di origini creole Bertha Mason, oppure Foe (Coetzee 1986), una riscrittura di Robinson Crusoe che interroga la configurazione dei rapporti di potere, soprattutto tra il protagonista e lo schiavo nero Venerdì, nel romanzo di Daniel Defoe.

Benché meno noto di queste riscritture del canone inglese, le quali spinsero ad annunciare nel 1989 che The Empire Writes Back (titolo di un saggio di Ashcroft, Griffiths e Tiffin che allude giocosamente al sequel del 1980 di Star Wars: The Empire Strikes Back), il processo di messa in discussione e ribaltamento delle narrazioni dominanti nell’URSS è un fenomeno di vasta portata nel panorama letterario post-sovietico.

Così come la corona britannica, la repubblica francese, la monarchia spagnola e quella portoghese (e, in scala miniaturizzata, il fascio italiano), anche la falce e il martello russi hanno imposto la loro egida su territori extra-nazionali più o meno geograficamente vicini, ricavandone profitto, plasmandone l’istruzione, imponendovi la propria lingua e il proprio assetto politico-istituzionale, in breve influenzando ogni aspetto della vita. Dal Cremlino sono state emanate leggi arbitrarie su luoghi e persone, sono state alterate culture, sono state sfruttate fino all’osso risorse naturali e umane, sono stati svolti esperimenti dall’impatto catastrofico sull’ambiente e sulle comunità, sono stati eletti a leader locali dei manichini al soldo del governo centrale, a causa della cui azione di indebolimento politico sui territori governati il crollo del centro ha scatenato onde sismiche di instabilità, aprendo la strada all’insediamento di dittature (emblematici in questo senso sono i casi della Bielorussia e dei Paesi centroasiatici, in particolare il Kazakistan e l’Uzbekistan).

La prospettiva da cui Ismailov ci offre un’istantanea della spietata arena in cui si confrontano e si moltiplicano le dinamiche liberticide passate e presenti è quella di chi ne ha vissuto personalmente le conseguenze deteriori. Nato nel 1954 in Kirghizistan e cresciuto in Uzbekistan, Ismailov è infatti emigrato nel Regno Unito nel 1992 con status di perseguitato politico, in seguito alle minacce e agli attacchi personali subiti dall’allora governo Karimov – il primo dell’Uzbekistan post-indipendenza.

La sua è stata quindi una migrazione forzata, lo sradicamento dalla periferia di un impero e lo spostamento nel centro di un altro. Le responsabilità indirette di questa ri-territorializzazione obbligata si possono rintracciare proprio in quel fagocitamento della periferia con cui il centro, lo ribadiamo, ne ha soggiogato gli enti politici, asservito le istituzioni e frantumato il tessuto sociale, così occludendo le possibilità di democratizzazione e spianando la strada ai totalitarismi.

Stabilitosi a Londra, Ismailov ha lavorato per venticinque anni come giornalista e speaker radiofonico per la BBC, dando nel mentre alla luce una prolifica e variegata produzione letteraria. Essendo emigrato dall’Uzbekistan al Regno Unito, il suo percorso è diverso da quello degli autori trapiantati dalla periferia al centro dello stesso impero. In particolare, il suo tragitto allargato ha comportato un ampliamento del ventaglio di possibilità espressive. Alla scelta tra la lingua della periferia – l’uzbeko – e la lingua del centro – il russo – si è aggiunta per lui un’ulteriore opzione: la lingua di un altro centro, ovvero l’inglese.

La questione della lingua è centrale nel dibattito postcoloniale: a chi, come Rushdie (1991), incoraggia l’uso dell’idioma coloniale al fine di ottenere più risonanza nel mercato librario internazionale e chi, come Chinua Achebe (1965), enfatizza il potenziale di ri-significazione insito nell’appropriazione della lingua dell’oppressore, si contrappone chi, come Ngũgĩ wa Thiong’o (1981), ritiene che l’abrogazione della lingua coloniale in favore della lingua locale lanci un messaggio politico più radicale. La posizione di un autore come Ismailov in questa diatriba è funambolica: anziché fare una scelta unica e recisa tra i codici di cui ha padronanza, egli opta per un plurilinguismo che gli permette di spaziare con elasticità tra i mondi dischiusi dalle rispettive lingue. Più nel dettaglio, si può osservare quella che sembra una tendenza a preferire l’inglese per la saggistica (oltre che per la produzione giornalistica), il russo per la poesia, l’uzbeko e il russo per la narrativa.

Malgrado i riconoscimenti professionali conseguiti nei decenni successivi all’esilio, che ne fanno oggi un autore noto (relativamente a quanto consente la sua provenienza “marginale” volutamente non dissimulata, bensì rinforzata dalla succitata elezione dell’uzbeko a lingua di molti suoi scritti, inclusi i più recenti), la pubblicazione di Ismailov è tuttora vietata nel suo Paese d’origine. La tara biografica dell’essere un autore bandito in patria confluisce in una denuncia della censura e della repressione politica che attraversa gran parte dei suoi testi.

Tuttavia, in essi c’è molto di più che mero livore contro il regime autocratico responsabile del suo esilio. Il raggio della sua critica è molto più ampio: esso si allunga a investire l’edificio a molti piani della violenza, una violenza che non è particolare ma sistemica.

Nondimeno, si tratta di una critica tutt’altro che scomposta: sottile, quasi centellinata, essa è affidata a una prosa calibrata e raffinatissima – che probabilmente in Mbobo raggiunge il culmine della sua eleganza – in grado di evocare suggestioni, accendere affezioni verso i personaggi rappresentati e attivare interrogazioni e riflessioni, con delicatezza, senza avvalersi di manifesti programmatici.

Per provare a tracciare un profilo di questo romanzo complesso e frastagliato, che si snoda secondo traiettorie impervie, spaziando tra molteplici, coltissimi riferimenti letterari e sfilando con destrezza le cerniere tra generi e registri, cominciamo col dire che prende il titolo dal nome del suo protagonista: Mbobo, per l’appunto.

Questi è un bambino di dodici anni, che trascorre la sua breve vita nella rutilante Mosca della perestrojka, la cui caoticità innervata di disagio, povertà e alcolismo presagisce l’imminente crollo del castello di sabbia sovietico.

Il punto di osservazione è la metropolitana: da Dzeržinskaja a Barrikadnaja, da Taganskaja ad Avtozavodskaja, da Paveleckaja a Novokuzneckaja, da Oktjabr’skaja a Kievskaja, ogni stazione della labirintica metro di Mosca dà il titolo a un paragrafo del libro. Mentre esplora la pachidermica capitale pericolante sul baratro a partire dal sottobosco oscuro della sua vitalità diurna, Mbobo rievoca il proprio passato, seguendo il rimbalzare dei ricordi senza attenersi alla linearità cronologica.

Il personaggio di Mbobo è una felicissima creazione letteraria che abbraccia un’infelicità moltiplicata. Egli è vittima allo stato puro, oggetto di una violenza multi-livello: razzializzato, povero, senza padre, poi anche senza madre, vessato e picchiato dagli adulti. Infine, a completamento estremo del quadro, morto.

Per restituire una raffigurazione vagamente rappresentativa della sua complessità, queste etichette richiedono di essere approfondite, precisate, messe in relazione tra loro.

Mbobo è nero in un Paese di bianchi. Egli è infatti nato da una relazione extraconiugale tra un atleta guineano (che il bambino non ha mai conosciuto), giunto a Mosca per le Olimpiadi del 1980, e una limitčica di origine khakassiana (un’etnia turco-altaica della Siberia meridionale) trasferitasi nella capitale per lavoro e presto disoccupata. Nel contesto sovietico, per limitčik, o, al femminile, limitčica, si intendeva una persona trasferita nelle grandi città da altre regioni dell’URSS nell’ambito del cosiddetto sistema dei contingenti lavorativi (limity). I limičiki erano assunti per soddisfare esigenze industriali o edilizie, ma avevano status residenziale limitato e spesso alloggi provvisori o dormitori.

La mamma di Mbobo è dunque una giovane immigrata. Non ha i soldi per mantenere se stessa e suo figlio, spesso si prostituisce, è alcolizzata e maltratta Mbobo. Ha partner abusanti che a loro volta insultano e picchiano il bambino. Il suo nome è Mosca, come la città che incuba e nutre Mbobo, ma che al tempo stesso lo espelle, lo respinge e lo maltratta. Nel romanzo, Mosca-mamma viene chiamata anche Mara, Marusja. Così come il suo nome, anche quello di Mbobo è sparpagliato in una pluralità di versioni. Tra questi, oltre al neutro Kirill e al derisorio Negro, si annovera il più sibillino Puškin, affibbiatogli da uno dei suoi padrini: un’allusione alle origini africane del bisnonno materno del celebre poeta.

Questa polinomia, non un anatema bensì un preludio dell’anonimia a cui la morte consegna, sembra voler al contempo ammonire che le persone non sono racchiudibili in nomi, che le identità sono numerose e cangianti, che la realtà sfugge alle definizioni e, soprattutto, che la moltitudine e il nulla non sono categorie separate, ma stadi limitrofi.

La condizione di reietto, di emarginato, è per Mbobo il fardello di un’eredità genetica e familiare che si colloca e lo colloca in basso, sotto (sotterraneo, sotto-privilegiato, subalterno, subente), in modi incrociati: figlio illegittimo di una migrante interna di etnia minoritaria e di un africano, Mbobo è di fatto un dodicenne nero, bastardo e povero. Ecco che a questi marcatori di una già estrema vulnerabilità anagrafica, etnica e di classe si aggiunge un ulteriore stigma, l’elemento discriminante per eccellenza: il suo essere, al tempo della narrazione, morto. Questo attributo, oltre che escluderlo dall’appartenenza al consorzio dei vivi, lo imprigiona in una eterna sospensione nell’età dell’impotenza, l’infanzia.

Mbobo è quindi una creatura del sottosuolo – come lasciano intuire già dal titolo la traduzione italiana e quella inglese del romanzo – in una pluralità di sensi: un corpo sepolto sotto terra, abbandonato al fondo dell’ascensore sociale, così in basso da vedersi negata ogni validazione esistenziale. Un accorpamento senza corpo, un’unione paradossale di vuoti, infra, di senza, di meno.

Eppure questo accorpamento scorporato di segni meno ha una voce, una voce che, marginalizzata e messa a tacere in vita da una violenza che si propaga in verticale, declama in morte un poema dell’infra e dell’oltre, un’elegia dell’infimità e dell’alterità, un cantico delle sub-creature abitanti ciò che è occultato alla superficie.

Un poema, per l’appunto, giacché ogni pagina del romanzo è innervata di poesia: persino i passaggi in cui Mbobo riferisce che il suo corpo è divorato dai vermi e ricoperto dalle mosche vantano un’eleganza stilistica che li rende struggenti. La tavolozza cromatica delle immagini mortuarie abbonda di sfumature. Ogni paragrafo trasuda un’esplosiva potenza immaginifica che abbaglia il crocevia tra diversi immaginari: i paesaggi urbani riportano alla narcotica atmosfera delle città tardo-sovietiche affamate e avvelenate dall’alcol di contrabbando, mentre gli slanci lirici e i frammenti in versi confermano una poeticità già annunciata dal summenzionato soprannome del protagonista. Inoltre, i rimandi alla tradizione mitologico-religiosa uralo-Altaica e delle steppe dell’Asia Centrale – in particolare le leggende sulle divinità degli inferi e gli spiriti ancestrali – si mescolano alle suggestioni onirico-allucinate dall’oltretomba, dando al testo l’incanto ipnotico di una formula magica.

Quest’afflato poetico lega a doppio filo Mbobo a Mosca-Petuški: Poema Ferroviario di Venedikt Erofeev, anche conosciuto in italiano come Mosca sulla vodka, titolo con cui è apparso nel 1977 in traduzione di Pietro Zveteremich.

Mosca-Petuški è un poema, appunto, benché in prosa. Pubblicato per la prima volta nel 1970 in samizdat (cioè in copie stampate o ciclostilate in autonomia e diffuse senza mediatori editoriali, uno stratagemma per aggirare la censura), esso si colloca a cavallo tra narrazione auto-biografica, diario di viaggio – il viaggio, appunto, sulla linea ferroviaria che collega Mosca e Petuški – e cronaca del delirio. La prima persona che riporta fatti e pensieri è quella dell’autore che, allucinato da cospicue e continue assunzioni alcoliche, volteggia tra fatti, riflessioni, divagazioni, battute, dialoghi beckettiani, persino istruzioni dettagliate su come prepararsi un drink con acqua di colonia e acetone.

Mentre viaggia, Erofeev parla con la gente. Scende dal treno e si ubriaca tra una fermata e l’altra. Nel frattempo scrive, e nella scrittura dà libero sfogo al peregrinare dei suoi pensieri, lasciando scoppiare qua e là scintille incandescenti di ironia e falò di demenzialità disarmante. Il testo di Erofeev è infatti trafitto da un umorismo scabro e assurdo, nella tradizione dello stёb. Questo termine designa una forma tipicamente russa di sarcasmo parossistico e carnevalesco, di cui si possono rilevare le impronte in tutta la cultura russa e russofona, nella letteratura come nella musica, nel teatro come nel cinema, ma anche nelle rappresentazioni popolari, nella cultura informale e nella tradizione orale, secondo una traiettoria che fende, in sezione diacronica, diastratica e diamesica, tanto il romanzo ottocentesco che l’underground musicale sovietico, tanto il gergo da strada dei gopniki (tamarri) che il registro dell’intelligencija, tanto i cartoni animati che i film d’autore.

La scansione del racconto secondo i nomi delle fermate è la più evidente citazione di Erofeev fatta da Ismailov: la paragrafazione del poema ferroviario riecheggia nel romanzo dello scrittore uzbeko, con la variante che le stazioni in superficie del primo diventano, nel secondo, sotterranee.

Un altro anello di congiunzione tra i due romanzi è il sottotesto di accesa critica sociale, una critica che muove da una prospettiva interna, coincidente con il fondo della scala sociale. Questo fondo si configura nel caso di Mbobo come uno scantinato, giacché  ai fattori di emarginazione si aggiunge per lui l’essere un bambino, per giunta morto.

Con Mosca-Petuški, Erofeev è assurto a icona di culto di un fenomeno culturale estremamente vitale nel mondo sovietico: la denuncia indiretta del marciume sistemico per mezzo dell’esposizione del marciume privato. Così, l’alcolismo senza briglie da una parte è additato come sintomo del disagio sociale, dall’altra è ostentato come vessillo di anti-conformismo. Lo stato di perenne ubriachezza è a un tempo manifestazione delle falle sistemiche ed espressione di una resistenza individuale che, col dilagare pandemico dell’alcolismo, si fa collettiva, arma kamikaze con cui sabotare l’irreggimentazione operata dalle istituzioni controllanti e repressive.

Il motivo dell’ubriachezza è, così come quello del viaggio, ripreso da Ismailov in una forma che, pur mutuando Erofeev, lo distorce, lo capovolge, lo rovescia dall’alto verso il basso. Se, infatti, nel poema ferroviario è la voce narrante a essere alcolizzata, nel Figlio del sottosuolo gli alcolizzati, con i loro discorsi sconclusionati, le menti stordite, la violenza ottusa, sono gli adulti intorno: la voce narrante è quella di chi deve soggiacere (ovvero sub-giacere: altra inferiorità, altro segno meno) alle loro angherie alcol-indotte.

In particolare, nel Figlio del Sottosuolo, il motivo dell’alcol si lega a una citazione esplicita – e pungente – di Erofeev: durante un incontro del circolo letterario frequentato dal personaggio dello scrittore alcolizzato Gleb (uno dei patrigni di Mbobo), appaiono diversi esponenti dell’avanguardia letteraria tardo-sovietica, tutti sbronzi. Tra questi, si distingue un certo Erofeev – ma, attenzione, non “quello Erofeev”, benché, come sottolinea Mbobo, Erofeev non possa essere “non Erofeev” (Ismailov 2025, 99). Lo “Erofeev artificiale” inizia a leggere da una propria opera:  “La vagina di Dora Iosifovna aveva il potere della parola…” (Ivi, 100) e continua a lungo, in tono così monotono che Mbobo si addormenta, salvo accorgersi, al suo risveglio, che al posto del finto Erofeev c’è un altro uomo, il che lo porta a pensare “che non ci fosse nessuno Erofeev, il che significa che l’avevo solo sognato” (Ivi, 101). Questo gioco sulla sembianza-presenza-assenza di Erofeev sembra quasi suggerire che la sua persona aleggi dovunque: se l’individuo Erofeev non è da nessuna parte, allora forse significa che il suo spirito è dappertutto, il che è come dire che in tutti i personaggi della storia c’è un qualcosa di riconducibile al geniale scrittore alcolizzato, abbrutito, schiacciato dalla società.

Tra i poeti adunati all’incontro, sono menzionati fuggevolmente Ivan Ždanov e Aleksandr Erëmenko (chiamato Erema nel libro). Questi due poeti, nati rispettivamente nel 1948 e nel 1950, furono tra i protagonisti del movimento poetico del Metametaforismo – espressione eminente del citazionismo postmoderno – negli anni Ottanta. Il secondo legge in pubblico una sua poesia, Nella densa foresta metallurgica (V gustykh metallurgičeskikh lesakh). Si tratta di un’opera composta nella metà degli anni ‘70 e pubblicata in samizdat solo negli anni ‘90. Mbobo ne conosce il testo a memoria, ma prima di quel momento era convinto che il suo autore fosse Zabolockij, di cui aveva imparato appena prima Architettura dell’autunno. Nikolaj Zabolockij fu un poeta futurista vissuto dal 1903 al 1958 e considerato l’ultimo modernista russo. La poesia a cui Mbobo fa riferimento è Osen’ del 1932, il cui testo condivide con quello di Nella densa foresta metallurgica l’evocazione di uno spettrale, quasi torvo paesaggio autunnale.

Si noti, infatti, la prossimità delle atmosfere tratteggiate all’inizio dei due componimenti. Questo l’incipit di Osen’:

Quando il giorno è passato e la luce svanisce,
e la Natura non sceglie più da sé,
le vaste stanze di boschi autunnali
si slanciano nell’aria come case d’aria.
Lì falchi abitano e corvi la notte trascorrono,
e le nuvole, fantasma, si spostano in giro. [1]

Quella che segue è invece la prima strofa di V gustykh metallurgičeskikh lesakh:

Nelle fitte foreste metallurgiche
dove si compiva il processo di creazione della clorofilla
si è staccata una foglia. Già è arrivato l’autunno
nelle fitte foreste metallurgiche.
Lì fino alla primavera restarono impigliati nei cieli
un’autocisterna e una mosca drosofila. [2]

I versi successivi della poesia di Erëmenko, tutti riportati nel romanzo di Ismailov, ricorrono ad accostamenti di parole in grado di materializzare immagini spiazzanti per descrivere un gufo spezzato, segato, appuntato a un ramo con una graffetta, la testa pendente e un binocolo da campo inserito con forza terribile dentro di lui.

Ricorre dunque un immaginario legato alla violenza. Nel caso della poesia di Erëmenko, essa è indirizzata contro una natura impotente (come la Natura di Zabolockij che “non sceglie più da sé”), vulnerabile, vittima di un arbitrio umano perverso e incomprensibile: a quale scopo infilzare un gufo con una graffetta e trafiggerlo con un binocolo? Il gufo della poesia se lo domanda con lo stesso stupore con cui Mbobo si domanda perché i suoi padrini lo picchiano, perché sua madre si ubriaca, lo insulta, lo malmena. Perché tutta questa violenza?

La risposta non c’è, e la domanda attonita del gufo resta appesa a un ramo autunnale, come quella del bambino resta sospesa in un’eterna infanzia spezzata.

Il motivo dell’infanzia violata e pertanto sospesa in un eterno presente, condannata a non evolvere in una forma nuova e adulta, è evidentemente caro a Ismailov, che nel 2011 ha costruito intorno a questo tema un altro romanzo, Vunderkind Erdžan, uscito in italiano nel 2021, sempre per Utopia e sempre in traduzione di Nadia Cignognini, con il titolo La fiaba nucleare dell’uomo bambino. Il protagonista di quest’opera è il prodigioso Eržan, un bambino nato e cresciuto nella stazioncina di transito di Kara-Šagan, località sperduta nella steppa kazaka, nonché principale poligono sovietico per i lanci prova dei missili anti-balistici.

Eržan resta intrappolato nel suo corpo di undicenne dopo aver fatto un bagno in un lago (evidentemente il grande lago Balkaš) stregato, o forse contaminato dalle radiazioni dovute agli esperimenti nucleari condotti dai sovietici. Come ci avverte l’autore nell’introduzione al romanzo (Ismailov 2021, p. 5), infatti,

Tra il 1949 e il 1989 nel poligono nucleare di Semipalatinsk furono innescate complessivamente quattrocentosessantotto esplosioni nucleari di cui centoventicinque nell’atmosfera e trecentoquarantatre sottoterra. La potenza esplosiva globale degli ordigni nucleari brillati al poligono nucleare di Semipalatinsk (in una regione abitata) è stata superiore di duemilacinquecento volte a quella della bomba lanciata dagli americani su Hiroshima nel 1945.

Gli impuniti esperimenti sovietici condannano Eržan a una vita troncata, mutilata: oltre a non poter mai crescere, né pertanto coronare il suo sogno d’amore con la bella coetanea Ajsulu, il ragazzino perde uno dopo l’altro i suoi affetti, la sua famiglia, il suo mondo. Vede i suoi familiari cadere come birilli, la sua casa di un tempo svanire in una steppa che diventa sempre più desertica.

La violenza sistemica, dunque, innesca una spirale di ulteriore violenza – la rabbia cieca di Eržan esplode spingendolo a uccidere, folle di gelosia, lo zio Kepek – e imprime nella carne un trauma che è un preludio di morte: il congelamento in uno stadio, l’impossibilità di crescere, la paralisi. Mbobo ed Eržan sono entrambi adulti-bambini: avrebbero rispettivamente ventinove e ventisette anni, se l’uno non fosse morto e l’altro non fosse congelato nell’infanzia. 

La violenza si esercita contro persone, animali, luoghi. Splendide, nella Fiaba nucleare dell’uomo bambino, sono le righe dedicate alla natura kazaka, che appare ostile e infeconda, ma, per chi ci vive, la conosce e la sa osservare con attenzione, si rivela “varia e ricca, […] mutevole e cangiante, […], instabile e fluida, […] ricca e multiforme” (ivi, p. 42). Gli abitanti della steppa ne conoscono e rispettano la vita: Eržan, suo nonno e il musicista di origine bulgara Petko cacciano una volpe, ricorrendo ad arzigogolate tattiche di accerchiamento, ma, una volta catturata, la lasciano libera (ivi, p.38). Il rispetto e la considerazione per la vita animale sono tali da portare Eržan a domandarsi se la maledizione che l’ha colpito non sia da considerarsi un castigo per l’aver lasciato morire il volpacchiotto figlio di quella volpe cacciata e poi risparmiata, la quale ogni notte “si spingeva fino alla soglia della loro casa a reclamare indietro il suo cucciolo” (ivi, p.40).

Questa natura è come Eržan, come Mbobo, come il gufo nella poesia di Erëmenko: violata, spezzata, colpita da una violenza che ha molte braccia, molte armi e nessun cuore. Il sistema schiaccia sia gli individui che le comunità. Molto più degli esseri viventi contano gli obiettivi politici e militari – ma anche commerciali: la vicenda di Erdžan si snoda in un percorso disseminato di allusioni alla tragica vicenda del lago Aral, disseccato come conseguenza del cieco anelito al profitto che spinse i sovietici a deviarne il corso.

Anche nel Figlio del sottosuolo vengono denunciate la fame di profitto e la negligenza verso i viventi: Mosca, la madre di Mbobo, muore per l’effetto combinato dell’abuso di alcol e delle radiazioni di Černobyl. È una vittima alla seconda: non solo abbandonata all’intossicazione etilica dalla disperazione – una disperazione alimentata da condizioni materiali degradate – ma anche esposta all’intossicazione radioattiva per fatalità – una fatalità generata da trascuratezza e colpevolmente occultata per convenienza.

A capo di questo dolore, un’Unione Sovietica strutturalmente violenta, omicida ed eco-cida, un centro incurante dei margini.

L’operazione di cui si fa carico Ismailov è dare voce a questi margini, portarli al centro, centrare su di loro la narrazione, rendendo audibili le voci che li abitano.

Questa operazione ha già inizio con Železnaja doroga, romanzo del 1997 (tradotto in inglese nel 2006 col titolo The Railway) ambientato nella fittizia cittadina di Gilas, sulla via della Seta, dieci anni dopo la conquista russa del Turkestan (comprese le aree che fanno attualmente parte dell’Uzbekistan). Nel romanzo viene dato risalto alle vicende esperite dalle vittime della conquista: mediante una narrazione della Storia attraverso la lente delle loro storie e dunque una restituzione del loro punto di vista, i personaggi centroasiatici vengono a occupare uno spazio che nei classici russi non è stato mai loro concesso e acquisiscono una dignità letteraria da sempre loro negata (Wang 2023, 160-165).

Il riflettore che le narrazioni postcoloniali spostano dal centro ai margini si presta a essere puntato sempre più in là, a illuminare quanti stanno oltre la cortina dell’invisibilità, i quali acquistano così una forma e una voce.

Seguendo questo progressivo estendersi delle aree illuminate, Il figlio del Sottosuolo integra e approfondisce la narrazione di Erofeev con elementi di ulteriore svantaggio etnico e anagrafico.

A sua volta, il romanzo prefigura e innesca il delinearsi di nuove narrazioni di marginalità, le storie di nuovi personaggi e dei loro vissuti di esclusione.

Può essere considerata come una di queste prefigurazioni la storia di Bobo, protagonista dell’omonimo romanzo dell’autrice israeliana Linor Goralik.

Questo romanzo, scritto nei primi mesi della guerra in Ucraina e uscito alla fine del 2022, a detta dell’autrice nasce dal tentativo di esplorare a un tempo la tragica condizione della Russia attuale e lo strano, inspiegabile amore verso di essa. Questa esplorazione viene condotta seguendo il giovane elefante Bobo lungo un viaggio che lo porta dalla Turchia alla Russia, passando per il Mar Nero: donato dal “sultano” turco allo “zar” russo (una chiara allegoria di Erdoğan e Putin), Bobo deve essere infatti consegnato a quest’ultimo presso il bunker di Orenburg, al confine col Kazakistan, con l’aspettativa di servire come elefante da guerra o almeno come simbolo patriottico.

Si può ravvisare – anche già dal nome – una vicinanza, benché non dichiarata da Goralik, tra il personaggio di Bobo e quello di Mbobo: entrambi giovanissimi, entrambi in viaggio in un territorio scandito da una precisa toponomastica (la metro di Mosca, le città della Russia) durante un’epoca crudele (il tramonto dell’URSS, l’alba della guerra in Ucraina), entrambi maltrattati e strumentalizzati per via della loro condizione di alterità e di vulnerabilità (bambino nero, animale esotico).

Che sia consapevole o meno il riferimento al romanzo di Ismailov, quello che ci mostra l’esempio dell’opera di Goralik è che la letteratura ha il potere di scavare nel sottosuolo, dimostrando che a esso non c’è fine, che nella scala del riconoscimento sociale c’è sempre un più in basso a cui si può scendere e che un qualche marcatore identitario sarà oggetto di stigma. Per quanto la si sposti sempre un po’ più in là, la transenna dell’inclusione lascerà sempre qualcuno al di là di essa. È quel qualcuno che la letteratura ha il potere di osservare e mostrare, di esporre con forza allo sguardo del mondo.

In questo senso Il figlio del sottosuolo, lungi dal mostrarci il limite ultimo della bassezza, rivela ulteriori botole sul fondo, aprendo a una riflessione sulla matrioska della violenza, nella quale c’è sempre uno strato ulteriore, un livello ancora più sottostante, e dunque spingendoci a interrogarci sulle categorie in base alle quali accreditiamo e, per converso, neghiamo, valore  e dignità all’esistente.

Note:

[1] Когда минует день и освещение / Природа выбирает не сама, / Осенних рощ большие помещения / Стоят на воздухе, как чистые дома. / В них ястребы живут, вороны в них ночуют, / И облака вверху, как призраки, кочуют. (Traduzione mia)

[2] В густых металлургических лесах, / где шел процесс созданья хлорофилла, / сорвался лист. Уж осень наступила / в густых металлургических лесах. / Там до весны завязли в небесах / и бензовоз, и мушка дрозофила. (Traduzione mia)

Bibliografia:

Achebe, C., English and the African Writer, «Transition», vol. 18, 1965

Ashcroft, B., Griffiths, G., Tiffin, H., The Empire Writes Back: Theory and Practice in Post-Colonial Literatures, Routledge, Londra 1989

Brontë, C., Jane Eyre, Smith, Elder & Co., Londra 1847

Coetzee, J. M., Foe, Penguin, Londra 1987 (1986)

Defoe, D., Robinson Crusoe, Penguin, Londra 2025 (1719)

Erofeev, V., Mosca-Petuškì: poema ferroviario, trad. Paolo Nori, Quodlibet, Macerata 2014 (1973)

Erëmenko, A., V gustykh metallurgičeskikh lesakh. «Deti Ra», vol. 11 (73), 2010

Goralik, L., Bobo, Individuum, Mosca 2022

Ismailov, H., Il figlio del Sottosuolo (Mbobo), trad. Nadia Cigognini, Utopia, Milano 2025 (2009)

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Stefania Persano è insegnante di lingue e traduttrice. I suoi interessi spaziano dalla narrativa all’epistemologia della didattica, dalla musica alla poesia e all’intreccio tra queste ultime. È membro del Collettivo Trickster.

Parole chiave: narrativa post-sovietica; post-colonialismo; Asia Centrale