Demitologia dell’esperienza psichedelica

 

di Matteo Colombani

All’ombra del cosiddetto “Rinascimento psichedelico” non prende forza solo la volontà di spezzare l’incantesimo tra sostanze psicotrope e pratiche antinormative; parallelamente, sembra rafforzarsi anche la convinzione secondo cui il valore trasformativo dell’esperienza psichedelica risiederebbe nella struttura molecolare delle sostanze stesse. Il testo che segue prova invece a ridare centralità all’orizzonte culturale che ogni pratica trasformativa sottende; un orizzonte il cui decentramento, ancora prima che una possibilità emancipatoria, parrebbe dischiudere una prospettiva materiata di verità insieme confessionali e scientifiche.

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Una prima versione dell’articolo è stata pubblicata in “Altrove”, n. 23, 2022, pp. 148-163.

I

La normalizzazione del fenomeno psichedelico a cui stiamo assistendo, motivo per cui è sempre più frequente incontrare valutazioni positive circa l’utilizzo delle sostanze psicotrope da parte dell’industria medica e culturale, sospinge l’orizzonte di senso dell’esperienza psichedelica verso nuovi paesaggi, riconfigurando l’ordine delle sue funzioni e le qualità del suo immaginario. Ciò che si prospetta è la riparazione delle crepe di senso nelle pareti dell’edifico sociale che l’esperienza psichedelica ha saputo nel tempo estendere e provocare. Mi riferisco al contrabbando di quelle visioni sul mondo dove l’irregolarità, l’erranza, la dispersione, in generale le note improduttive dell’umano sono storicamente approdate; visioni pertanto irriducibili alle norme sociali richieste. Non si tratta qui di stabilire se il fine ultimo della psichedelia sia quello di spandere le crepe di senso in direzione delle visioni contrabbandate, ma di soffermarsi sulle ragioni per cui non sembra essere più il suo fine attuale. Qualcuno potrebbe obiettare che in realtà non lo è mai stato, che la psichedelia, in quanto pharmakon, non esiste senza il suo doppio, senza essere al tempo stesso grimaldello e chiavistello dei rapporti di potere. Anche chi scrive è convinto sia così, ma è altrettanto consapevole di come la psichedelia, nell’accezione più estesa possibile, fino al dominio semantico di sostanza stupefacente, abbia incalzato dagli anni Settanta in poi certe esperienze e non altre, certi immaginari e non altri; che abbia, in definitiva, determinato gli effetti stessi dell’esperienza psichedelica in relazione alla visione sul mondo da cui era accompagnata. “Una volta la gente prendeva l’LSD e lasciava il lavoro, mica lo microdosava per essere più efficiente”, chiosa Cleopatra Mancini ragionando sui rapporti tra “mindfulness” ed “empowerment” oggi valorizzati come forme di messa a valore del sé (Santoni: 2021, p. 176).

L’uso esplorativo delle sostanze psichedeliche, per quanto riguarda la parte occidentale del mondo e secondo un punto di vista essoterico (ovvero le sole coordinate geografiche e teoriche che riguardano l’analisi di questo testo), non può certo vantare tradizioni consolidate. Sia Ugo Leonzio che Elémire Zolla, ai quali si deve la stesura, rispettivamente nel 1969 e nel 1998, della storia delle droghe, registrano l’assenza di una prassi psichedelica nel continente europeo almeno fino all’Ottocento (Leonzio: 1997, p. 14; Zolla: 1998, p. LXXXIII). Antichità e medioevo conoscono indubbiamente alcune esperienze importanti, dai misteri eleusini ai segreti del sabba. Ma ciò che ha sagomato l’orizzonte di senso dell’esperienza psichedelia così come oggi la conosciamo non può essere carpito dalle tracce remotissime di universi culturali oggi inesistenti; così come non possiamo confondere il valore euristico dei trattati psichedelici pubblicati nel corso del Novecento con l’utilizzo ricreativo delle sostanze psicotrope riscontrato a più livelli nella società contemporanea. Molto più interessante, a mio avviso, sarebbe catturare l’orizzonte di senso dell’esperienza psichedelica a partire dalla messa in relazione dei vissuti di chi, nell’ultimo mezzo secolo, ha continuato a fare esperienza degli psichedelici nonostante la loro messa al bando, ridefinendo le loro caratteristiche in contrapposizione allo stigma culturale che hanno subito, presente anche nei periodi in cui le sostanze non erano formalmente vietate; il vissuto di chi, quindi, ha impugnato il processo storico dell’esperienza psichedelica rendendola possibile, realizzandola [1].

Senza scomodare gli ideali politici legati alla grande contestazione giovanile, affrontare un’esperienza psichedelica in questo lasso di tempo significava anche e soprattutto sfidare le regole che hanno governato la sua esclusione, ovvero l’insieme dei presupposti culturali che hanno ostacolato l’appropriazione degli psichedelici tanto sul piano del diritto quanto sul piano del desiderio. Può anche essere che questo approccio, questo piacere alla sfida non abbia rappresentato lo slancio di tutti, che ci sia stato qualcuno che non abbia dovuto mettere in discussione niente per assumere uno psichedelico; che non abbia dovuto chiedersi da chi procurarselo, dove consumarlo, cosa ne avrebbe fatto di un’esperienza potenzialmente trasformativa; che abbia potuto fare a meno di domandarsi se lo stile di vita degli psiconauti fosse un esempio cui ispirarsi o una stravaganza da nascondere al resto delle relazioni sociali; qualcuno che, insomma, abbia vissuto un’esperienza psichedelica scorporata dal suo contesto storico. Entro il suo contesto storico, invece, difficilmente si potrebbe contestare l’idea secondo la quale l’immaginario prevalente della psichedelia, il suo orizzonte di senso, il nucleo da cui ogni sfumatura si dipana, da cui ogni eccezione è possibile, sia stato caratterizzato dal piacere di sfidare le regole della realtà, insieme intima e politica. Di qui la tesi seguente: il valore dell’esperienza psichedelica non è determinato dalla struttura molecolare delle sostanze psicoattive ma dall’orizzonte di senso entro il quale è collocata, configurando significati diversi e contrapposti a seconda della sensibilità culturale in seno alla quale si verifica.

II

Uno degli aspetti che sembra accomunare le varianti dell’attuale fermento psichedelico corrisponde invece alla tesi opposta: il valore dell’esperienza psichedelica non riguarderebbe l’orizzonte di operabilità mondana entro la quale si realizza, ma la struttura molecolare della sostanza stessa. Che si tratti di utilizzare gli psichedelici per scopi mistici o terapeutici, stando alla tesi sopra descritta, gli effetti dell’esperienza psichedelica non sarebbero determinati dal lavoro svolto sulle proprietà alteranti delle molecole, ma sarebbero le molecole stesse a contenere al loro interno ora la cura per un disturbo psicofisico, ora la verità sulla forma del divino. Tutto, insomma, si riduce a una questione di dosaggio (o di set e setting per i più professionali).

Cura e visione, entro il quadro teorico del neopsichedelismo, vengono astratti dai processi culturali dei quali sono espressione per essere individuati solo in relazione a loro stessi: mi curo in virtù della cura così come vedo in virtù della visione. I regimi epistemici di riferimento, rispettivamente la nosologia e la mitologia, diventano aspetti irrilevanti al fine dell’esperienza. Viene dunque meno l’importanza di stabilire cosa sia la cura per curarsi e cosa sia la visione per vedere. Un’assenza epistemica che sembra essere ripristinata da una forma conoscitiva parente dell’atto di fede: so che funziona perché ci credo. In questo senso, la celebrazione del composto chimico della sostanza, quasi una feticizzazione della sua struttura molecolare, si rovescia nel suo contrario, nel culto di una realtà priva di relazioni con la materia, nell’idolatria dell’irrelato. Qualcosa di simile era successo nei circoli esoterici durante la Rivoluzione francese, nei quali l’ateismo assunse la forma di un culto da celebrare ritualmente, come nel caso degli Hommes Sans Dieu, i cui membri si ritiravano nei templi per adorare un telo bianco con sopra scritto: “De toutes les erreurs, la plus grande est un dieu” (Jesi: 2001, p. 97).

Walter Benjamin, interrogando la realtà per mezzo della tecnica cinematografica, nello specifico dell’esempio che seguirà, per mezzo del rapporto tra l’operatore cinematografico e il pittore tradizionalmente inteso, contrappone la figura del mago a quella del chirurgo. Mentre il mago, nella cura del malato,

conserva la distanza naturale tra sé e il paziente; in termini più precisi: la riduce – grazie all’apposizione delle sue mani – soltanto di poco e l’accresce – mediante la sua autorità – di molto. Il chirurgo procede alla rovescia: riduce la sua distanza dal paziente di molto – penetrando nel suo interno –, e l’accresce di poco – mediante la cautela con cui la mano si muove tra gli organi. In una parola: a differenza del mago (che ancora si nasconde anche nel medico comune), nel momento decisivo, il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto, penetra nel suo interno operativamente (Benjamin: 2012, pp. 39-40).

L’operato del mago e del chirurgo corrispondono così, rispettivamente, all’ordinamento tecnico del pittore e dell’operatore. Il primo, al pari del mago, osserva la realtà nella sua distanza naturale restituendo di essa un’immagine integrale, dal valore auratico (il quadro); il secondo, al pari del chirurgo, penetra nella realtà con la cinepresa restituendo di essa un’immagine “multiformemente frammentata”, ricomposta secondo nuove sequenze narrative (il film).

Accostandoci alla metafora, si potrebbe osservare lo psiconauta socialmente integrato dei nostri giorni mentre si appresta alla realtà con la tecnica operativa del chirurgo, penetrando la materia fino a giocare con le sue molecole; una realtà che però egli restituisce, di contro al processo creativo della cinematografia, nella sua immagine integrale, ora ottenuta mediante il resoconto dell’esperienza psichedelica, convenzionalmente modellato sulla formula seguente: “la connessione col tutto” [2]. Il sezionamento della realtà al fine di individuarne i principi non simbolici (le molecole), si rovescia nell’immagine di una realtà simbolicamente assolutizzata (“il tutto”), ripristinando la distanza naturale dalle cose che Benjamin descrive in seno all’ordinamento tecnico del mago.

III

L’ordinamento tecnico del mago descritto in L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, il saggio da cui è tratta la metafora prima descritta, indovina una filiazione tra magia e religione la cui origine, scrive Benjamin, risiede nell’“intenzione di dominare la natura”, di inscriverla entro determinati rapporti di autorità e proprietà. Il suo campo di pertinenza, ossia la realtà in cui il sacerdote (mago o religioso) sviluppa e insieme esaurisce il suo potere, consiste nel rituale. Al polo opposto troviamo invece l’ordinamento tecnico rappresentato dall’operatore cinematografico, il quale “mira piuttosto a un gioco combinatorio tra natura e umanità” e la cui origine va “ricercata là dove l’uomo per la prima volta e con inconsapevole astuzia si accinge a prendere le distanze dalla natura”. Il suo campo di pertinenza, a differenza del rituale, consiste nel gioco (Benjamin: 2012, pp. 22-26).

Nei corsi di antropologia, il rituale viene spesso spiegato nei termini di un gioco truccato, una partita che continua a risultare incerta nonostante l’esito sia già stato prestabilito da una regia invisibile, la cultura stessa. Tra l’inizio e la fine del gioco vi sono però delle fasi delicate (liminali) che a seconda del controllo esercitato sulla prassi rituale potrebbero anche sfuggire di mano, seppure nelle società tradizionali, dotate di un’istituzione deputata al governo delle credenze individuali, questo rischio è ridotto al minimo [3]. È il caso dei rituali di possessione dei fon del Dahomey e degli yoruba del Niger di cui parla Georges Lapassade. Nonostante le danze, i travestimenti e le droghe previsti nelle loro cerimonie, il potere culturale esercitato su di esse vanifica ogni alterità connaturata allo sconfinamento dai regimi di coscienza ordinari: la soggettività del posseduto è una cosa sola con la soggettività del potere (Lapassade: 2020, pp. 71-73). Un rapporto che sarà invece rovesciato a seguito della diaspora africana, per cui le stesse prassi rituali subiranno degli slittamenti di senso in relazione ai nuovi conflitti culturali, come nel caso del vodu in Haiti e del candomblé in Brasile. All’interno di queste architetture rituali, le divinità deputate alla possessione, allontanate dalle loro radici africane quanto dal loro controllo istituzionale, diventano espressione di un’alterità irriducibile allo stato ordinario del potere coloniale, riconfigurando in chiave politica gli stati modificati di coscienza vissuti dal posseduto (ivi, pp. 103-104).

Sull’incidenza dell’assetto culturale nella determinazione degli stati modificati di coscienza interviene anche Claude Lévi-Strauss. Contestando l’idea avanzata da Robert Gordon Wasson (il micologo che firmerà, insieme ad Albert Hofmann e Carl A.P. Ruck, la ricerca sulla presenza di agenti psicotropi nel ciceone eleusino insieme) secondo la quale dietro all’origine del fenomeno religioso inteso nella sua totalità potrebbe esserci l’influsso psicotropo dell’Amanita muscaria, Lévi-Strauss ribadisce, in accordo coi presupposti teorici dell’antropologia, che “non esistono fenomeni naturali allo stato bruto: essi esistono per l’uomo soltanto sotto forma concettuale, e per così dire filtrati da norme logiche e affettive appartenenti alla cultura”. Motivo per cui sarebbe tanto ingenuo quanto depistante sostenere che l’effetto di uno psichedelico possa essere stato decifrato allo stesso modo da culture così differenti nel tempo e nello spazio. A differenza delle società secolarizzate, prive di una ritualità mitopoietica,

nelle società che […] istituzionalizzano gli allucinogeni ci possiamo aspettare che queste droghe generino non già un tipo ben determinato di delirio connesso alla loro natura fisicochimica, bensì quel tipo previsto dal gruppo per ragioni consce o inconsce, e che differisce in ciascun gruppo. Gli allucinogeni non celano alcun messaggio naturale, la cui stessa nozione appare contradditoria. Essi sono solo gli innescatori e gli amplificatori di un discorso latente che ogni cultura tiene in riserva e di cui le droghe permettono o facilitano l’elaborazione (Lévi-Strauss: 1978, p. 270).

Una valutazione che trova riscontro anche nelle parole di Vittorio Lanternari, il quale evidenzia l’“ordine rigorosamente e univocamente rituale” in cui le società tradizionali collocano l’uso delle sostanze psicotrope; non solo il loro valore culturale generalmente inteso, ma anche “[gli] effetti corrispondenti al loro impiego appartengono alla sfera delle rappresentazioni collettive secondo un ordine di pensiero mitico e simbolico”. Ciò che si prova, ciò che si vede, ciò di cui si fa esperienza tramite gli psichedelici, scrive Lanternari, non può essere scorporato dai “presupposti mitologici e fantasmatici che circondano ogni operazione di raccolta, di uso e di celebrazione della pianta stessa” (Lanternari: 2006, p. 163). Un insieme di informazioni, tecniche, figurazioni, storie e miti che socializzano l’esperienza psichedelica entro quello specifico gruppo di umani in modo irriproducibile al di fuori di esso.

IV

“Essi videro le feste dei diversi, non videro ciò che i diversi vedevano. Li videro vedere, non videro l’oggetto della visione, o almeno non lo videro con gli occhi dei veggenti ma solo con gli occhi dei voyeurs”. Furio Jesi vuole qui dichiarare l’impossibilità di conoscere l’alterità culturale (il mondo dei “non occidentalizzati”) mediante il dispositivo rituale della festa, ovvero là dove i diversi, nel loro momento di massima visibilità collettiva, diventano conoscibili dall’etnologo nell’istante in cui egli si riconosce altro da loro (Jesi: 2001, pp. 94-95). Il giudizio circa la non conoscibilità dei diversi non è rivolto in modo esclusivo allo sguardo viziato dell’etnologo, alla sua modalità conoscitiva così prossima all’imperialismo culturale da cui derivano i suoi strumenti disciplinari, specchio del positivismo scientifico. Jesi dispiega la stessa impossibilità del conoscere anche qualora si provasse ad abbandonare le vestigia della scienza per inoltrarsi con fare genuino nel regno della mitologia. È il caso dell’incontro di Carlos Castaneda con don Juan, il depositario dei saperi esoterici che inizia lo scrittore peruviano ai segreti dello sciamanismo. Scrive Jesi nell’introduzione a L’isola del Tonal, del quale è traduttore:

Nel mondo degli stregoni cui Castaneda cerca di avere accesso, la mitologia sembra essersi impoverita o comunque rarefatta fino a comporsi in frammenti spettrali, oggetti di esperienze visionarie in cui ciò che conta è innanzitutto il “vedere”, non l’oggetto della visione. Perfino le farfalle notturne, che acquistano una netta evidenza mitologica […], sono però sottoposte a un processo di analisi concettuale e, in ultima istanza, di svalorizzazione: esse non sono il “sapere”, ma soltanto gli animali che recano il “sapere” – come polvere d’oro scuro sulle loro ali –, i “messaggeri” o i “custodi” dell’eternità, non l’eternità stessa (Jesi: 1994, p. 12).

Nonostante la predisposizione perfettamente combaciante tra l’apprendista e l’istruttore, il salto epistemologico tra mondo scientifico e mondo mitologico che vorrebbero realizzare rimane trattenuto dalla separazione fra l’immagine mitologica (epifania) e la funzione o il contenuto di essa (decodificazione). Si stratta della stessa “separazione antimitologica” individuata nello sguardo strumentale dell’etnologo; una separazione “legata al prevalere di una volontà di spiegare anziché di accettare la mitologia”, tipica dell’indagine scientifica maturata in occidente. Ma ciò che si verifica nel rapporto tra Castaneda e don Juan non riguarda solo la non conoscibilità del diverso, è la mitologia stessa del diverso che subisce uno slittamento di significato nel momento in cui viene esposta allo sguardo indagatore del civilizzato. Isolati da ogni collettività, compiaciuti della propria asocialità, i rapporti tra l’apprendista Castaneda e l’istruttore don Juan disegnano una “colleganza gnostica” più che una collegialità esoterica: “sono dei ‘guerrieri’ (warriors) poiché si sono imposti una determinata disciplina, e, in quanto guerrieri ‘senza macchia’ (impeccable), hanno accresciuto il loto ‘potere’ (power) personale fino a conquistare il ‘sapere’ (knowledge) o ad essere gratificati” (ivi, p. 7). Una variazione mitologica dietro la quale si nasconde l’assoggettamento culturale dei diversi, la circostanza storica per cui “l’ampliamento di coscienza consentito, un tempo, da quelle esperienze mitologiche [è stato ora] recuperato parzialmente da individui singoli, in condizione di asocialità, per il tramite o almeno parallelamente al sorgere di miti di potere individuale” (ivi, p. 13). Parole che alla luce della monadizzazione sciamanica dei nostri giorni, trip sitting incluso, assumono un valore profetico.

Castaneda e don Juan, alle condizioni appena descritte, riescono comunque nel loro intento: là dove il primo viene introdotto alle discipline esoteriche, il secondo crea le condizioni affinché il sapere di cui è depositario, se pure rarefatto, potrà continuare a essere trasmesso. A suggellare l’apprendistato subentra un ulteriore punto d’incontro: la risata. L’istruttore ride per mitigare le difficoltà dell’apprendistato; ride degli inganni provocati dalla ragione dell’apprendista nel corso del processo iniziatico; ride di Castaneda contagiandolo nella risata; ma ride anche per lui, a proprio vantaggio, per neutralizzare la terribilità di certi fenomeni mitologici, ingannandoli. La risata è così l’inganno per mezzo del quale l’istruttore disarma l’interezza epifanica diversamente accecante e per mezzo del quale, in quanto funzione iniziatica, il neofita completa il suo apprendistato, diventando a sua volta maestro di inganno, prestigiatore mitologico.

V

La figura del prestigiatore ci permette di ripensare in chiave mondana anche la funzione della magia. Non più sacerdote deputato al dominio della natura, il mago, nelle sue abilità illusionistiche e prestigiatorie, è colui che sa incantare senza tenere sotto scacco – il suo potere si esaurisce con il trucco; colui che sa giocare con la meraviglia senza ipotecarla di atti di fede – il suo potere presuppone un trucco. Il mago è l’artefice di una meraviglia relativa, sempre in sospetto di mascheramento, sempre in procinto di nuove configurazioni; una meraviglia che nasconde un trucco gravido di risate, soggetto allo svelamento per essere nuovamente velato in vista di un gioco ulteriormente meraviglioso. Inedite e meravigliose sono le strategie illusionistiche che, tra Sette e Ottocento, vengono messe in atto da veggenti, sibille e sonnambule al fine di riscattarsi dal ruolo di accessorio al corpo maschile cui erano relegate. Léonide Pigeaire, leggendo con gli occhi coperti da una benda speciale, ridimensiona la tracotanza dell’istituzione medica parigina rintuzzando il desiderio di confinare nell’oscurantismo qualsiasi rapporto stupefacente con la realtà. Mariano Tomatis, l’illusionista che rende omaggio alla sua memoria, getta luce sul valore simbolico di una sbirciata sotto la benda, sull’incanto indovinato dall’estetica del trucco:

Poiché diffido da chi predica la chiusura in sé fino a un completo distacco dal mondo, tifo per chi si copre gli occhi alla ricerca della giusta distanza dalle cose materiali, senza mai tagliare del tutto il filo che lo àncora alla realtà. Non c’è una natura ultima da scoprire nell’isolamento, al contrario: siamo fatti della fibra mutevole di cui è fatto il mondo; per accorgercene, dobbiamo favorire ogni contaminazione tra ciò che abbiamo dentro e quello che ci circonda. È a cavallo di quell’equilibrio meticcio (attraverso un interstizio di luce) che Léonide produsse esperienze perturbanti, prodigi in grado di alimentare un dibattito ancora in corso. Scienza o inganno? Burla o magia? La benda sugli occhi rendeva stupefacente la lettura, ma la sbirciata era il trucco che la rendeva possibile; a causa dei limiti della visione umana, l’esperienza magica richiede entrambi gli ingredienti (Tomatis: 2022, pp. 127-128).

Magica è anche la qualità visionaria generata dal diorama, la cabina di legno dentro la quale, mediante sagome illustrate e giochi di luce, prende vita una piccola rappresentazione teatrale, per lo più caratterizzata da intrighi amorosi. L’incanto è dovuto all’animazione dei personaggi e della scenografia per mezzo di corde che vengono azionate all’esterno della cabina, all’oscuro da chi sta guardando al suo interno tramite un apposito foro. L’effetto è quello di trovarsi affacciati sull’orlo di un altro mondo, tanto onirico quanto reale. Jean-Ernest Aubert, in una tavola del 1886, dipinge Cupido mentre aziona le corde del diorama. Nonostante si tratti di un dio, scrive Tomatis, il Cupido di Aubert “muove corde e leve come farebbe un meccanico. Nessuna sorpresa per chi fa l’illusionista: dietro ogni incanto teatrale c’è del lavoro sporco, una manovra prosaica, un sapere di basso livello i cui effetti si ripercuotono sul piano immateriale” (ivi, p. 128).

Così osservata, la qualità visionaria della prestigiazione stabilisce una parentela con la qualità visionaria dell’utopia. A differenza della visione mistica, intesa come epifania mitologica, disvelamento dell’immagine divina, l’utopia non riflette l’assoluto ma schiude una visuale sul regno del possibile; non si sgancia dalla realtà ma la smaschera sotto forma di una parodia. Scrive Jesi: “l’esperienza visionaria dell’utopia è direttamente usata per conoscere la realtà storica. […] Guardata con le lenti con cui si osserva l’utopia, la realtà storica mostra di essere un’utopia in negativo, cioè l’immagine di una parodia”, forma in cavo della libertà (Jesi: 1972, pp. 117-119). L’utopia non è mai una semplice programmazione in vista del futuro, una visione a cui affidare le sorti della storia; essa è prima di tutto una cartografia della libertà da scaraventare sul presente, una violazione dei suoi rapporti di potere. Una visione che, al pari di contro-fatture, magie nere e incantesimi di liberazione, rompe il confine tra visibile e invisibile moltiplicando i piani della realtà, le sue forme, i suoi conflitti, i suoi registri, i suoi generi (Tomatis: 2022, pp. 240-243).

VI

Un’ulteriore parentela con la qualità visionaria della magia potrebbe essere individuata nella nozione di “illuminazione profana” che Benjamin tratteggia in seno alla sua esperienza con l’hashish. Si tratta di “una ispirazione, materialistica, antropologica” in virtù della quale risulta possibile “penetrare il mistero solo nella misura in cui lo ritroviamo nella vita quotidiana, grazie a un’ottica dialettica che riconosce il quotidiano come penetrabile, l’impenetrabile come quotidiano” (Benjamin: 2012, p. 322, 331). Uno svelamento dell’occultamento quotidiano rispetto al quale, però, le sostanze psicotrope rivestono un ruolo di ordine propedeutico, non epifanico:

la più appassionata indagine sull’ebbrezza da hashish non insegnerà, intorno al pensiero (che è un narcotico per eccellenza), nemmeno la metà di quello che l’illuminazione profana del pensiero insegna sull’ebbrezza da hashish. Il lettore, il pensatore, colui che attende, il flâneur sono tipi di illuminati non meno del mangiatore di oppio, del sognatore, dell’inebriato. E sono forme più profane (ivi, p. 331).

Attualmente, o così sembra essere nella prospettiva di chi ha la pretesa di rappresentare – orientandolo – il fenomeno della psichedelia, l’uso delle sostanze psicotrope, più che gettare luce sui rapporti quotidiani da cui siamo governati, disegna delle astrazioni inutilizzabili negli attriti che viviamo con essi, se non nei termini di pacificatori, induttori di integrazione sociale. La visione da stupefacenti, scriveva Ugo Leonzio, se non viene situata nei conflitti del corpo, diventa solo “il dilatarsi del gusto dell’epoca” (Leonzio: 1997, p. 14). Non si capisce perché, ad esempio, l’attivazione di stati modificati di coscienza per mezzo di sostanze psicotrope dovrebbe essere svincolata dal nostro conflitto con la tecnica, essendo il loro rappresentante moderno (l’LSD) il risultato di un’operazione chimica di sintesi realizzata in laboratori tutt’altro che bucolici. Così come “noi” (gli occidentalizzati) proviamo a conoscere i segreti della botanica prendendo spunto dalle mitologie di chi ha saputo fare tesoro delle sue meraviglie, qualcuno di “loro” (i non occidentalizzati) potrebbe essere interessato a indagare il dominio della tecnica rivolgendosi a chi ha saputo contrabbandare al suo interno degli appuntamenti segreti, incompatibili con la sua funzione di potere. Se prendessimo alla lettera alcuni resoconti psichedelici, non sapremmo foggiare altra immagine che quella carpita dalle “loro” cosmovisioni; o, in alternativa, una visione della tecnica talmente divinizzata da insospettire anche lo spirito più religioso. Maggiore è il disinteresse circa l’impatto della tecnica sugli effetti provocati nell’esperienza psichedelica (è sempre più raro trovare delle figurazioni psichedeliche in questo senso, a dispetto delle distopie lisergiche prodotte dalle generazioni precedenti) e minore diventa la nostra capacità di prendere le distanze dalla sua pervasività (è sempre più frequente l’appello al positivismo della scienza, a dispetto del sapere critico e conflittuale).

Demitologizzare l’esperienza psichedelica significa sottrarla di mano a chi vorrebbe istituzionalizzare i suoi effetti; significa, pertanto, rivendicare l’eterogeneità delle sue figurazioni affinché rimanga una fonte inesauribile di meraviglie. Meraviglie relative, non assolute; plurali, intermittenti, dissonanti, situate. Ciò che viene rivelato (il dêlos all’origine di psiche-delia) non è che un abbaglio se astratto dal principio che governa il suo occultamento, se reciso dal rapporto con esso:

E toccò un accordo, tutto di tasti neri, fa diesis, la diesis, do diesis, aggiunse un mi e smascherò l’accordo ch’era sembrato di fa diesis maggiore, rivelandone invece la natura di si maggiore, e precisamente il suo quinto grado ossia la dominante. – Un accordo così, – disse – preso a sé, non ha nessuna tonalità. Il rapporto è tutto, il rapporto completa il circolo (Mann: 1968, p. 87).

Contro l’ennesima esperienza da mettere a valore nelle proprie prestazioni sociali, siano esse di tipo lavorativo o confessionale, potremmo pensare la psichedelia al pari di un gioco privo di strumentalità. Un gioco il cui principio non risiede nella conquista dell’autorità o del prestigio, ma nell’alternanza degli svelamenti e degli occultamenti che governano la nostra individuazione, molto più simile al sali e scendi dell’altalena che si trova nei parchi giochi per bambini che all’alternanza delle ascensioni celesti e delle discese ctonie che si trova nei resoconti etnografici. Un gioco, quindi, dal principio meccanico, quasi scontato, eppure in grado di lasciarci sempre senza fiato – per lo più divertiti, a volte imbronciati per le cadute.

Note

[1] Rispetto all’indicazione suggerita – la cattura dell’orizzonte di senso dell’esperienza psichedelica tramite la messa in relazione dei vissuti di chi, dagli anni Settanta a oggi, l’ha praticata e realizzata –, non può che sopraggiungere uno scoglio metodologico. Non è infatti possibile raccogliere e comparare i vissuti di ognuno, tanto meno risulterebbe desiderabile compendiarli in tabelle statistiche. La cattura dell’orizzonte di senso della psichedelia, così declinata, non può che rimanere ancorata al piano dell’oralità, alla sua consistenza corale e continuamente rinegoziabile; una cattura inscindibile dal piano discorsivo che ognuno di noi ha modo di verificare e modificare nel confronto continuo tra psiconauti i quali, a loro volta, non riflettono solo la propria esperienza ma quella vissuta nel confronto con altrettanti psiconauti, testimoni di altrettanti vissuti recenti e passati.

[2] La formula in questione, carica di valenze polisemiche, subisce spesso e volentieri una riduzione autoreferente, come se bastasse citarla per esaurire il suo significato. Eppure “il tutto”, privato di un sistema simbolico di riferimento, equivale a “il nulla”. Il ché sarebbe – e spesso è – un’equazione filosoficamente vertiginosa, dalla trattazione consolidata sia nella tradizione orientale che occidentale. Ma affinché possa essere decodificata come tale ed eventualmente differenziata andrebbe collocata entro un quadro teorico di riferimento, viceversa rischia di essere – e spesso è – un’astrazione autoassolvente, opposta alla funzione comunicativa della parola, pura strumentalità. In questa direzione, a mio avviso, si muovono alcuni contributi de La scommessa psichedelica (di Vita: 2020), esemplificati dall’articolo di Chiara Baldini, dove formule tipo “la connessione di ciascuno col Tutto” vengono accompagnate da figurazioni altrettanto problematiche, quali “natura” e “comunità”, come se non ci trovassimo entro un presente storico in cui tali espressioni, se non decostruite, non rischiererebbero di rappresentare immaginari antinomici ai desideri dei corpi irregolari, allo loro irriducibilità al Tutto, ai loro conflitti materiati di storia, non di assoluto.

[3] Secondo la tripartizione di Arnold van Gennep, il rituale sarebbe così strutturato: una fase preliminare, in cui l’individuo viene gradualmente allontanato dagli ordinamenti sociali; una fase liminale, in cui l’individuo è privato di qualunque ordinamento sociale; una fase postliminale, in cui l’individuo viene nuovamente integrato all’ordinamento stabilito, quello di partenza o, a seconda dello scopo rituale, uno nuovo (di ruolo, di classe, di prestigio, di genere, ecc.). Il carattere anomico della fase liminale verrà ripreso e tematizzato come specifica forma di vita da Victor Turner. Questi, valorizzando gli aspetti di contrasto alla struttura sociale istituzionalmente intesa, avvicina il tema della liminalità alla qualità informale dei rapporti sociali che si verifica nei sodalizi tra individui tipici delle eresie religiose e dei movimenti di liberazione (Turner: 2001, pp. 111-129).

Bibliografia

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Matteo Colombani è laureato in filosofia. Le sue ricerche spaziano dall’antropologia culturale alla teoria critica. È parte del collettivo Trickster e autore di alcune monografie, tra cui “Eccedenza e individuazione” (Sensibili alle foglie, 2024).

Parole chiave: Rinascimento psichedelico, illuminazione profana, Furio Jesi, Walter Benjamin