Sogni e labirinti
Recensione di Vittoria Martinetto, Un incontro fantastico. Borges e Nolan, Quodlibet 2025

di Lorenzo Curti
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Accostare cinema e letteratura non è sempre un compito semplice: se il regista riprende l’opera di uno scrittore (o se il regista è scrittore!), il raffronto è immediato e già dato ma molto spesso mettere in tensione l’opera cinematografica con quella letteraria rischia di essere un lavoro intellettuale di virtuosismo comparatistico dal risultato già codificato in partenza. Difficile è, invece, riuscire a mettere in un dialogo costante due autori che non sono coevi, che non hanno potuto incontrarsi e che non solo si occupano di arti diverse ma che sembrano stare in una dimensione poetica quasi antinomica, dove lo scrittore è uno dei maestri assoluti della forma breve del racconto, mentre il regista è soprattutto noto per i suoi film imponenti, sia per budget sia per dimensioni, al limite dell’interstellare. Stiamo parlando, infatti, di Jorge Luis Borges e Christopher Nolan, connessi in un “incontro fantastico” da Vittoria Martinetto, docente di Lingua e Letterature Ispanoamericane dell’Università di Torino e autrice di numerosi saggi sulla letteratura sudamericana, in un libro recentemente uscito per Quodlibet. È attraverso il dipanarsi dei temi fondamentali degli autori (il tempo, il labirinto, il sogno, l’identità) che Borges e Nolan vengono messi in dialogo, intrecciando anche filosofia, psicoanalisi e meccanica quantistica. Con una metodologia che sembra toccare proprio i temi degli autori stessi: Nolan e Borges, infatti, vengono messi sempre a raffronto, ma mai davvero incrociati. Non si produce un’ibridazione dove Nolan e Borges diventano una chimera unica, al contrario essi vengono messi di fronte come in uno specchio (per citare la Bibbia e Bergman, libro e cinema) e a ogni tema vengono dedicate, da una parte, la prospettiva di Borges e, dall’altra, quella di Nolan. L’effetto finale è come una sdoppiamento: in qualche modo i temi degli autori si riflettono e si rispecchiano tra di loro, anche in modo perturbante, di fatto sostenendo ciò che è in ballo — tra le altre cose – in questo testo, ossia la perdita, la confusione o la frammentazione della dimensione dell’identità, seppur mantenendo chiaramente distinte le figure di Nolan e Borges. E infatti sono gli interrogativi e le ipotesi di risposta dei due che iniziano ad assumere un’altra prospettiva, diventando non solo le loro domande, ma anche le nostre. Il lettore, esattamente come nei racconti di Borges e nei film di Nolan non è semplicemente lì come spettatore, ma è invitato a interrogarsi, interpretare, prendere una parte rispetto alla teoria o all’ipotesi in risposta alla domanda “ma che sta succedendo?”.
Vediamo come tempo, sogno, labirinto e identità diventano allora modi e categorie per interpretare gli autori, ma anche per rispondere alle domande che toccano le questioni dei soggetti umani.
Tempi e sogni
‘Cos’è il tempo?’ è una delle domande fondamentali dell’umanità. La filosofia e la fisica hanno sempre tentato di rispondere a questa domanda, con risposte talvolta rassicuranti, per lo più angoscianti. La riflessione di Martinetto parte proprio dalla differenziazione di due tempi, quello dell’aion e quello del chronos (Martinetto: 39), tempo soggettivo e simultaneamente cosmico il primo, tempo oggettivo e quantificabile il secondo. La questione è che, in qualche modo, sia in Borges sia in Nolan, questi tempi vengono fondamentalmente messi in discussione, ribaltati, sovvertiti. Se dovessimo riprendere delle immagini per poter definire il modo in cui questi autori sovvertono ogni logica possibile del tempo sono quelle del noto pittore e incisore Escher, più volte citato da Martinetto. Seppure le sue opere si collochino inevitabilmente dal lato della spazializzazione, i suoi nastri di Moebius e le sue figure spazialmente controintuitive sono una descrizione piuttosto precisa del sovvertimento temporale, decisamente onirico, che possiamo vedere in Borges e Nolan. Difatti, i tempi vengono invertiti, passato e futuro si incontrano nello stesso punto, i tempi si dilatano enormemente oppure vengono ristretti in un punto intensivo. Questo ricorda molto, in effetti, gli strani oggetti topologici le cui superfici, enigmatiche ma fondamentali per una lettura dello spazio, lo sono anche per capire qualcosa del tempo. Lacan, autore citato nel testo, in uno dei suoi ultimissimi Seminari, il XXVI, si dedica proprio al titolo La topologia e il tempo. Con una modifica interessante del titolo di questo seminario, Gioele Cima, in un suo testo su Lacan propone invece questa uguaglianza: “la topologia è il tempo” (Cima, 2020: 399). Che cosa significhi questa strana equazione, apparentemente contradditoria, perché topos in greco è luogo o spazio e non tempo, ci permette di comprenderlo proprio Martinetto nella sua lettura di Borges e Nolan. Infatti, se pensiamo alle figure topologiche abbiamo un modo di pensare al tempo che ci può aiutare profondamente. D’altronde, la logica frattale dell’insieme di Cantor sembra proprio un modo possibile per visualizzare la paradossalità del tempo in Interstellar di Nolan, dove è presente il gigantesco ipercubo Tesseratto che l’astronauta incontra alla fine del film e che gli permetterà di viaggiare nel tempo. In queste rappresentazioni topologiche, possiamo vedere come il tempo, passato, presente e futuro, sia disposto diversamente dal modo lineare in cui siamo abituati a pensarlo: è qui, infatti, “tridimensionale” e visivo.

Il Tesseract di Interstellar (C. Nolan, 2014)
Oppure, in Tenet, abbiamo un’inversione e un gioco continuo con il tempo, che è inevitabilmente esaltato dalla dimensione cinematografica: se, come dice Tacita Dean, “la cinepresa vede il tempo” (Dean, in Martinetto, 2025: 59), quella stessa cinepresa “può fare anche altro, oltre a osservare il tempo e mostrarlo: può manipolarlo a piacere – frammentarlo, accorciarlo, espanderlo, contraffarlo, piegarlo” (Martinetto, 2025: 59). Se vogliamo, questo è proprio quello che avviene con la topologia, dove si ha a che fare con la manipolazione plastica delle superfici, che possono essere tagliate, incollate o subire torsioni. Qualcosa del genere succede nel noto film heist Inception, che non è altro che un gioco sulla dimensione onirica in cui un sogno dentro l’altro sembra proprio portare in una logica frattale. E, in rapporto al livello del sogno in cui ci troviamo lo scorrere del tempo si modifica, cambia. Diversamente, in uno dei racconti citati di Borges da Martinetto, 25 agosto 1983, sempre in un sogno si incontrano due Borges di tempi diversi: il Borges giovane che sta sognando e quello anziano che sta per suicidarsi. Qui, più che la dimensione frattale, abbiamo un utilizzo del nastro di Moebius, i cerchi dell’infinito che cita anche Martinetto riprendendo Escher: i due Borges temporali, in un nastro onirico che li congiunge, si incontrano e possono dialogare.

M. C. Escher, Moebius Strip II, 1963
Martinetto parla, dunque, di “confutazioni del tempo”, ma queste confutazioni si collocano non tanto dal lato di una semplice messa in discussione della dimensione cronologica, quanto di un continuo gioco di illusioni (a volte più vere del vero!) che permettono di confrontarsi con la sostanza inafferrabile e onirica del tempo. “Il tempo, se possiamo intuire questa identità, è un’illusione: l’indistinzione e l’inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi bastano a disintegrarlo” (Borges, in Martinetto, p. 45). In qualche modo, ci confrontiamo con il detto calderoniano citato da Martinetto, che tutt’oggi continua a risuonare, a maggior ragione sui lettini degli analisti, “la vita è sogno”. Il tempo risulta essere ciò che “in Borges, contiene tutti gli altri temi: pensata nel tempo, ogni cosa, persona, evento, ha lo stesso peso, un peso enorme che è insieme nessun peso” (Martinetto, 44). Ed è così al punto che il tempo diventa il Libro infinito che contiene tutti i libri, la Biblioteca di Babele, ma soprattutto gli istanti che contengono tutti gli istanti (Ibidem). Martinetto mette, dunque, in luce la dimensione di mise en abyme del rapporto con il tempo in Borges (così come in Nolan e, in particolare, in Inception). In questo senso il testo per eccellenza è Il giardino dai sentieri che si biforcano, dove il tempo è un labirinto e il labirinto stesso è un oggetto letterario, interno al racconto stesso:
Governatore cinese dedito agli studi e alla riflessione filosofica, a un certo punto della sua vita Ts’ui Pên aveva rinunciato al potere per dedicarsi a due opere apparentemente prive di affinità, ovvero scrivere un romanzo e costruire un labirinto estremamente complesso: alla sua morte si scopre che il romanzo, intitolato Il giardino dai sentieri che si biforcano, è il labirinto, ma non un labirinto spaziale, bensì temporale. Lo scrittore, che non credeva nel tempo assoluto e lineare di Newton, bensì in una sua possibile ramificazione, ha concepito un libro interminabile che è un vero e proprio labirinto letterario, in quanto la trama comprende in maniera paradossale tutti gli sviluppi temporali possibili. (Martinetto: 49)
La paradossalità della scrittura borgesiana è dunque una paradossalità che parte proprio dalla dimensione onirica ed enigmatica del tempo. Il Libro stesso (con la L maiuscola!) diventa, come è stato possibile vedere con la Biblioteca di Babele, il paradigma di questa radicale trasformazione della concezione del tempo che possiamo osservare in Borges. Il Libro diviene il luogo che contiene al suo interno i libri di tutti i tempi, in un gioco labirintico e onirico di citazioni di testi dal passato o da linee temporali alternative che sembra potenzialmente non terminare mai. Allora, in qualche modo, la letteratura e il cinema sono, per Borges e Nolan, non solo un modo per riflettere sul tempo, ma il modo per lavorare direttamente e plasticamente con la materia stessa di questa temporalità, piegandola e modificandola, mostrandone dunque la sua paradossalità fondamentale, su cui così tanto insiste Martinetto, e a ragione, nel suo testo. Libro e cinema che diventano, dunque, le superfici topologiche che possono subire torsioni e trasformazioni per mostrare la natura duttile ed enigmatica della temporalità.
Labirinti e specchi
Non solo la questione del tempo e del sogno è centrale nella lettura che Martinetto fa di questa diade speculare Borges-Nolan, ma lo sono anche il labirinto e la dimensione dell’identità. Se il sogno ci ha condotto dal lato dell’enigma del tempo, il labirinto sembra più avere a che fare con le paradossalità che invece compongono la dimensione spaziale e che, come già avevamo visto con Il giardino dai sentieri che si biforcano, tocca sia lo spazio che il tempo. Il labirinto è, in effetti, uno dei ‘marchi di fabbrica’ di J.L. Borges, una delle immagini che più utilizza e che sembra attraversare instancabilmente la sua intera opera. Se il labirinto ha sempre affascinato l’umano, come vediamo nei petroglifi nordamericani e nella mitologia greca, in Borges sembra prendere il suo statuto esistenziale più radicale. La vita stessa, e il suo destino, sembra manifestarsi sotto il segno del labirinto. Nel noto racconto I due re e i due labirinti, infatti, ci sono due letture possibili e contrapposte, ma non escludentisi, del labirinto: da una parte il labirinto dedalico, quello fatto di percorsi intricati ma da cui, come ci insegna il mito, si può entrare e uscire, dall’altra, invece, il labirinto desertico che sembra condannare a una morte senza via di scampo. Ma, come sottolinea giustamente Martinetto, se in Borges tutto si realizza nella dimensione del Libro, del grande Libro che racchiude al suo interno tutti i libri, è la sua narrazione stessa il labirinto e il modo in cui la spazialità viene rappresentata. Allora, la questione non è tanto la soluzione dell’uscita dal labirinto, quella che si pongono, in modi e tempi diversi, Dedalo e Teseo. Al contrario, il punto è come viverlo questo labirinto:
Il centro è un elemento essenziale e fondante del complesso mitico del labirinto, ne è l’unico vicolo cieco, il luogo senza il quale il disegno perde il suo significato, poiché lì è concentrata l’intima logica della figura. Per questo dalla forma labirintica non è necessario uscire, l’importante è entrarvi, arrivare al suo centro – al nucleo del racconto – a quel vicolo cieco che appartiene per antonomasia alla sfera del mistero e non esaurisce i suoi significati. In sostanza, la struttura labirintica della narrativa di Borges non è un meccanismo caotico in cui ci si perde, ma una geometria da cui non si esce, in cui si rimane a domandarsi delle potenziali altre soluzioni, o finali, perché la legge della perplessità vi regna sovrana. (Martinetto: 101)
Questo, in qualche modo risuona con tante altre riflessioni, come quella di Georges Bataille, per cui la conoscenza stessa e, soprattutto, l’essere umano sono il labirinto, o quanto meno del labirinto hanno la struttura (Bataille, 1993:16-22). Nell’ascolto clinico che, nel mio lavoro di psicologo, ho dedicato ad alcune persone, la metafora del labirinto è apparsa in maniera forte e sempre trasformativa. Nei casi dove è emerso il “labirinto”, in un primo momento spesso sembra connotato da qualcosa che rimanda al disorientamento o all’idea che ci sia un problema di cui va a tutti i costi trovata una soluzione. Nel tempo, però, il labirinto stesso diventa metafora della vita e, allora, invece di essere il dilemma da risolvere, diviene l’enigma del destino da attraversare. Come mi ha detto un paziente, verso la fine del suo percorso di cura “ho capito che il desiderio è il labirinto e io ci voglio stare dentro”. Kerényi allude a qualcosa di simile nei suoi Studi sul labirinto quando afferma: “dobbiamo immaginarci così il labirinto dentro di noi e trasferirci in esso” (Kerényi, 1983:33). In qualche modo, diventa evidente che il labirinto non può essere soltanto, sia in Nolan sia in Borges, un modo per rappresentare la spazialità o la temporalità. Il labirinto diviene soprattutto la rappresentazione del processo di soggettivazione che caratterizza l’enigma della vita di ognuno di noi, dentro al quale siamo presi come in un labirinto. In questo senso, le frammentazioni, i raddoppiamenti e le trasformazioni dell’identità che caratterizzano la poetica di Nolan e Borges hanno a che fare direttamente con l’immagine del labirinto. E, insieme a questo, è lo specchio l’elemento che più di tutti rimanda a qualcosa dell’identità e dell’identificazione. Non siamo, però, semplicemente dal lato di uno specchio che restituisce quell’immagine alienante di cui parla Jacques Lacan nel suo noto Lo stadio dello specchio, dove la Gestalt del corpo del soggetto e il suo Io si costituiscono a partire da un’immagine che arriva non dall’interno ma da altrove, ossia da quello specchio originario che è lo sguardo dell’Altro. Infatti, se rimanessimo su questa concettualizzazione dello specchio, ci attesteremmo su una dimensione solo parziale. Qui, invece, e Martinetto ci permette di coglierlo, siamo dal lato “creativo” delle illusioni dello specchio di Baltrušaitis, ossia di quegli effetti nella percezione visiva che sono chiamati anamorfici. Infatti, sia in Borges che in Nolan troviamo qualcosa della dimensione perturbante del raddoppiamento speculare del sosia, alter ego o doppelgänger, in modo tale che si produca qualcosa di una trasformazione, illusoria o allucinatoria che sia, che crea un punto di rottura nella narrazione. Gli specchi sono “ripetitori della molteplicità” (Martinetto: 134) e non è un caso che Borges stesso scriva in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius che “Gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”. Come sostiene Martinetto, rispetto al cinema di Nolan:
Se gli specchi sono ricorrenti nei film di Nolan, è perché hanno per il tema dell’identità la funzione che avevano gli orologi per il tema del tempo. La superficie argentata di uno specchio ha il potere letterale di raddoppiare, riducendo la tridimensionalità a uno spazio a due dimensioni: perciò è collegato alla ricerca dell’altro sé, il doppio invisibile alla realtà. Lenny in Memento osserva se stesso e i suoi tatuaggi allo specchio per ricordarsi la propria ragione di vita, ma anche perché sperimentando uno iato tra la realtà esterna e ciò che vive dentro la sua testa, si domanda se quando chiude gli occhi il mondo continui a esistere. (Martinetto: 182)
Questo non vale a dire semplicemente che il mondo e l’identità sono delle illusioni e che abbiamo costantemente a che fare con il velo di Maya, come ci ricorda una certa filosofia orientale e soprattutto Schopenhauer. Questa concezione, che non è quella di Borges e Nolan, rinforzerebbe l’idea che esista una verità vera dietro il velo di Maya e che si tratterebbe solo di disfarsi dell’illusione per poter accedere a essa. La questione, invece, sembra più avere a che fare con l’aforisma di Lacan, che Martinetto cita nel testo, per cui “la verità ha struttura di finzione”. L’illusione, la finzione, si insinuano perciò strutturalmente nella realtà e nella verità: non sono dimensioni contrapposte ma inevitabilmente intersecate, come Borges e Nolan mostrano di continuo nella letteratura e nel cinema. Non si tratta quindi di sostenere l’esistenza di un vero che non ha nulla da spartire con il falso: è la verità stessa che non si può che dire (o meglio, come sostiene Lacan, “dire a metà”) tramite l’illusione e la finzione. Non è un caso che la letteratura, prima, e il cinema, poi, siano stati gli strumenti con il quale gli umani si siano confrontati con le proprie verità, altrimenti indicibili o irrappresentabili. Con buona pace di Platone, che vedeva nelle arti, e in particolare nella pittura, solo la copia della copia della verità, cioè l’Idea, per Borges e Nolan è proprio attraverso la trasformazione creatrice della finzione e dell’illusione che si può arrivare a dire qualcosa del vero. Per far questo è necessario non dare una risposta definitiva su questa verità, ma rimandare l’interrogazione costante al lettore e al pubblico su questo vero, come fanno entrambi nelle loro opere — per esempio in Inception, che rimane sospeso sull’interrogativo se si è rimasti ancora nel sogno. Se prima parlavamo di anamorfosi, vale la pena citare uno dei quadri più noti che fa uso di questa tecnica, cioè Gli ambasciatori di Hans Holbein, citato tra gli altri anche da Lacan nel suo Seminario XI a proposito dello sguardo. Nel quadro è possibile vedere in basso una strana immagine oblunga, chiaramente irrealistica: solo a partire da una certa posizione è possibile riconoscervi un teschio. Sebbene questo teschio sia quanto di più illusorio e irrealistico dal punto di vista della rappresentazione artistica, è proprio tramite quest’illusione che si insinua la più grande verità della vita umana: la morte.

H. Holbein il giovane, Gli Ambasciatori, 1533
Un gioco anamorfico analogo è ravvisabile in una scena di Insomnia di Nolan che descrive in questo passaggio Martinetto:
Forse, però, gli sguardi allo specchio drammaturgicamente più significativi sono quelli di Will Dormer in Insomnia, quando torna in hotel dopo aver sparato al collega e dopo l’inseguimento di Walter Finch che lo ha provocato suggerendo una loro sostanziale analogia. In entrambi i casi lo spettatore lo guarda specchiarsi senza vederne il riflesso, come se la sua immagine fosse scomparsa per essere sostituita dalla propria ombra che, se nella realtà prende le sembianze del killer di Nightmute, nella sua mente è rappresentata dal senso di colpa. (Martinetto: 182)
In questa scena è evidente come la verità, cioè quella insopportabile legata alla morte, prenda la via dell’anamorfosi mostrandosi allo specchio in una deformazione dell’immagine. Allora, se per Borges, come in un certo qual modo, in Nolan, c’è quella che Martinetto definisce una “negazione della personalità” (Ivi: 163), è anche vero che è perché questa non è un’identità fissa e immutabile e perché essa è in costante trasformazione e sempre in rapporto a qualcos’altro e dunque si può parlare di qualcosa come
[un’]idea che ha Borges della sostanziale inconsistenza del soggetto: vacuità e, insieme, relazionalità. In pratica, se l’individuo esiste come semplice contrappeso dialettico a una realtà illusoria senza vantare una personalità precisa, allora può manifestarsi in multipli vertiginosi in diverse circostanze, che è quanto accade in racconti dove compaiono figure che rimandano ad altre figure, finendo per delineare un identikit umano tanto vario quanto evanescente. (Ivi: 165)
Non totale assenza dell’identità, perciò, quanto invece gioco labirintico di specchi, dove l’identità, messa in discussione, è sempre in un processo rivolto, come nel nastro di Moebius, “ad altre figure”: per dirla con Freud, non identità, ma costante identificazione, dunque movimento di perenne e incessante trasformazione.
Martinetto, dunque, offre una prospettiva su Borges e Nolan, dove questi non sono semplicemente dei narratori, nei rispettivi campi di scrittura e cinema, ma sono soprattutto autori che offrono uno sguardo metafisico sulla realtà. Uno sguardo che non offre risposte ma interroga costantemente. Non solo: Borges e Nolan, nella lettura che ce ne offre Martinetto, sono anche dei veri e propri demiurghi trickster, nel senso che creano delle vere e proprie realtà di finzione e illusione. Queste, però, a differenza di quelle create dal demiurgo platonico ingannatore, offrono la possibilità di mettere in discussione la verità e la realtà per come la intendiamo, a partire proprio dalle categorie trascendentali kantiane di spazio e tempo. Il labirinto, il sogno e lo specchio, dimensioni della vita umana che vengono messi a fuoco nella lettura di Martinetto, sono allora strumenti privilegiati non tanto per separare la realtà dall’irrealtà, la verità dalla falsità, come faceva Cartesio, preoccupato di capire se sognava o se era desto. Al contrario, sono proprio le lenti adatte per indagare la realtà, la vita umana e la complessità della sua esperienza, e su questo la psicoanalisi e la meccanica quantistica citate da Martinetto sembrano essere decisamente d’accordo. Allora, l’opera demiurgica, e dunque creatrice seppur nell’illusione, di Borges e Nolan, permette a chi la attraversa di avere uno sguardo diverso, di interrogare quelle soglie e quei confini del “giardino dei sentieri che si biforcano” e dei sogni-matrioska di Inception. La finzione, grande tema borgesiano, diviene un modo paradossale di affrontare la verità, sapendo che questa è metamorfica e illusoria, sempre pronta a trasformarsi magicamente e illudere chi pensa di averla acciuffata definitivamente.
Bibliografia:
G. Bataille, Il labirinto, ES, Milano 1993.
G. Cima, Il Seminario Perpetuo, Orthotes, Napoli-Salerno 2020.
K. Kerényi, Nel labirinto, Bollati Boringhieri, Milano 1983.
J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXVI. La topologie et le temps, inedito.
V. Martinetto, Un incontro fantastico. Borges e Nolan, Quodlibet, Macerata 2025.
Lorenzo Curti, psicologo, membro del Collettivo Trickster. I suoi interessi di ricerca sono rivolti all’intreccio della psicoanalisi con più campi del sapere, tra cui la letteratura, i processi artistici, la filosofia e la riflessione sulla tecnica.
Parole chiave: Borges; Nolan; labirinto; identità; illusione