Voci in dialogo sulle orme di Animali si diventa

 

di Stefania Persano

In quest’analisi, il recente libro di Federica Timeto diventa spunto per riflessioni e confronti tra diverse voci che attraversano il fitto panorama dei femminismi, degli antispecismi e di altre contro-narrazioni; soprattutto, diventa una lente attraverso cui scrutare le molteplici relazioni tra diversi ambiti di critica all’oppressione egemonica. Seguendo il tracciato scavato da riflessioni, racconti e pratiche che problematizzano le facili categorizzazioni, si delinea la costruzione di un’epistemologia situata all’insegna dell’empatia.

Scarica il pdf: Voci in dialogo sulle orme di Animali si Diventa

Performance di genere e performance di specie

Sin dal titolo, il saggio di Federica Timeto (2024) – ricercatrice, docente di Animal Studies alla “Ca’ Foscari” e attivista eco-veg-femminista – rende esplicito il suo tributo alla memorabile frase di Simone de Beauvoir, che, nella sua stringatezza, ebbe il merito di epigrafare una riflessione storicamente cruciale per il movimento femminista, talmente cruciale da costituirne un vero e proprio spartiacque. Il motto “donne non si nasce, si diventa” (Beauvoir, 1991) era infatti una condensazione estrema di quel posizionamento nascente che avrebbe visto distaccarsi dall’essenzialismo – prevalente tra i femminismi fino alla prima metà del XX secolo – la prefigurazione delle successive spinte intersezionali.

Animali si diventa si apre con un compendio delle principali correnti del femminismo avvicendatesi nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, delle quali l’autrice tenta di rintracciare le traiettorie e inquadrare gli impianti teorici di riferimento. Successivamente, il focus si sposta sulle diverse declinazioni degli eco-femminismi e in particolare sulle voci delle pensatrici eco-veg-femministe che hanno ispirato il pensiero dell’autrice.

Nei sette capitoli che lo compongono, il libro di Timeto riflette sulla questione dischiusa dal suo azzeccatissimo titolo: è possibile ritenere che la specie, così come il genere, sia un prodotto di inculturazione e pertanto, in quanto tale, passibile di decostruzione? Si può, in virtù di questo processo di decostruzione, giungere a mettere in discussione non solo l’assunto antropocentrico della superiorità umana sulle altre specie, ma anche l’esistenza stessa di una distinzione naturale e categorica tra homo sapiens e tutto il resto del regno animale?

Avvalendosi di argomentazioni teoriche in cui risuona la contrapposizione deleuziana (Deleuze e Guattari, 1996) tra dualismo arboreo e molteplicità rizomatica, Timeto suggerisce che la categorizzazione netta in cui siamo soliti organizzare il mondo sia più lo strumento soggettivo con cui interpretare una realtà mobile e sfuggente che la manifestazione nel pensiero di una realtà oggettiva fissa e immutabile.

In questa visione politica è impossibile non ravvisare il debito che Timeto contrae con Judith Butler, nello specifico con il suo attacco al mito del genere naturale (Butler, 1990). Questo mito si nutre dell’idea del genere come attributo assegnato dalla natura alla nascita, mentre Butler sostiene che la femminilità, così come la mascolinità, non siano altro che performance sociali attivate da precisi condizionamenti culturali.

L’argomento della performatività del genere è stato abbondantemente (in gran parte provocatoriamente) sviluppato da Paul Preciado (2002, 2008) – per il quale difatti Butler è un riferimento intellettuale imprescindibile – scatenando una fortissima risonanza tra le file del movimento LGBTQ+. La performatività del genere per Preciado (che, diversamente da Butler, viene sottoposto ad attento vaglio teorico da Timeto) si manifesta nel suo essere, in quanto performance e non essenza, una dinamica espressiva fluida, danzante su una linea elastica che è a sua volta attraversata da diversi punti di soggettivazione. Il soggetto è dunque mutevole e poroso, ricettivo al mondo esterno. Non essendo un fatto statico ma un processo in divenire, questi non ha un’identità fissa e immutabile, ma si soggettiva in un dato modo in un certo momento. In breve, non è un unicum ma un continuum. 

È evidente il contrasto con la concezione di genere come marcatore – limitato peraltro a una singola alternativa del dualismo maschile-femminile – connaturato all’individuo e perciò incaricato di contribuire a definirne l’identità. Questa visione del genere è rifiutata tout-court dal femminismo intersezionale, che riconosce all’essere molta più complessità di quella esprimibile mediante schemi duali e si propone di accogliere e investigare tale dualità, senza cedere alla seduzione di semplificare.

Ecco che, se – mutuando Butler e Preciado – ciò che si mostra di sé al mondo è una rappresentazione mutevole, cioè una performance in divenire, si sgretolano gli steccati che delimitano le categorie naturalizzate (e non naturali) dell’esistente: maschio-femmina, sano-pazzo, naturale-innaturale, e dunque anche, per estensione, umano-non umano.

Capitalismo delle identità

La critica alla recinzione dei soggetti entro i rigidi steccati delle identità non è esente da ammonimenti contro la cooptazione capitalista delle istanze libertarie: sempre più diffusamente, nel panorama attuale, si osserva l’immediata sussunzione, da parte della retorica neo-liberale, delle rivendicazioni delle identità minoritarie più o meno marginalizzate.

Come osserva Naomi Klein, il branding, inizialmente associato solo a prodotti e aziende, ha gradualmente invaso lo spazio personale: le persone sono incoraggiate a costruire un’identità pubblica coerente con un’immagine vendibile, come se fossero esse stesse un marchio. Il self-branding, secondo Klein, riduce la complessità umana a un’identità stilizzata, coerente e vendibile. L’identità personale, il corpo, le relazioni, diventano strumenti al servizio del capitale. La persona diventa un canale promozionale tanto quanto un cartellone pubblicitario (Klein, 1999). Nella sua acuta analisi, Klein anticipa perfettamente il tipo di narcisismo performativo e di costruzione identitaria che oggi si sviluppa sui social media – e che la politica delle identità, non riuscendo a smantellarla, asseconda.

In questo scenario, le cosiddette dis-identity politics offrono un bastione contro l’appropriazione di ogni controcultura da parte della macchina famelica del profitto. Come osserva con affilata perspicacia Mark Fisher, che di dis-identity politics si è occupato a lungo e da una prospettiva arditamente trans-disciplinare: 

The disarticulation of class from race, gender and sexuality has in fact been central to the success of the neoliberal project – making it seem, grotesquely, as if neoliberalism were in some way a precondition of the gains made in anti-racist, anti-sexist and anti-heterosexist struggles. (…)
… the revolutionary take on race, gender and sexuality struggles goes far beyond the demand that different identities be recognised. Ultimately, it is about the dismantling of identity. (Fisher, 2014: 26-27) [1]

La proposta di sbarazzarsi dell’identità origina dal fatto che essa è vista come una gabbia narrativa del sé, la quale peraltro si presta agevolmente a foraggiare il sistema di estrazione di profitto offrendo al mercato tanti diversi target di consumo quante sono le etichette identitarie: ogni rappresentazione identitaria è associata a determinate abitudini di consumo, ossia a una certa nicchia di mercato. In breve, in un mondo dove le identità proliferano, ecco proliferare le loro astute brandizzazioni. 

L’identità come rappresentazione

Andando più indietro nel tempo, un importantissimo contributo alla riflessione sulla rappresentazione dell’identità – in questo caso etnica e culturale, oltre che di genere – e soprattutto sull’identità come rappresentazione è stato offerto dalla teorica femminista postcoloniale Gayatri Chakravorty Spivak. La sua indagine sui modi, spesso impliciti e strutturali, in cui le visioni etnocentriche e patriarcali condizionano il discorso culturale, ostacolando un’autentica emancipazione dei soggetti oppressi, ha tracciato un sentiero fondamentale per le successive elaborazioni transfemministe.
Il suo saggio seminale Can the Subaltern Speak? (Spivak, 1988) muove dalla storia paradigmatica di Bhuvaneswari Bhaduri, una giovane donna bengalese, parente dell’autrice, che si suicidò nel 1926. In un primo momento, la sua morte fu interpretata come la conseguenza del disonore dovuto a una presunta gravidanza fuori dal matrimonio. In realtà, come Spivak rivela, Bhuvaneswari faceva parte di un gruppo rivoluzionario anticoloniale e si era tolta la vita per l’impossibilità di portare a termine l’assassinio di un obiettivo politico –  un funzionario britannico, secondo alcune fonti – che le era stato affidato.
Il gesto suicida, tutt’altro che dettato da un dramma personale, fu invece pensato con lucida consapevolezza politica: la giovane attese che le venissero le mestruazioni prima di morire, così da smentire la narrazione dominante di una gravidanza indesiderata. Tuttavia, decenni dopo, la sola narrazione sopravvissuta è proprio quella che lei aveva cercato disperatamente di scongiurare.
Da qui Spivak avvia la sua riflessione sull’impossibilità per il soggetto subalterno di esprimere la propria soggettività all’interno dei circuiti dominanti del discorso: alla domanda che dà il titolo al saggio, ovvero se i subalterni possano parlare, la sua risposta è un doloroso no.
La condizione di subalternità – un concetto mutuato da Gramsci e rielaborato da Spivak in chiave critica rispetto all’etnocentrismo imperialista – comporta una minore o addirittura assente possibilità di auto-rappresentazione, dove per auto-rappresentazione si intende l’espressione autonoma di sé nel discorso pubblico.
Spivak distingue due concetti di rappresentazione, espressi da due diversi verbi in lingua tedesca: vertreten, ovvero la rappresentanza politica (parlare per), e darstellen, cioè la rappresentazione simbolica o discorsiva (raffigurare, mettere in scena).

Il punto centrale della sua analisi è che i subalterni non possono vertreten – parlare in proprio, agire come soggetti politici – perché, quando altri tentano di dar loro voce, confondono i due concetti: col pretesto di rappresentarli simbolicamente (darstellen), finiscono per sostituirsi a loro nel discorso (vertreten), rafforzando così la loro marginalizzazione.

Questa riflessione anticipa e prepara il terreno alla teoria butleriana della performatività di genere, secondo cui il genere non è un’essenza, ma un’azione iterativa, una forma di darstellen, di “messa in scena” soggetta a variazioni. 

Tuttavia, anche per Butler, la rappresentanza autentica (vertreten) resta inaccessibile, in quanto, al netto dell’illusione illuminista di un soggetto unitario e di una coscienza che pilota l’individuo sempre verso il proprio interesse (illusione che però neanche Foucault e Deleuze-Guattari riescono, secondo Spivak, a sfatare), non vi è un sé coerente capace di esprimere una volontà pienamente propria. Se l’identità non è che una narrazione, parziale e mistificante come tutte le narrazioni, allora non c’è rappresentazione dell’identità che non risulti in qualche modo contraffatta.

È come se Butler spingesse ancora più in là l’asticella della disillusione nei confronti di quella concezione positivista – già criticata da Spivak – che lega a filo stretto ragione, identità e rappresentabilità politica. Il filone di critica anti-coloniale inaugurato da Spivak non si limita a denunciare l’oppressione da una prospettiva post-coloniale, ma giunge a decostruire l’intero discorso culturale che ha reso possibile la distinzione gerarchica e binaria tra occidente e “resto del mondo”. Un discorso, questo, che si fonda su pretese universalizzanti di rappresentabilità dell’Altro, e che assume l’identità come stabile, trasparente e traducibile in termini politici.

Il femminismo intersezionale sposta ulteriormente il baricentro, fino a mettere in discussione l’idea stessa di rappresentabilità del sé. Scrutinando e poi smascherando come costrutto culturale l’assunto della sovrapponibilità tra coscienza e identità, il transfemminismo contesta la nozione di soggetto indiviso (ovvero individuo) e vi contrappone quella di soggetto molteplice, stratificato e relazionale. In tale prospettiva, la rappresentazione del sé può avvenire solo in forma situata – ossia in relazione alla propria posizionalità o positionality (Alcoff, 1988) – e sempre in maniera performativa, mai assoluta o totalizzante. 

In questo quadro teorico si inserisce la riflessione antispecista, che assume una radicale postura critica verso l’ultima dicotomia figlia del dualismo cartesiano rimasta salda nella struttura del pensiero occidentale: la distinzione netta tra soggetto umano e soggetto non umano. Se il subalterno, nel senso spivakiano, è colui o colei a cui è negata la possibilità di rappresentarsi politicamente (vertreten) e culturalmente (darstellen), l’animale non umano incarna questa condizione al grado massimo: non solo non può parlare per sé (almeno non con noi), ma è anche privo di strumenti simbolici per autorappresentarsi all’altro umano. È sempre l’altro a dirsi per lui, a interpretarlo, a disciplinarlo discorsivamente.

Alla luce di questa impossibilità di presa di parola e di autorappresentazione, l’animale emerge come paradigma radicale della soggettività esclusa.

Ne scaturisce una domanda inevitabile, aguzza, urgente: come possono le società umane rispettare chi non può dirsi da sé ad esse?

Essere con i corpi che sentono

Se volessimo rispondere a questa domanda attingendo dalle considerazioni di Timeto, potremmo affermare che l’unico modo è riconoscere e accogliere l’alterità, ma al contempo prestare attenzione al trait d’union tra le diverse specie: l’essere corpi che sentono.

In questo, Timeto è in piena sintonia con l’antispecismo post-umanista di Rosi Braidotti (2013): una volta superata l’idea umanista e illuminista della superiorità della ragione, una volta ipostatizzato il dubbio circa l’esistenza stessa di una ragione intesa in senso cartesiano – ovvero come unitaria, invariabile nel tempo, lineare, dualisticamente contrapposta al corpo – ecco che gli animali non umani risultano non poi così diversi dagli animali umani.

Così, la schiavitù a cui storicamente gli animali non umani sono stati soggetti appare come un fenomeno molto diverso dalla narrazione che ne è stata proposta per secoli: non la conseguenza logica di una indiscussa superiorità “di natura”, bensì l’esito crudele di una visione del mondo che, come tutte le visioni del mondo, è influenzata dal suo tempo. Così, al mito aleatorio della ragione si contrappone con forza la realtà tangibile del corpo che sente. La prima divide, marcando la distanza e sancendo la supremazia della nostra specie su tutte le altre – che già nell’essere accorpate sotto la dicitura uniformante di “altro” sono ridotte a residuo, scarto, differenza. Il secondo, invece, unisce: accomuna sotto il segno della capacità di sentire ed esperire.

È in questa direzione che si muove il percorso di affrancamento tracciato prima dai femminismi anticoloniali, poi dagli antispecismi transfemministi: colonialismo e specismo viaggiano su binari paralleli. Entrambe le forme di sfruttamento sistemico, infatti, poggiano sulla presunta superiorità di un gruppo dominante sugli altri e si avvalgono di rappresentazioni mendaci (darstellen) che sottraggono voce e agibilità politica all’altro, imponendo una sua sub-rappresentazione (vertreten).

In questa prospettiva, l’obiettivo delle lotte anti-oppressive si espande: non si tratta più soltanto di ottenere giustizia per specifiche categorie definite da marcatori identitari, ma di immaginare e perseguire una liberazione totale.

La controversa relazione tra colonialismo e specismo – il caso di Coetzee

La militanza antispecista promuove informazione e diffusione di consapevolezza tramite una produzione culturale che attraversa blog, fanzine, podcast, eventi informali, pubblicazioni accademiche. Tra queste si annovera la rivista LiberAzioni, il cui n. 43 del 2020 contiene un saggio di Timeto che prefigura in forma condensata alcune delle riflessioni che confluiranno in forma più ampia nelle pagine di Animali si diventa. In particolare, si indaga lo stretto rapporto tra specismo e colonialismo – un rapporto così stretto da ingenerare sottili insidie dialettiche: nell’istituire una relazione tra le due disuguaglianze urge guardarsi con cautela dal veicolare il messaggio che certi esseri umani siano equiparabili ad animali, dove per animali si intende sub-umani.

La questione è di fatto spinosa e ha visto confrontarsi fra loro diversi pensatori. Memorabile è il paragone tra gli allevamenti intensivi e i lager nazisti che J.M. Coetzee fa fare al suo personaggio-alter ego Elizabeth Costello in The Lives of Animals (Coetzee, 1999). Nel libro questo paragone scatena come reazione una lettera indignata del poeta israeliano Abraham Stern, oltraggiato da quello che alle sue orecchie suona come un sillogismo terribile: se gli animali sono come gli ebrei, allora gli ebrei sono come gli animali. A ben vedere, Coetzee non assegna infallibilità morale all’oratrice delle conferenze universitarie sul tema “L’umano e l’animale” alla quale consegna il testimone di un incarico assegnato a lui in prima battuta. Se Elizabeth Costello è un alter ego di Coetzee, lo è in modo coraggiosamente verosimile: è una persona, con le sue luci e le sue ombre, il cui vegetarianesimo non la rende esente da contraddizioni (di cui è in parte consapevole: come afferma lei stessa al pubblico della conferenza, non mangia carne ma indossa scarpe di cuoio), vizi, incoerenze (afferma di amare gli animali ma non ha animali domestici e non sperimenta la presenza animale nella sua quotidianità), stranezze, irrazionalità, idiosincrasie (un esempio su tutti, l’antipatia viscerale per sua nuora e l’inflessibile rifiuto di condividere il desco con quest’ultima e il resto della famiglia se fra le loro portate vi è carne o pesce), difetti caratteriali (è aspra e carente di tatto), imbranataggine nei rapporti (fatica enormemente a comunicare col figlio).

Insomma, Costello – ergo anche Coetzee – non è uno scrigno di virtù. Pertanto, quando la prima stabilisce un rapporto fra l’Olocausto ebreo e l’Olocausto animale (paragone che d’altronde sarà ripreso tre anni dopo da Charles Patterson nel suo saggio dall’eloquente titolo Un’eterna Treblinka), il secondo è molto probabilmente consapevole di starsi avventurando in un territorio assai delicato, ed è forse in virtù di questa consapevolezza che non fa dire né scrivere nulla alla sua alias romanzesca in risposta alla lettera incendiaria di Abraham Stern, quasi volesse riconoscere a quest’ultimo la legittimità della sua rabbia. 

D’altronde, Coetzee non è autore da bianco o nero. Nella sua prosa le sfumature invadono l’intero edificio narrativo. Nella sua variegata produzione, l’autore sudafricano mostra di non essere incline alle facili polarizzazioni. Ogni cosa che si può dire è filtrata dall’occhio umano, e l’animo umano conosce altrettante sfaccettature e contrasti interni quante sono le sfumature di un prisma dalle facce infinite. Pertanto, nessuna persona è immediatamente inquadrabile come buona o cattiva, nessuna etichetta può bastare a definire la sua complessità labirintica. 

In questo senso David Lurie, il protagonista di Disgrace (1999), la cui pubblicazione precedette di pochi mesi quella di La vita degli Animali, è esemplare: si tratta di un professore universitario bianco che vive e lavora a Cape Town e che, all’inizio del romanzo, instaura una relazione sessuale con Melanie Isaacs, una sua giovane studentessa nera. La dinamica sottesa a questo rapporto è evidentemente sbilanciata, poiché segnata da un abuso di potere accademico e di genere. Nel corso del romanzo, David assiste sgomento al crollo del suo edificio di certezze, costruito sulla consapevolezza del proprio privilegio di genere, di etnia, di classe, allorché sua figlia viene brutalmente violentata nella sua casa in campagna da tre uomini neri, in un atto che inscrive la violenza di genere nel quadro più ampio delle tensioni razziali post-apartheid. Dopo l’aggressione, la figlia rifiuta di sporgere denuncia e accetta di restare nella sua fattoria, sotto la crescente influenza del vicino Petrus – figura emblematica del nuovo ordine sociale – con cui la donna si trova costretta a negoziare la propria sopravvivenza. Tutto questo avviene senza che David, con tutta la sua presunzione di potere, possa farci niente. 

Da questa agnizione di impotenza si avvia un processo di trasformazione interna nel protagonista, una presa di coscienza della crudele bidirezionalità del potere: si è sempre potenti in rapporto a – ovvero a discapito di – qualcuno. Il potere di cui lui ha abusato nei confronti di Melanie (approfittando del proprio privilegio di status, genere, etnia) gli si è ritorto contro nella forma dell’abuso di potere inflitto a sua figlia da persone con un privilegio di sesso, forza fisica e ruolo sociale in quel momento superiore al suo. Le fluttuazioni di potere che si avvicendano nella storia schiudono una riflessione sul potere come relazione instabile: potere e vulnerabilità si scambiano posizione in modi inattesi. Il fatto che ogni privilegio si configuri come tale solo in un dato momento e in relazione a qualcun altro svela il suo essere fondato su precetti arbitrari e futili. Questa è la grande intuizione del romanzo, che si può dire tutto incentrato sulle dinamiche di potere che intercorrono tra gli individui e sulle intersezioni fra i piani che influenzano tali dinamiche. In questa luce, non ha senso scagliarsi con foga punitiva contro gli individui appartenenti a certe categorie sociali detentrici di potere, perché il problema è il potere in sé. Chi e come ne abusa può cambiare rapidamente volto e strategie, ma se non crolla la struttura di potere, ci saranno sempre oppressori e oppressi. La lettura di Coetzee ci suggerisce che a dover essere smontata è l’idea stessa della legittimazione all’abuso di potere in virtù di determinati marcatori identitari. Quali siano questi marcatori identitari in definitiva ha scarsa importanza, dato il loro essere – come tutto ciò che pertiene agli individui, come la vita stessa – provvisori e friabili.

L’abuso di potere esercitato dal protagonista all’inizio della narrazione è in qualche modo funzionale alla successiva cocente presa di coscienza: sarà l’abuso di potere subito da sua figlia a costringerlo a fare i conti con la violenza insita nella catena delle diseguaglianze.

Nel romanzo non mancano gli spunti per una riflessione profonda sul potere detenuto dagli umani nei confronti dei non umani. Questo potere – di cui il protagonista prende coscienza lavorando come addetto alla cremazione di cani morti nella località rurale dove vive la figlia, lontano dalla città e dal suo millantato progresso, dalla sua occultazione della morte (perché lì dove non c’è vita, non c’è neanche morte) – è ascritto agli umani dagli umani in virtù di un accordo sociale altrettanto tacito e indiscusso che quello che sancisce il potere maschile sulle donne. 

Come ci mostra la storia di Disgrace, ogni fatto umano comprende, inevitabilmente, uno scarto fra la teoria e l’esperienza. Se la prima può essere limpida e lineare, la seconda è necessariamente sfumata, equivoca, zigzagante.

Tornando a La vita degli Animali, è probabilmente per cercare di aggirare questo scarto con i mezzi a cui il suo mestiere gli dà accesso che Coetzee sceglie di imbastire il ciclo di lezioni sul tema del rapporto umano-animale nella forma non di un saggio accademico, bensì di un romanzo, costruendo così una memorabile matrioska letteraria: quasi a rivendicare la sua professione di romanziere e non di accademico, anziché limitarsi a leggere i suoi scritti, Coetzee legge la storia da lui inventata di un’autrice che legge i suoi scritti. In questo modo, da una parte il filtro che Coetzee mette tra sé stesso e i suoi pensieri – un filtro di nome Elizabeth Costello – suggerisce che nessun pensiero umano possa sottrarsi al setaccio dell’identità, cioè della narrazione che la nostra coscienza fa di noi stessi, la quale è per sua natura artificio, mistificazione. D’altra parte la foga che trasuda da ogni discorso di Costello sembrerebbe volerci indicare come l’esperienza – che si distingue per il suo essere narrabile, ed è infatti qui rappresentata dalla narrazione romanzesca – arriva più al cuore delle cose della speculazione, rappresentata dalle dissertazioni accademiche dalla cui codificazione formale l’autore si è preso la libertà di deviare. 

In questa deviazione peraltro lo emulerà, in uno dei testi in appendice all’edizione italiana del libro, Peter Singer (2009), immaginando una godibilissima conversazione tra un padre (cioè se stesso) e sua figlia sul tema del rapporto fra coscienza umana e non umana. In questa conversazione i due si interrogano su come sia meglio rispondere alle tesi che Coetzee mette in bocca a Costello. Allorché la figlia propone al padre di rispondere con la stessa moneta, questi replica sbigottito: “Io?! E quando mai ho scritto romanzi, io?” (Ivi:110)

Nel racconto di Singer non manca un’allusione al paragone di Costello-Coetzee tra carnivorismo e Olocausto, paragone che il personaggio della figlia definisce “scabroso”, aggiungendo tuttavia che quello che probabilmente sottintende questo paragone è l’affinità non tra le essenze delle vittime, ma tra le forme di esercizio della forza. Un’affinità strumentale, dunque, non essenziale.

Per un approccio situato, contro l’assolutizzazione dell’Altro

Nella connessione tra lo sfruttamento coloniale  a danno delle persone e lo sfruttamento agito dagli umani a danno degli animali non umani, quello che Timeto evidenzia è la dimensione condivisa dell’oppressione, il suo portato comune di violenza, di sofferenza inflitta arbitrariamente. Non si intende, attenzione, accomunare indistintamente le diverse esperienze della sofferenza. A ben vedere, rintracciare un legame di dolore tra le varie forme di oppressione non significa mescolare i vissuti delle vittime, né raggrupparle scriteriatamente in base a una lettura distorta e brutalmente essenzialista del principio di eguaglianza, ma significa piuttosto riconoscere l’interconnessione che esiste tra le diverse forme di sfruttamento e, quindi ingaggiare una battaglia, necessariamente su più fronti, contro ognuna di esse.

Certo, la questione si fa più insidiosa quando ci si avventura ai confini dialettici della retorica discriminatoria, dentro quel margine in cui specismo e colonialismo si sovrappongono e si alimentano reciprocamente, a volte in modo velato, con manovre logiche scivolose.

Per esempio, Timeto si schiera con veemenza contro una mostra fotografica della PETA che accosta immagini di allevamenti intensivi e piantagioni di schiavi, perché se è vero che occorre istituire relazioni di solidarietà inter-comunitarie e interspecie, è altresì vero che mescolare le diverse esperienze di oppressione in un calderone indifferenziato sottrae dignità alle singolarità implicate. 
Per dirla con Timeto,

Se l’umanità e la libertà dell’uomo bianco sono misurabili rispetto alla disumanizzazione e all’oppressione dei neri, i neri che vivono l’oppressione sulla propria pelle vedono con sospetto l’abbandono della categoria di umanità, anche perché ciò li ha costituiti come soggetti subalterni. (…) Le oppressioni che si richiamano fra loro richiedono una comparazione attenta alle somiglianze ma anche il riconoscimento delle specificità di ciascuna relazione di dominio, al fine di contribuire a smantellare le relazioni su cui i sistemi di oppressione si reggono (Timeto, 2023: 13)

Proprio come l’Altro per etnia, cioè il non bianco, viene omogeneizzato e livellato dalla dicitura sprezzante di “negro”, così le differenze fra le specie non umane si appiattiscono nell’etichetta generalista di “bestia”. Per analogia con quanto analizzato da Fanon (1952) in merito allo stereotipo razziale, così lo stereotipo di specie cristallizza le differenze in una fissità mistificatoria.

Dunque, Timeto ci ricorda che il viaggiare di pari passo di visione colonialista e visione specista non significa che non ci siano delle zone grigie. Al contrario, in alcuni casi la sovrapposizione tra istanze de-colonizzanti e istanze antispeciste può risultare molto problematica. 

Ancora oggi in Occidente la definizione delle gerarchie animali e delle pratiche che coinvolgono animali eredita e spesso attualizza il retaggio coloniale: basti considerare come l’impiego degli animali nei combattimenti o nei wet market asiatici sia immediatamente etichettato come “bestiale” e incivile, mentre pratiche altrettanto crudeli non sono percepite come tali perché appartenenti alla quotidianità occidentale, e restano quindi invisibili e indiscusse. (Timeto, 2024: 54)

Le contraddizioni etico-politiche che emergono in questi casi non possono essere risolte in termini assoluti o astratti. Un episodio che esemplifica bene questo impasse è quello di una controversia che ha coinvolto la tribù nativa dei makah negli Stati Uniti. Questa tribù è stata oggetto di aspre critiche da parte dei movimenti animalisti per il fatto di praticare la caccia alle balene, sebbene con modalità diversissime da quelle soggiacenti all’estrazione di valore capitalista: le balene sono tradizionalmente una fonte di sostentamento molto importante per la tribù, che dunque si oppone con forza alla caccia intensiva e ai rischi di spopolamento ittico a cui essa espone. I makah, dal canto loro, hanno puntato il dito contro la mentalità coloniale che a loro dire permeava le invettive degli animalisti occidentali. Tuttavia, come sintetizza bene Timeto, “non si capisce perché uccidere le balene dovrebbe essere considerato giusto se a farlo è una popolazione nativa” (Ivi:162). 

Posta l’irresolubilità di questa complessa diatriba, che Timeto non si arroga la presunzione di dirimere, è opportuno segnalare che le comunità umane sono fatte di persone, e non tutte le persone aderiscono indistintamente e placidamente a ogni principio su cui si erige la tradizione della loro comunità di appartenenza. Pertanto è fondamentale per Timeto adottare un approccio situato, non universalista, ovvero “una epistemologia femminista situata (Es) e del punto di vista” (Ivi:124). Poiché ogni esperienza – compresi i vissuti di marginalizzazione – è soggettiva, affrontare le istanze di liberazione dei soggetti oppressi mediante approcci assolutizzanti o generalizzanti fa sbiadire e cancellare l’autenticità dell’esperienza soggettiva. Perciò è importante rifiutare ogni teorizzazione che non venga da una prospettiva situata, in ossequio alla consapevolezza che il personale è politico.

È emblematico in questo senso l’esempio offerto da Timeto di un’ eco-femminista che, confrontatasi con la necessità di somministrare del latte animale al suo bambino affetto da un deficit vitaminico, ha dichiaratamente scelto di sacrificare l’inviolabilità del corpo dell’animale a vantaggio della salute di suo figlio. Quest’episodio evidenzia la singolarità e la difficoltà di ogni scelta. Le contestazioni della scelta compiuta dalla donna, accompagnate dalle affermazioni che, qualora ci si fosse trovati nella sua posizione, si sarebbe agito diversamente, non tengono conto di un fatto fondamentale: chi le pronuncia non era in quella posizione.

Liberarsi dalla tradizione

Nel ribadire l’importanza di un approccio politicamente situato, Timeto smentisce le accuse di generalizzazione mosse alla animal standpoint theory, cioè la teoria del punto di vista animale (Ivi:127) sostenendo che quest’approccio mira a “praticare la giustizia sociale multispecie, passando dall’analisi alla prassi vitale, che sia di parte e si situi da qualche parte” e concludendo che “si può essere parziali rifiutando sia le istanze totalizzanti sia il relativismo.” (Ibidem) In queste affermazioni si può ravvisare un tacito debito con gli insegnamenti di bell hooks. Nella sua prolifica produzione saggistica, infatti, l’accademica, scrittrice e attivista afroamericana esorta a congiungere teoria e prassi – troppo spesso separate da uno iato che risente delle variabili intersecate di appartenenza etnica, classe sociale e capitale culturale (hooks, 1994). Come ci fa riflettere Timeto,

un’accusa che viene spesso mossa al veganismo è che si tratti di un’opzione disponibile solo ai bianchi occidentali privilegiati, che taglia fuori i soggetti marginalizzati, sprovvisti delle risorse economiche o culturali necessarie a permettersi una dieta vegana; o, peggio, che il veganismo esprima un imperialismo cultural che ignora le rivendicazioni politiche di molte comunità indigene, in lotta per difendere la specificità della propria tradizione o identità. (Timeto, 2024: 156)

È nel solco di questa critica che germoglia la disamina intorno alla soul kitchen afro-americana, che per tradizione comprende molti piatti a base di carne. È vero che chi critica questo tipo di cucina da una posizione esterna alla comunità afroamericana – quindi in ottica non situata – spesso sconfina nel territorio impervio del giudizio culturale e si attira a propria volta accuse (spesso legittime) di arroganza ed etnocentrismo, ma è altresì vero che non tutti i membri della comunità in cui è d’uso la soul kitchen approvano e assecondano la tradizione carnivora. Al contrario, sono numerose le voci di black eco-feminists che cercano di risignificare la cucina soul in chiave vegana, esprimendo solidarietà alle e agli animali oppressi. Il fatto di condividere con gli animali un vissuto di oppressione (ricordiamo che  la soul kitchen nasce nel contesto della schiavitù africana in America) crea un legame narrativo-esperienziale e così getta le basi per un rapporto di fratellanza/sorellanza interspecie. Interessantissima, in questo processo di riconfigurazione dei rapporti, è la raccolta di esperienze confluite nel volume Sistah Vegan a cura di Breeze Harper (2019). Contribuendo a smantellare le fondamenta orientaliste che soggiacciono al mito dell’omogeneità delle tradizioni altrui, le voci di Sistah Vegan si impegnano a costruire nuove possibili narrazioni della blackness, mobili e in divenire, aperte a solidarizzare con le istanze di chi condivide un vissuto di marginalizzazione e schiavitù. 

A ben pensarci, la concezione della tradizione come un sacrario inviolabile e rigidamente prescrittivo, anziché come di una serie di pratiche adottate da comunità di persone in mutamento – e quindi passibili a loro volta di mutamento – è figlia di quella stessa mentalità che accorpa i non occidentali in un amalgama uniformante e semplificante. Inoltre, l’idea di tradizione come qualcosa che per la cui preservazione è lecito sacrificare tutto il resto fa riecheggiare la frase “se niente importa, non c’è niente da salvare” che dà il titolo all’edizione italiana di Eating animals dell’autore americano di origini ebraiche Jonathan Safran Foer (2013). Questo titolo fa riferimento a un ricordo d’infanzia che ha per protagonisti l’autore stesso e suo fratello. Quando erano bambini, la loro nonna spiegava come da giovane fosse miracolosamente sfuggita alle persecuzioni naziste in Germania grazie alla propria incoscienza e alla generosità degli sconosciuti che le avevano offerto da mangiare. A un certo punto ricordava che, allorché un macellaio compassionevole le aveva offerto una salsiccia di maiale, lei aveva rifiutato perché il maiale non è kosher. Quando l’autore e il fratellino ascoltavano questa storia, domandavano increduli alla nonna che cosa le fosse passato per la testa, come avesse mai potuto rifiutare quel cibo che, pur non essendo kosher, l’avrebbe salvata dalla fame. “Se niente importa, non c’è niente da salvare” era la sua risposta. 

Molti anni dopo, Safran Foer era percorso dal dubbio se educare suo figlio a un’alimentazione vegetariana, con la controindicazione di strapparlo alla tradizione culinaria tramandata nella sua famiglia per generazioni, o se privilegiare il mantenimento di quella tradizione, rendendosi però complice dell’eccidio perpetrato dall’industria della carne. Fu la riflessione scatenata dal ricordo della frase della nonna a spingere l’autore a decidere che la vita dei volatili sacrificati per cucinare il tacchino del Giorno del Ringraziamento o il pollo arrosto per cui era famosa la cucina di sua nonna valeva di più della tradizione stessa. Parafrasando la nonna, se quelle vite non avevano importanza, allora non c’era nessuna tradizione che valesse la pena salvare.

Il pensiero di Safran Foer si inerpica lungo un sentiero disseminato di interrogativi e percorso da snodi logici e morali. Una lettura tendenziosa dell’antispecismo porta taluni ad argomentare che, se l’umano non è diverso dagli altri animali, allora la sua predatorietà è perfettamente naturale: dopotutto, in natura gli animali si mangiano tra di loro. Timeto molto probabilmente risponderebbe a questa provocazione con l’argomentazione post-strutturalista che l’idea di natura è in sé un costrutto culturale e pertanto la proposizione stessa andrebbe riformulata. Safran Foer, dal canto suo, ricorda che l’umano di fatto è diverso dagli altri animali. La sua diversità può manifestarsi in forme più o meno marcate di deviazione dall’istinto, nel parlare una lingua, nel vestirsi, nel fondare le proprie società su un impianto giuridico e morale. L’umanità si manifesta anche nel porci delle domande etiche che al leone molto probabilmente non è dato porsi, per quello che ne possiamo sapere di che cosa passi per la testa a un leone o a un qualsiasi altro animale. Come ci ricorda Wittgenstein quando dice che “se il leone potesse parlare, non lo capiremmo” (Wittgenstein, 1967) e come ci ammonisce Coetzee-Costello raccontando la commovente vicenda della scimmia Pietro il Rosso, gli esperimenti sull’intelligenza delle altre specie sono inquinati dalla fallacia del loro assunto di partenza, ossia che l’intelligenza abbia solo la forma che le attribuiamo noi. Chi l’ha detto che l’unico pensiero intelligente possibile, per Pietro il Rosso, fosse: “Come faccio a raggiungere le banane che stanno al di là della gabbia?” e non piuttosto, ad esempio: “Perché mi hanno messo improvvisamente in gabbia?” (Coetzee, 1999)

In ogni caso, l’essere diversi dagli altri animali è per Safran Foer un’argomentazione fondamentale a favore del vegetarianesimo. Visto che non siamo come gli altri animali, sostiene l’autore, possiamo fare delle scelte che non sono “naturali” – o per meglio dire istintuali – in senso stretto. Così come aborriamo lo stupro come mezzo per il godimento sessuale, siamo chiamati a esecrare l’uccisione di altri esseri senzienti per il godimento del palato. In sostanza, per Foer, se la scelta è tra l’immutabilità di una tradizione cruenta e la sopravvivenza di miliardi di vite, allora forse è il caso di sacrificare la tradizione. Volendo scivolare dal piano della critica all’antropocentrismo a quello della critica all’etnocentrismo, possiamo avventurarci in un’analogia: chi grida alla minaccia di esproprio culturale e scomparsa delle tradizioni nazionali in virtù del mutamento demografico causato dalle migrazioni, forse dovrebbe chiedersi che cosa conti di più, se suddette tradizioni – peraltro soggette a una variabilità territoriale e a una contaminazione intergenerazionale molto più forti di quanto la propaganda nazionalista non ammetta – e i milioni di vite umane di cui la politica dei confini richiede il sacrificio.

Perseguire la liberazione totale senza la pretesa di innocenza assoluta

Benché il punto di partenza per le riflessioni di cui Timeto delinea una mini-cartografia sia indiscutibilmente l’ecologia femminista, la postura che assume l’autrice prende per certi aspetti le distanze dagli eco-femminismi degli anni ‘80, di cui Murray Bookchin (1990) testimoniava il nascere, additandoli come utopie vacue, irrazionali e misticheggianti. Timeto, da parte sua, pur non astenendosi dal problematizzare una certa tendenza all’essenzialismo e alla dualità di pensiero (maschio-femmina; umano-animale) propria degli eco-femminismi invisi a Bookchin, prende egualmente le distanze da quel razionalismo filo-illuminista che per Bookchin è presupposto imprescindibile del progetto di ecologia sociale: un progetto dalle fondamenta solidamente marxiste, umaniste, laiciste. L’eco-veg-femminismo intersezionale, infatti, afferma il rifiuto di ogni incasellamento binario, compresa la dicotomia ragione-spirito. Come si può intuire, è un approccio che nega l’appoggio conciliante a tutti gli animalismi, indistintamente: è in questa chiave che vanno lette le forti riserve espresse rispetto al pensiero del già citato Peter Singer. Quest’ultimo ritiene che l’interesse a vivere sia la discriminante tra chi è degno di vivere e chi no. Pertanto, gli animali senzienti sarebbero più degni di vivere dei neonati o delle persone con gravi lesioni cerebrali. Secondo Timeto ciò implica, oltre a un’agghiacciante assenza di solidarietà per le creature umane meno intellettualmente “progredite”, anche una gerarchizzazione tra le creature non umane, che vengono di fatto collocate su una scala di dignità in base al loro livello di (supposta) intelligenza (Singer, 1975). Quello di Singer è un antispecismo utilitarista, profondamente influenzato dal positivismo di Jeremy Bentham, che Timeto rifiuta categoricamente, arrivando a definirlo una forma di “super-specismo”. Il razionalismo sotteso alle posizioni di Singer è tacciato di non mettere in discussione i presupposti carnofallologocentrici (Derrida, 2006) della civiltà occidentale, anzi di fare precisamente il contrario, cioè avvalorare acriticamente la loro legittimità. 

Diversamente, Timeto dichiara la sua affiliazione al postumanesimo femminista, che vede tra i suoi teorici di spicco Donna Haraway – a cui infatti ha dedicato un intero libro (Timeto, 2020). Per Haraway, come per Braidotti, la nozione del sentire con o being with è l’assunto da cui partire per strutturare un sistema nuovo e sovversivo di relazioni, in cui al principio della proprietà – indiscernibile dall’estrazione di profitto dai corpi – si sostituisce la coesistenza interspecie fondata sul riconoscimento dell’altro come corpo sensibile.

Va detto che, pur riconoscendo il suo ruolo nella rivoluzionaria istituzione di relazioni fra post-umanesimo, anti-etnocentrismo, antispecismo e critica al patriarcato, Timeto prende in parte le distanze da Haraway. In particolare, quello che contesta alla filosofa americana è di appiattire la pratica del veganismo sulla questione della scelta (una scelta che Haraway per sua stessa ammissione non vuole fare) e, in sostanza, di ridurre le complessità del posizionamento vegano a un’astrazione disincarnata. In estrema sintesi, per Haraway la scelta del veganismo è una scelta impossibile: anche non mangiando animali o derivati, non possiamo cessare di essere in qualche modo complici dell’abuso di potere di specie, non potremo mai tirarci completamente fuori dal sistema delle iniquità interspecie. Se Timeto concorda con Haraway nel rifiutare il mito dell’innocenza, alla luce del fatto che nessuna e nessuno può dirsi del tutto innocente, ritiene tuttavia doveroso evitare il tranello delle facili polarizzazioni. È vero che siamo tutte e tutti a un qualche livello complici delle crudeltà del sistema che abitiamo, ma abbiamo la facoltà di provare ad attenuare queste crudeltà rendendoci un po’ meno complici. L’accettazione del limite non può essere liquidata sbrigativamente come accettazione del compromesso. Al contrario, data l’inutilità di uno schieramento assolutizzante in un mondo di sfumature, quello che conta nel concreto è la misura del nostro agire: per milioni di creature, essa fa la differenza tra il vivere il morire.

L’antispecismo radicale invita dunque a guardarsi bene dalla seduzione del tutto o niente, sintetizzabile nell’equazione “se non posso essere completamente innocente, allora tanto vale rinunciare a lottare”. Affrontare le contraddizioni di un certo posizionamento significa avere una postura etica che problematizza la realtà e così mantenere attivo il radar delle ingiustizie sociali. Inoltre, la difficile realizzabilità di un obiettivo non può essere un deterrente a tentare di raggiungerlo. In altre parole, la disillusione non può frenare in partenza l’azione.

Si situa in questa cornice l’esortazione di Jonathan Franzen (2019) ad agire secondo una coscienza ecologista – non rinunciando ai valori etici, supportando le comunità basate sulla cooperazione solidale, impugnando battaglie locali per la difesa dei singoli territori minacciati dagli interessi di mercato – nonostante l’inevitabilità del disastro ecologico e climatico. Franzen esemplifica questo disastro ricorrendo all’immagine dell’abisso. Il romanziere e saggista americano ci ammonisce di non cadere nella trappola della cecità davanti all’abisso, cecità che per lui si esprime nello slogan altisonante “possiamo salvare il mondo” e nelle tanto grandi quanto inutili battaglie contro le grandi industrie estrattive, universalmente e indistintamente additate come responsabili del riscaldamento climatico. Per Franzen, affrontare l’abisso, ovvero acquisire una postura disillusa rispetto alla pretesa di “salvare il mondo”, ha l’effetto paradossale di rendere la lotta molto più d’impatto. L’azione sul micro, infatti, è molto più suscettibile di successo di quella sul macro. Gli esempi offerti da Franzen a supporto di questa tesi, tratti dalle esperienze di resistenza sia di comunità statunitensi che indigene latinoamericane (Franzen, 2018), ci dimostrano che l’attivismo locale può, agendo da una prospettiva situata, raggiungere degli obiettivi concreti. Scagliarsi esclusivamente contro il Golia delle multinazionali petrolifere e dei loro vassalli governativi può addirittura essere controproducente, in quanto il senso d’impotenza che scaturisce dall’ingaggiare battaglia contro un nemico invincibile fa estinguere la speranza nel cambiamento e dunque appassire la motivazione a lottare nella landa sterile della sfiducia. Ma per Franzen c’è anche un altro non meno importante motivo per affrontare l’abisso: la dignità che comporta il vivere secondo le proprie scelte. Ecco che risuona, in questa esortazione, l’appello di Safran Foer a esercitare criticamente la facoltà di arbitrio – intesa come deviazione, per scelta, dall’istinto e dalla consuetudine – propria dell’essere umano.

Ed ecco che, rioperando uno shift metonimico tra lotta ecologista e lotta animalista, una dimensione in cui si esplica questa facoltà è quella della scelta tra violenza e compassione.

Sulla compassione (dal latino cum patior: soffro con, sento con) si fonda in ultima sintesi la rete di relazioni sociali sovversive prefigurate dall’eco-veg-femminismo queer. Questa corrente del movimento femminista – a cui Timeto dichiara la propria affiliazione, ricordandoci tuttavia che è solo una delle tantissime esistenti – immagina una società fondata su rapporti oddkin, ovvero non di sangue, tra gli esseri, in cui sia destabilizzato il privilegio derivante dal logos. La critica al carnofallologocentrismo identifica infatti la parola come strumento di dominio che ha permesso storicamente il prevalere di un’epistemologia violenta, competitiva, che divide il mondo in categorie e dà per apodittiche le asserzioni di dominio di una categoria sull’altra, e che ha così storicamente giustificato l’abuso dell’uomo sulla donna, del bianco sul nero, del forte sul debole, dell’umano sull’animale. La ferma critica eco-veg femminista all’attuale sistema ne individua l’origine in quest’epistemologia ecludente tout-court, che riesce a combinare in modo quasi paradossale muscolarità e cerebralità, e a tale panorama contrappone un progetto sociale rivoluzionario, fondato su un’epistemologia nuova, che veda un trasferimento del focus dal pensare contro al sentire con. In breve, un’epistemologia dell’empatia verso chi è in rapporto di fratellanza con noi per il fatto di abitare un corpo sensibile, indipendentemente dalla specie a cui è rubricata (o derubricata) l’afferenza di tale corpo.

Note:

[1] La disarticolazione della classe dalla razza, dal genere e dalla sessualità è stata infatti centrale per il successo del progetto neoliberale – facendo sembrare, grottescamente, che il neoliberismo fosse in qualche modo una precondizione delle conquiste ottenute nelle lotte antirazziste, antisessiste e antieterosessiste. (…) … l’approccio rivoluzionario alle lotte per la razza, il genere e la sessualità va ben oltre la richiesta di riconoscimento delle diverse identità. In definitiva, si tratta di smantellare l’identità. (Traduzione mia)

Bibliografia:

Alcoff, L., Cultural Feminism versus Post-Structuralism: The Identity Crisis in Feminist Theory, in «Signs», vol. 13, no. 3, 1988, pp. 405–436.

de Beauvoir, Simone, Il secondo sesso, trad. di B. Fonzi, Il Saggiatore, Milano 1991. [Orig. Le Deuxième Sexe, 1949]

Bookchin, M., Remaking Society: Pathways to a Green Future, South End Press, Boston 1990.

Braidotti, R., The Posthuman, Polity Press, Cambridge 2013.

Braidotti, R., Posthuman Knowledge, Polity Press, Cambridge 2019.

Braidotti, R., Posthuman Feminism, Polity Press, Cambridge 2022.

Butler, J., Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York 1990.

Coetzee, J.M., Disgrace, Secker & Warburg, London 1999.

Coetzee, J.M., The Lives of Animals, Princeton University Press, Princeton 1999.

Deleuze, G., e Guattari, G.. L’Anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia, trad. di A. Fontana e P. A. Rovatti, Einaudi, Torino 1975. [Orig. L’Anti-Oedipe, 1972]

Deleuze, G., Guattari, F., Mille piani: capitalismo e schizofrenia, trad. di M. De Angelis, Castelvecchi, Roma 1996. [Orig. Mille Plateaux, 1980]

Derrida, J. L’animale che dunque sono, trad. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006. [Orig. L’Animal que donc je suis, postumo, 2006].

Fanon, F., Peau noir, masques blancs,  Editions du Seuil,  Paris 1952.

Fisher, M., Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures, Zero Books, Winchester 2014.

Foer, J. S., Eating Animals, Little, Brown and Company, New York 2009.

Franzen, J., The End of the End of the Earth: Essays, Farrar, Straus and Giroux,  New York 2018.

Franzen, J., What If We Stopped Pretending?, in «The New Yorker», 2019. [https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/what-if-we-stopped-pretending]

Harper, A. B. (a cura di), Sistah Vegan: Black Female Vegans Speak on Food, Identity, Health, and Society, Lantern Books, Brooklyn 2010.

Haraway, D. J., A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991, pp. 149–181.

Haraway, D. J. When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008.

hooks, bell, Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom, Routledge, New York 1994.

Klein, N., No Logo: Taking Aim at the Brand Bullies, Picador, New York 1999.

Patterson, C., Un’eterna Treblinka: il massacro degli animali e l’olocausto, trad. di F. Grillenzoni, Sonda, Milano 2003. [Orig. Eternal Treblinka, 2002]

Preciado, P. B., Manifesto contrasessuale, trad. di S. Lorusso, Il Dito e la Luna, Roma 2002. [Orig. Manifeste contra-sexuel, 2000]

Preciado, P. B. Testo tossico, trad. di S. Casi, Fandango, Roma 2008. [Orig. Testo Junkie, 2008]

Singer, P., Animal Liberation: A New Ethics for Our Treatment of Animals, New York Review Books, New York 1975.

Singer, P., Riflessione, in Coetzee, J. M., La vita degli animali, trad. F. Cavagnoli e G. Arduini, Adelphi, Milano 2009, pp. 103-110.

Spivak, G. C., Can the Subaltern Speak?, in Nelson, C. e Grossberg, L. (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press, Urbana 1988, pp. 271–313.

Timeto, F., Animali si diventa, Tamu, Napoli 2024.

Timeto, F., Bestiario Haraway. Interspezies, femminismi, tecnoscienze, Mimesis, Milano 2020.

Timeto, F., Femminismo Nero e Antispecismo, in «LiberAzioni», n. 43, 2023, pp. 4-22.

Wittgenstein, L., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967.  [Orig. Philosophical Investigations, 1953]

 

Stefania Persano è insegnante di lingue e traduttrice. I suoi interessi spaziano dalla narrativa all’epistemologia della didattica, dalla musica alla poesia e all’intreccio tra queste ultime.

Parole chiave: antispecismo, ecovegfemminismo, transfemminismi, decolonizzazione