Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo 2025

di Matteo Colombani
Scarica il pdf: Recensione E tutti danzarono
“Esistono ebbrezze diverse da quelle che pensiamo di conoscere”. Così Ivan, il protagonista del romanzo, commenta lo stato narcotico in cui sprofonda giusto il tempo di essere improvvisamente sopraffatto da una gettata d’acqua ricevuta sul volto. È solo un attimo, un battito di ciglia, eppure sufficiente a confondere il sonno con la veglia, il sogno con la realtà. Ma il ritorno repentino allo stato di veglia non cambia lo stato delle cose intorno a lui: una folla di giovani, stremata dalle ore di danza senza sosta, continua a ballare con l’inerzia tipica dell’ossesso, di chi ha perso il controllo sulla propria coscienza e si agita nello spazio come fosse governato da una forza insieme esogena e impersonale. Balla senza potersi fermare.
Sono trascorsi due giorni da quando migliaia di giovani, accorsi per un evento musicale promosso dalle istituzioni locali, hanno iniziato a prendere d’assalto il centro di Milano con i loro corpi danzanti, diventati ormai ingovernabili anche dal punto di vista dell’ordine pubblico. A nulla è servito il passo indietro del sindaco, l’annullamento ufficiale dell’evento e lo spiegamento dei celerini pronti a sgomberare il raduno. Anche l’interruzione della musica non sembra sortire alcun effetto:
Tutte le casse audio installate dal comune nei giorni precedenti erano spente, appese come animali morti ai pali della luce. […] L’unico suono che si sentiva era quello dei cittadini affacciati alle finestre che gridavano parole di scoramento perse nel calore pomeridiano e nell’indifferenza della gioventù ammaliata. Ogni privilegio sociale si annulla nella cieca potenza della massa danzante e non vi era disperazione che potesse essere ascoltata (p. 94).
Che quella danza avesse un rapporto ambivalente con la musica, Ivan lo aveva già intuito. Avventuratosi tra la folla dalle prime ore dell’evento, rimase subito impressionato: ogni metro quadrato di superficie calpestabile è invaso da “un ragazzo che balla ma non sente più nemmeno la musica, balla e basta, come fosse solo, l’unica persona rimasta al mondo, balla senza mai fermarsi”. Anche in seguito, ragionando sulle cause del fenomeno, sembra ormai convinto che la musica non c’entri niente: “i ragazzi ballano anche senza ascoltarla. E i movimenti dei corpi sono compulsivi, scomposti e frenetici come la danza di Ian Curtis, il disgraziato cantante dei Joy Division che con le sue movenze sul palco esorcizzava l’attacco epilettico, malattia di cui soffriva”. Quella in corso per le strade di Milano non era una semplice danza, piuttosto una epidemia coreutica; forse un caso di isteria collettiva o, ancora più propriamente, di contagio psichico.
L’incontro con l’amico Alessio, docente di antropologia e specializzato in movimenti eretici medievali, rafforza l’ipotesi sulla natura sociale della danza. Vengono così ricordati i numerosi fenomeni coreutici che hanno coinvolto i corpi degli oppressi nel passato, dalle maratone di ballo per sfinimento diffuse tra i proletari durante la Grande depressione, fino al retaggio dei riti dionisiaci negli isterismi o coreomanie di fine medioevo. La Piaga del Ballo di Strasburgo sembra essere l’unico caso dove il contagio coreutico coinvolse quasi l’intera città, perdurando per tutta l’estate del 1518:
il borgomastro, consigliato dai medici della città, pensò bene di assecondare il fenomeno. Chiamò a raccolta tutte le corporazioni artigianali e fece allestire da ognuna di esse, fossero falegnami, pellai, fabbri o tintori non importa, dei palchi di legno dove ospitare dei musicanti che dessero accompagnamento ritmico ai ballerini, nella speranza che le note ripetute provocassero una estasi terapeutica che alleviasse la mania. Ma se questa pratica funziona ed è molto usata su casi isolati in determinati contesti culturali – come la Taranta in Puglia o il ballo dell’Argia in Sardegna – a Strasburgo la musica peggiorò notevolmente la situazione, inducendo altri cittadini a partecipare alla danza. Ti rendi conto, Ivan, il borgomastro pagò dei musicisti, che ebbero lo stesso effetto degli altoparlanti che abbiamo visto in tutti i parchi oggi a Milano (p. 74).
E spenta la musica, oggi come allora, entra in scena la forza. A Strasburgo, chi non desistette dalla danza venne rastrellato dagli armigeri, deportato in collina e sottoposto a un esorcismo sotto il patrocinio di san Vito. Il mistero che la causò, fu lo stesso che pose fine alla danza. Ma le teorie circa la natura psicotropica della coreomania, secondo cui la causa scatenante andrebbe ricercata nella presenza di ergotamina nei mulini dell’epoca, non convincono né Ivan né Alessio. Ritengono più interessante ragionare intorno al dominio esercitato sui corpi degli oppressi, sulle tensioni sociali del Sacro Romano Impero: “È molto probabile che la disperazione e la paura, che ripetute ed estremizzate diventano una vera e propria trepidazione sociale, abbiano scatenato nelle persone più fragili di Strasburgo uno stato di trance collettiva”. E se a Strasburgo la frizione tra subalterni e dominanti poteva ancora essere piegata a favore dei secondi grazie alle armi della religione, la coreomania che stava travolgendo Milano risulta sprovvista di qualsivoglia simbolismo risolutivo, quasi una figurazione letteraria di ciò che l’antropologo Ernesto de Martino aveva indovinato nella nozione di “apocalisse senza eschaton”. Una fine senza catarsi:
nelle piazze e nei parchi di Milano, in questo istante, si sta sfogando una giovane umanità priva di sguardo sul futuro, percossa, impaurita e vilipesa che afflitta da una sorta di stato alterato di coscienza collettivo, risponde come farebbe un essere umano vittima di un attacco di panico prolungato. Soffrendo di un male sconosciuto, si agita come se il movimento ininterrotto potesse alleviare la pena e infine sfinito crolla al suolo perché è l’unica cosa che gli resta da fare (p. 79).
Fuori dalla narrazione di Bertante, il rapporto tra corpo in trance e trepidazione sociale conosce una trattazione consolidata. Georges Lapassade non avrebbe probabilmente parlato di “persone fragili”, ma di corpi sensibili al terrore dello stato, di organi che resistono alla castigazione dei corpi. Nell’ultimo capitolo del saggio Dallo sciamano al raver (Apogeo, 1997), la trance viene messa in relazione con “l’apparizione filogenetica di una giovinezza permanente, di una plasticità nuova nell’organismo, di una disarticolazione delle membra del corpo in statu nascendi”. In questi termini, la trance evocherebbe “uno stato di passaggio” tra “un’animalità che va disfacendosi” e “un’umanità che ancora non si è istituita” senza il quale ogni principio trasformativo rischierebbe il tracollo. Di conseguenza, l’isterismo collettivo andrebbe interpretato come reazione psicomotoria all’inviolabilità dei regimi normativi, da cui deriverebbe la patologizzazione del desiderio verso individuazioni diverse da quelle storicamente assegnate. Una condizione che può anche cambiare di segno, depatologizzarsi e configurare dispositivi rituali o forme di ribellione sociale.
In un lavoro precedente, Il mito dell’adulto (Guaraldi, 1971), Lapassade aveva così interpretato alcuni episodi di vandalismo collettivo, come “la rivolta senza ragione” scoppiata a Stoccolma nel 1956. La notte di capodanno, cinquemila giovani invasero l’arteria principale della città e per diverse ore “tennero la strada” costruendo barricate, infrangendo vetrine e rovesciando auto. In disaccordo con la retorica fatalistica sulla “crisi giovanile” propugnata da sociologi e giornalisti, Lapassade scava più a fondo:
la loro volontà di distruzione, di fatto, non è né un comportamento ludico, né una pura e semplice esplosione di aggressività esprimente i conflitti della maturazione, né, infine, una rivolta diretta contro l’autorità degli adulti; è, al contrario, la volontà di distruggere l’ordine sociale che non ha trovato altri mezzi per esprimersi. Non un “comportamento magico”, che negherebbe simbolicamente l’ostacolo perché non è stato possibile superarlo con mezzi più razionali; bensì un comportamento di rifiuto assoluto che costituisce l’unico sbocco nel momento in cui qualunque altra comunicazione col mondo è condannata in partenza (p. 221).
Trance e rivolta rimangono intrecciate anche nella fibra narrativa di E tutti danzarono. L’intero racconto è tenuto in tensione da una vertigine riottosa, e sarà proprio la deflagrazione di una bottiglia incendiaria a liberare in Ivan “qualcosa di rimosso”, a “infrangere l’argine della rassegnazione” che lo teneva in ostaggio da anni. A lanciare la molotov contro il cordone di celerini è un gruppo di ragazzi a volto coperto e vestito di nero, un’estetica transculturale “che non ha bisogno di altre spiegazioni se non la memoria condivisa di diverse generazioni di ribelli”. Anarchici, teppisti, black block, chiunque essi siano, sono gli unici gruppi di giovani che nel romanzo di Bertante rimangono immuni al contagio coreutico. Immuni, ma non indifferenti. Anche loro hanno avvertito il richiamo dell’evento: non sono venuti per prendere posto alle danze, ma nemmeno per avversare i ballerini, con i quali sembrano a tratti solidarizzare.
Il mistero circa le cause della coreomania, parzialmente decriptato dalla storiografia, sembra così spostarsi – per restare irrisolto – verso l’ingovernabilità dei ribelli vestiti di nero. Le loro ragioni urtano Ivan come ricordi lontani. La fiamma che la molotov risveglia dentro di lui alimenta solo il suo coraggio di padre, non di ribelle; disposto a rischiare tutto per salvare la figlia, non il mondo, dalla mania della danza. Ciò che lo anima, e che agita tutto il racconto, è infatti la speranza di ritrovare sua figlia Micol, scomparsa tra la folla all’inizio del contagio. Una compressione intimistica del dramma apocalittico contro la quale Ivan pare abbia smesso di lottare, convinto che “l’energia rinnovatrice del mondo” possa essere incarnata solo dai giovani, “quelli che cambiano le cose perché ancora non le conoscono fino in fondo e non possono arrivare ai compromessi derivati dall’abitudine”. Gli unici a potersi chiamare sognatori e ribelli senza cadere nel sospetto.
Una visione dell’adultità al tempo stesso colpevolizzante e autoassolvente, un modo come un altro per uscire di scena e stare nella letteratura. E non è forse un caso, in un momento storico dove l’esperienza psicotropica incoraggia non già il decentramento ma la performatività del sé, che sia proprio un racconto di finzione a ritematizzare la trance al cospetto della trepidazione sociale. Non tanto per la distanza dalla realtà che ogni romanzo prevede, quanto per la distanza dalle attualizzazioni politiche che garantisce. In questa prospettiva, “Molotov e stati di coscienza” sarebbe stato un titolo altrettanto evocativo.
Matteo Colombani è laureato in filosofia. Le sue ricerche spaziano dall’antropologia culturale alla teoria critica. È parte del collettivo Trickster e autore di alcuni saggi, quali “Eccedenza e individuazione” (Sensibili alle foglie, 2024) e “Lo spettro di Dioniso nell’underground” (Mimesis, 2020).