Variazioni, liceità e costruzione dell’umano

Una conversazione libera fra coscienza e mondi

di Alessandro Pacco e Francesco Gottardo

 

Dove ci può portare lo smembramento di un’espressione come “stato non/ordinario di coscienza”? Ma ha senso parlare di “stato”? E “la coscienza” non sarà mica solo un oggetto (particolare) del nostro mondo? Queste le domande che aprono la pista a questa conversazione, pista che ci porterà a provare a bussare ad altri mondi, con in mano dei doni, offerte di pace e diplomazia. A questo punto però la pista continua, ma dove ci porterà non possiamo, né vogliamo, saperlo…

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Francesco Gottardo Parliamo dei cosiddetti stati di coscienza. Vorrei chiederti cosa ne pensi di espressioni come stati alterati o non ordinari. So che tu preferisci ricorrere ad altri termini per riferirti a questo ambito.

Alessandro Pacco La riflessione sul binomio stato/processo è cominciata parecchi anni fa ed è entrata nelle conversazioni che avevo abitudine di fare con Piero Coppo. In particolare, parlando del dispositivo della respirazione olotropica (una pratica di respirazione che si pone il fine di favorire processi espansi di coscienza a scopo sanante), ci confrontavamo sulla scelta del contenitore semantico preferibile tra “stato” e “processo”. La nozione di stato riguarda qualcosa di fermo, mentre quasi mai la coscienza sosta in uno spazio fermo. Qualcuno già all’epoca proponeva, per parlare dei fenomeni della coscienza, la dicitura  “processi espansi”.

Più o meno a quel tempo ho iniziato ad usare la parola “stato” solo per rivolgermi ai colleghi e in generale a un pubblico esterno, ma ho smesso di utilizzarla in riferimento al fenomeno della coscienza pensando tra me e me o discutendone con amici stretti. Ho iniziato a ragionare in termini di processo, perché il dato di realtà è che la coscienza è un processo.

La mia impressione è che diversi mondi culturali codifichino degli stati che sono leciti e degli stati che non sono leciti, questo al di là del fatto che siano indotti o meno o che ci siano dispositivi dedicati alla loro produzione/attivazione. Ci sono stati che sono considerati leciti trasversalmente ai contesti sociali, che si possono sperimentare senza che sollevino criticità, e altri stati che non sono leciti e che quindi vengono segnalati come qualcosa che pone criticità.

Nel nostro mondo, almeno dall’estensione del dominio della psichiatria, da quando essa ha iniziato a territorializzare feudi sempre più estesi, gli stati considerati leciti sono sempre di meno. Da molto tempo, la psichiatria definisce come non lecito tanto materiale vitale, ovvero tante forme di vita e possibilità di vita.

Le forme lecite della coscienza sono poche, mentre molte sono state relegate nel non lecito. Queste ultime  fanno problema nella nostra società – diversamente da quanto accade con forme non identiche, ma certamente simili, in altri contesti. Ad esempio, se io e te adesso avessimo una visione, ciò farebbe problema e non potremmo farcene molto. Nessuno o quasi penserebbe trattarsi di una manifestazione della Vergine Maria o del Divino; quasi sicuramente il fenomeno rientrerebbe nella categoria delle allucinazioni, dei sintomi di intossicazione o di psicopatologia, pertanto andrebbe subito a finire in un ambito di gestione psichiatrico o psicoterapeutico. La quantità di processi/stati che sono finiti nel “problematico” è molto alta. Pensiamo all’innamoramento: nel nostro mondo culturale è fisiologico che ad un certo punto una persona entri in uno stato di innamoramento. Lo stato di innamoramento è uno stato modificato, alterato, non ordinario…. Quindi lo stato di innamoramento è uno stato che potrebbe fare problema. Al giorno d’oggi può fare problema, quante persone si rivolgono alla psicoterapia perché vivono un amore non corrisposto?

F.G. Spesso quando si pensa agli stati non ordinari si pensa sempre agli “estremi”: visioni, utilizzo di sostanze o comunque di dispositivi particolari. Invece si sottovalutano quelle che sono manifestazioni più diffuse della non ordinarietà, come per l’ appunto l’innamoramento. Ma anche l’emotività intensa non è propriamente lecita.

A.P. Certo non ti puoi strappare i capelli dal dolore, perché se vieni intercettato da qualcuno, da un medico ad esempio, finisci in psichiatria, in quanto il tuo stato non è  considerato lecito. Poi ce ne sono altri che sono leciti, ma non vengono tenuti in considerazione come effettivamente non ordinari. Per esempio, devi andare a fare la spesa: ti organizzi, prendi la lista, scrivi le cose che ti servono, ti immagini il frigo – vuoto – poi immagini di caricare la lavatrice – manca l’ammorbidente. Esci, vai verso l’automobile e ti accorgi che hai preso le chiavi della macchina, senza saperlo, senza pensarci neppure: lo hai fatto sovrappensiero. Allora, questo non è uno stato tecnicamente “ordinario”. Pensiamo a cosa succedeva prima del 1850, cioè l’anno in cui l’inconscio si presentifica come manifestazione e comincia a funzionare: allora non era concepibile che si facesse un atto inconsapevolmente. Nel senso che quello che si considerava legato a te era quello che tu facevi consapevolmente, tanto che non esisteva neppure il concetto di memoria rimossa, che è un tipo di memoria codificato successivamente al 1850. Quindi, se definiamo la coscienza come ciò di cui si è consapevoli, lo stato in cui avvengono gli automatismi quotidiani (come prendere le chiavi mentre si è sovrappensiero) non è propriamente ordinario. Si potrebbe aggiungere che non è nemmeno uno stato di coscienza a tutti gli effetti, in quanto l’azione avviene in modo inconsapevole. Tuttavia questo stato è considerato lecito: non fa problema. Penso sia una semplificazione riduttiva e un vizio del ragionamento considerare lo stato di coscienza successivo alla veglia, che non crea problema, come “lo stato ordinario di coscienza”. Dovremmo piuttosto descrivere lo stato ordinario come il processo di alternanza fra coscienza e non coscienza. Infatti, se si considera lo stato di coscienza ordinario come quello in cui si è orientati nello spazio e nel tempo e in grado di prendere delle decisioni volitive, ecco che prendere le chiavi sovrappensiero non rientra in questa categoria.

Il termine “stato” è problematico. Quando sono entrato a casa tua, sono entrato in uno spazio che non conoscevo. La mia presenza in uno spazio nuovo non è la presenza che ho quando entro a casa mia, in uno spazio che conosco. O sono diventato uno yogi – cioè, come si suol dire nel gergo della meditazione, ho “praticato presenza” per rimanere agganciato a un unico stato che mi dà un senso costante di radicamento al qui e ora, oppure si attivano dei processi in me inerenti al fatto che entro in uno spazio sconosciuto. Infatti, per come noi siamo costruiti al giorno d’oggi, subiamo un’influenza legata alla novità.

Chiamare tutto ciò, per facilità di espressione, stato ordinario, è inappropriato. Penso che questo sia un primo importante livello del discorso. Ce n’è poi un altro. Una volta assunta la narrazione per cui c’è lo stato ordinario di coscienza e poi ci sono altri stati, la discussione verte sul quesito  se per gli altri stati sia meglio usare la parola modificati/alterati/non ordinari/espansi. Penso che questo secondo livello di discorso riguardi un’altra questione, il vecchio problema del monoteismo che si riversa nella nostra idea di coscienza. Abbiamo un unico e solo stato ordinario di coscienza che va bene, che è lecito, e poi abbiamo gli altri stati non ordinari di coscienza, plurali, che spesso non vanno affatto bene!

F.G. Quindi, dal tuo punto di vista, lo stato ordinario comprende tutta la gamma di forme lecite?

A.P. Sì, però penso sia un’espressione inappropriata. Occorre trovare una parola che si accosti in maniera sensata al significato dischiuso dalla parola processo. Per la mia esperienza, infatti, la coscienza è un processo, che può avere delle interruzioni significative e non significative. Queste ultime vengono interpretate come lecite o non lecite. Girare in centro città nudo sotto effetto di MDMA non è tanto lecito, o perlomeno, se capita, c’è qualche problema in termini di liceità. Se noi fossimo in un contesto in cui non occorre essere vestiti per spostarsi, sarebbe difficile identificare una situazione simile: se sei nudo e sotto effetto di sostanze in un campo naturista, chi lo capisce?

F.G. A proposito di quello che dicevi sullo spazio, pensavo al termine forma della soggettività, e a come questa va al di là del nostro corpo. Per esempio, nel momento presente e nelle condizioni in cui si svolge il nostro dialogo mi vengono alla mente determinate questioni, mentre se stessimo parlando a millecinquecento metri di altitudine in un rifugio di montagna in mezzo a un bosco, o in un bunker sotto terra, probabilmente mi sentirei in modo diverso. Le cose che mi verrebbero in mente sarebbero diverse, il mio modo di percepire il mondo sarebbe diverso. In un certo senso la mia forma sarebbe diversa.

A.P. Sì, quello di cui parli ha a che fare con le varie declinazioni della soggettività. Io non penso che il soggetto sia stabile, come non penso che la coscienza sia stabile. Per affrontare il tema che sollevi è necessario uscire per un momento dal discorso sull’ordinarietà o meno del processo di coscienza ed entrare nel discorso sulle condizioni in cui si sviluppa questo processo. Naturalmente, se ora fossimo sotto terra in un bunker o in un rifugio ad alta quota con gli stambecchi, faremmo discorsi diversi, però credo che  lo stato di coscienza che sottende quei discorsi sarebbe ampiamente riconosciuto come ordinario e lecito.

Torniamo alla riflessione sull’ordinarietà e la liceità e i loro contraltari, la cosiddetta non ordinarietà e la conseguente illiceità. Prendiamo emozioni che un tempo, in determinate condizioni, erano lecite. Ad esempio: tagliare la testa a una persona in battaglia non era considerato un atto illecito e neppure l’emozione o lo stato di coscienza in cui lo si faceva. L’esperienza di tagliare la testa a qualcuno e quello che ti attraversava durante quell’esperienza erano eccezionali poiché capitavano durante i combattimenti in guerra, ma nel complesso l’esperienza non era considerata illecita. Lo stato che si verrebbe a creare in te se avessi la testa di qualcuno in mano e l’esperienza emotiva che ti attraverserebbe in quelle condizioni al giorno d’oggi, anche in guerra, sarebbero considerati illeciti per la loro intensità: un’esaltazione al di là dei confini del raptus omicida. Non che io voglia inneggiare a tagliare le teste per sperimentarlo, però posso immaginare facilmente che, se dovesse accadere, farebbe problema. La gamma di quello che è possibile sperimentare oggi nel nostro mondo culturale è molto ristretta, perché la patologia è pronta ad agganciarsi a tutto, basti pensare all’accoppiamento scontatissimo di genio e sregolatezza, genio e follia, follia d’amore… L’intossicazione viene considerata quasi dappertutto inappropriata e illecita. Chiaramente non esiste una cultura unitaria, però tendenzialmente lo stato indotto dall’LSD non viene considerato uno stato di coscienza lecito o utile.

Quello che a me interessa è ciò in cui crede la maggioranza delle persone – il collettivo di un determinato mondo culturale – e non un’esigua minoranza. Questo perché quello in cui crede la stragrande maggioranza delle persone offre un metro di valutazione del funzionamento del specifico mondo a cui appartengono. Prendiamo il sogno, forse uno dei pochi ambiti leciti fra i processi di coscienza espansi. La tendenza è quella di ricondurlo all’interno dell’ambito terapeutico: pensiamo alla psicanalisi, o alla problematizzazione degli incubi, o al ricorso ai sonniferi. Il sonno che viene riconosciuto come ordinario è quello dove non c’è attività, in cui si va a letto la sera e ci si sveglia al mattino dopo un sonno sano e ristoratore. Tutto ciò che esce da questo quadro notturno, tutte le esperienze oniriche che si declinano in una marea di modi diversi in altri mondi culturali, da noi sono sostanzialmente fuori dallo spazio della liceità. A parte forse in certi stravaganti gruppi di sognatori lucidi o di viaggiatori astrali, minoritari come sono minoritarie le riserve dei Navajo rispetto agli Stati Uniti d’America, per quasi tutti noi la maggioranza delle esperienze notturne sperimentabili è considerata non lecita e spesso patologica. Ad esempio, le esperienze extracorporee vengono considerate dalla clinica ufficiale come sostanzialmente dissociative. La maggior parte delle persone ha come obiettivo quello di addormentarsi e svegliarsi. Non che lo reputi un obiettivo sbagliato, ma può capitare di tutto tra la veglia e il sonno: allucinazioni ipnagogiche, paralisi del sonno, sogni lucidi, esperienze extracorporee, viaggi astrali, sogni premonitori, sogni già sognati, sogni di altri… Tutte esperienze che esulano da ciò che si considera lecito.

F.G. Non so se il mondo onirico sia considerato non lecito, semmai è svalutato, liquidato come innocuo e ininfluente…

A.P. Esatto, innocuo e ininfluente, nel senso che il nostro mondo culturale non se ne fa un granché: quello che conta è il sonno ristoratore. Forse la causa è in parte da rintracciare  nel lascito della rivoluzione industriale: per poter manovrare un motore a vapore devi essere in una certa condizione psicofisica, perché altrimenti il motore esplode. Il modo della coscienza ha a che fare con il modo in cui si è articolato il nostro specifico mondo culturale.

Parlando ad esempio di coscienza e percezione del mondo, a mio parere è interessante il fatto che non conosciamo mai la percezione del mondo fisico di qualcuno diverso da noi. Tale percezione può essere concreta o effimera e potrebbe essere considerata collegata ad uno stato di coscienza presente e calato nella realtà o assente e dissociato. Tuttavia, per capire che cosa vuol dire essere presenti o assenti, occorrerebbe aver fatto l’esperienza sensoriale sia dell’uno che dell’altro, occorrerebbe aver sperimentato la differenza tra uno stato e l’altro, e il relativo passaggio da una forma all’altra di percezione del mondo. È da questa differenza  che si genera consapevolezza. Ad esempio, per chi si trova a esperire il mondo come inconsistente e incolore è il fatto di aver vissuto, in altri momenti, un’esperienza del mondo diversa – in cui il mondo è ricco, concreto e vivo – a mettere in risalto l’attuale esperienza e dunque fornire consapevolezza. È nello scarto che sta la consapevolezza. Nonostante tutto crediamo che tutti quanti abbiano più o meno la stessa percezione della realtà e che tutti noi stiamo più o meno nello stesso, piuttosto stretto, spazio di coscienza. Ma forse non è così. In ogni caso non lo sappiamo. Per abitudine definiamo tutto ciò che sta fuori dallo stato di coscienza in cui ci illudiamo di vivere come qualcosa che fa problema. Eppure è altamente probabile che, al di là della convenzione, molti di noi vivano con una certa costanza processi altri di coscienza senza neppure saperlo!

Per noi il processo di coscienza è qualcosa che si articola all’interno della persona. Se mi spavento, la paura è qualcosa che proviene dall’interno, dal mio sistema nervoso, e abita il mio spazio intrapsichico della coscienza. Lo spazio intrapsichico, in cui noi siamo culturalmente strutturati, non è sicuramente una costante universale umana. In Toscana, per dire, c’era un tempo lo “spirito della paura”, uno spirito che si incontrava ai crocevia. Al giorno d’oggi, incontrare uno spirito è considerato qualcosa di non ordinario, nel senso di illecito, mentre allora poteva essere un’esperienza illecita, ma in una diversa declinazione. Ora è uno stato illecito perché è uno stato non ordinario della presenza intrapsichica in quanto allucinatorio, allora era illecito nel senso che era preferibile non incontrare lo spirito della paura. Era lecito imbattersi in uno spirito, ma era preferibile non accadesse. Uno poteva incontrare la paura, poi venivano fatte delle cose per far sì che non rimanesse agganciato a quella paura più del dovuto. Oggi a nessuno passerebbe per la testa di fare una roba del genere, perché quell’esperienza non rientra nella gamma delle cose che è lecito sperimentare. Ne sperimentiamo altre che probabilmente non erano disponibili all’epoca, perché i mondi cambiano. Anche ciò che dicevi prima riguardo l’emozione è significativo. Una volta si poteva portare il lutto per tre anni, oggigiorno dopo un mese che stai male, se vieni intercettato da uno specialista, ti potrebbero essere prescritti gli antidepressivi. Dice l’adagio: la differenza fra un pazzo e una persona illuminata è che la seconda sa a chi dire ciò che le capita. Questa è un po’ una battuta, però è evidente che usiamo tutta una terminologia per raccontare il funzionamento diadico dello stato di coscienza ordinario e degli stati altri, ma senza descrivere né il campo dell’uno né il campo dell’altro. Ce la raccontiamo. Diciamo: ci mettiamo d’accordo che quello che succede dalla mattina alla sera, se non ci sono grossi problemi, è lo stato ordinario.

La sera vai a dormire e ti svegli al mattino, tutto quello che esce da ciò – strapparsi i capelli, piangere, urlare, avere gli attacchi di panico, vedere gli angeli, sognare qualcosa che accade dopo due anni – entra nel calderone della roba altra, che tendenzialmente releghiamo nell’ambito della patologia o della devianza: sei un tossico invece di uno psiconauta, un pazzo invece di un mistico, un depresso invece di una persona in lutto. Penso che questa dinamica abbia ristretto il campo di ciò che ci è possibile sperimentare in modo non problematico. Non è che vedere la Vergine Maria sia un’esperienza facile, però non è detto che sia psicopatologica.

F.G.  Oltre a ciò che viene considerato lecito o non lecito, dobbiamo considerare che il contesto in cui viviamo favorisce l’emergere di alcuni stati piuttosto che altri, li direziona.

A.P. Essendo un culturalista per me il problema non si pone: l’umano viene costruito, il mondo che accoglie un cucciolo umano lo fa perché funzioni in quello stesso mondo. Se in un dato mondo gli umani hanno sei anime, sei anime ti vengono cucite addosso; se ci sono sei modi diversi per gestire quelle sei anime, con altrettanti “stati di coscienza”, sei costruito in tal modo, senza che il passaggio da uno di questi stati a un altro rappresenti un particolare problema. Nascendo in un mondo, come il nostro, in cui esiste un’anima, o una mente, ti costruiscono perché tu abbia un’anima o una mente. Chiaramente le cose non sono così definite, l’umano mantiene una certa malleabilità e variabilità: in ogni mondo c’è una gamma di strutturazione all’interno della quale gli umani si muovono. Ogni mondo culturale prevede delle forme giuste di devianza, infatti anche essa è costruita, non è casuale: ciò significa che puoi avere un episodio psicotico o essere posseduto, a seconda dei mondi, e che i due stati non è detto che siano assimilabili dal punto di vista fenomenologico. In alcuni mondi puoi essere abitato da un’altra entità, non umana, e nel momento in cui ciò accade, non sei tu che stai esperendo qualcosa che in qualche modo ti appartiene (ad esempio dei pensieri, delle emozioni), perché non sei tu, e solamente nel momento in cui l’entità non umana se ne va ritorni ad essere tu. Possiamo dire quindi che se le forme in cui le società costruiscono gli umani sono diverse anche le possibilità e gli andamenti di quella che noi per comodità chiamiamo coscienza sia in qualche modo diversa. Dal mio punto di vista se una specifica popolazione non parla di coscienza non ci possiamo permettere troppo facili paragoni. Le riflessioni fatte su questi temi mi hanno portato a pensare ciò: i mondi culturali fanno umani diversi, che si immaginano diversamente i mondi degli altri, in base a una serie di elementi che gli impediscono di vedere realmente il mondo dell’altro. Quindi noi immaginiamo che l’altro culturale sia fatto in un certo modo, e possiamo offrirgli uno strumento di diplomazia, cosa che può fare anche l’altro. Possiamo, insieme all’altro, mettere insieme questi strumenti di diplomazia e provare a rendere il discorso più articolato, ma non possiamo permetterci di leggere con le nostre categorie i mondi degli altri. In quest’ottica affermazioni del tipo “lo stato di coscienza dello sciamano Shipibo” non sono valide, semmai dovresti chiedere allo sciamano Shipibo come nel suo mondo culturale viene inteso e chiamato quello che per noi è “lo stato di coscienza”. Per me tutto ciò è fondamentale e fondante. Il comparativismo sugli stati non ordinari di coscienza delle tribù native o dello yogi sono analogie che possono servire per guidare la nostra ricerca, o eventualmente possono essere offerte di pace, strumenti di diplomazia da negoziare con l’altro. Qualcosa che serve a noi per interrogarci sul nostro mondo. L’aspirina, l’inconscio e lo spirito hanno la stessa dignità ontologica, sono tutti invisibili, anche se noi siamo abituati a considerare l’inconscio invisibile e l’aspirina concreta, ma di fatto sono pezzi costruiti nel nostro mondo culturale che funzionano come oggetti culturali attivi: oggetti che fanno fare delle cose agli umani a seconda dei significati che assumono nell’intreccio della cultura. Anche l’aspirina presa e spostata in un contesto non industrializzato assume una funzione diversa da quella che può avere da noi, ugualmente prendi i djinn (spiriti del mondo islamico che possono possedere e far ammalare, ma anche portare dei “doni”) e li sposti dentro il nostro mondo e gli effetti saranno differenti da quelli del contesto di origine in quanto tutti questi sono oggetti culturali di mondi specifici, attivi in quei mondi.

Non posso quindi fare un discorso sui processi di coscienza mettendo in parallelo, se non per interrogare il nostro mondo, la psicoanalisi e la direzione d’anime del 1600. La direzione d’anime era il dispositivo attraverso il quale venivano guidate le persone nel loro percorso spirituale per sapere che cosa era lecito sperimentare, da un certo momento in poi veniva utilizzata per guidare le sante nelle manifestazioni mistiche perché non corressero il rischio di entrare nel territorio della possessione diabolica.  Non è appropriato paragonare, considerandoli ontologicamente identici, gli “stati di coscienza” delle sante del ‘600 a quello che può capitare a noi oggi con l’analista. Non possiamo sapere cosa capitasse loro perché non c’è nessuno che ce lo possa raccontare, mentre con qualcuno proveniente da un diverso mondo culturale posso aprire un dialogo, anche se non potrò mai sapere realmente come esperisce il mondo, cosa gli succede nel corso di un dato fenomeno. Si tratta di una questione di onestà intellettuale e di rispetto per l’altro, perché non so cosa succeda a una mukadmà gnawa durante la lila (uno dei ruoli su cui si basa il dispositivo rituale coreutico musicale terapeutico della lila), quello che posso dire è: “quando ti vedo in quel momento mi ricorda questo”. Ricordo molto bene quando se ne parlava con una collega mukadmà, lei diceva: “da bambina mi sono accorta che anche gli occidentali hanno gli spiriti, ma gli spiriti occidentali funzionavano in maniera molto diversa dai nostri, erano più rigidi, più selvaggi, pretendevano di più dai cavalli che cavalcavano”. Io posso dire qualcosa di simile quando vedo, in termini di stato di coscienza, qualcuno che ha una visione e appartiene a un altro mondo culturale. Io pratico un dispositivo gruppale, quello della respirazione olotropica, in cui le persone cambiano di stato di coscienza attraverso l’iperventilazione supportata dalla musica. Le persone vanno in un territorio che è diverso da quello che noi chiamiamo stato ordinario, però non posso dire che è lo stesso territorio in cui va qualcuno che ad esempio, come accade in alcuni mondi culturali, negozia con uno spirito che è nella sua famiglia da generazioni. Non lo posso dire, perché l’esperienza della respirazione olotropica è un’esperienza completamente diversa, costruita su noi, più o meno in occidentali e costruiti in questo mondo secondo le sue regole e in relazione con il sistema tecnico. Quello che posso dire è che, per averlo sperimentato e per vederlo sperimentare agli altri, le persone entrano in un territorio diverso e fanno delle cose, ma la nostra lettura è che quello che accade rientra nell’ambito del perinatale, cioè rievoca percorsi di nascita, momenti della gravidanza e del parto, oppure rientra nella memoria individuale biografica. Pensare di sapere dove vanno gli altri quando sembrano, per le nostre categorie, in uno stato non ordinario di coscienza è veramente supponenza: dove e come va l’altro culturale, te lo deve dire l’altro. Se non so come sperimenta l’altro il mondo e in che modo è stato costruito, ebbene sarà l’altro a raccontarmelo. Tuttavia, capisco la tentazione di cercare l’unificazione, dire quindi: “questa è la transe”, “questa è la possessione”, “questa qui è la comunione con Dio”. Capisco la tentazione, ma non la promuovo, non la cerco e non la rispetto.

F.G. Mi hai fatto venire in mente un incontro, con uno yenna stambeli [persona che ricopre il ruolo di guida del dispositivo tradizionale coreutico musicale di cura tunisino], il quale ci ha raccontato alcune delle cose che fa, delle logiche del rituale… e il suo focus non era mai sul, chiamiamolo, processo non ordinario. Il discorso non verteva su quello che noi chiameremmo stato di coscienza, suo o delle persone con cui interagisce all’interno del rituale, ma su altro: sulla storia del dispositivo, il contesto, le caratteristiche del setting, gli spiriti, gli strumenti, i colori… Altre cose insomma e quasi mai sulla forma delle soggettività presenti. Ho notato che spesso invece quando i ricercatori, studiosi delle accademie occidentali, si interessano a questa e altre tradizioni, il focus è appunto sullo stato di transe o di possessione.

A.P. In molti contesti l’importante è che la persona posseduta non lo sia più e quindi ciò che serve è la maestria che sa cosa fare affinché ciò sia possibile. Per poter fare ciò bisogna avere una serie di conoscenze, quindi può essere che sia più interessante per chi le custodisce raccontarle, in parte, piuttosto che stare a discorrere sull’ontologia degli stati di coscienza.

Una questione centrale per noi riguarda l’essere nella condizione di intendere e di volere, discorso trasversale che necessiterebbe di altri campi disciplinari, ad esempio la storia del campo giuridico. Il quesito centrale è “la persona, c’è o non c’è?” È lei che sta facendo questa cosa o non è lei che sta facendo questa cosa? Da questo punto di vista guardare alla disciplina psichiatrica è illuminante, in quanto a questa viene demandata la gestione delle persone che rischiano di fare delle cose “non essendoci”, questione centrale dal punto di vista del governo della popolazione. Molte delle nostre discipline sono strutturate come sono, perché basate sull’assunto culturale che la persona, il soggetto, è intrapsichico e il fatto che sia presente o non presente pone una serie di problemi di ordine morale, biomedico, giuridico. In altri contesti la domanda è: “sta agendo la persona o qualcun altro?”. Noi qui abbiamo due possibilità: possiamo essere nello stato ordinario, quindi capaci di intendere e di volere, fare delle scelte, avere uno stato giuridico, fare dei pagamenti, assolvere a delle funzioni, oppure non ci siamo, siamo in uno stato altro e quindi non funzionale. Per riformulare: se la persona nello stato che consideriamo ordinario può svolgere una serie di attività, quando non può farle, ci interroghiamo su “dove sia” e se sia in uno stato non ordinario. Possiamo quindi pensare a un legame fra la concezione del nostro mondo della soggettività e l’ambito giuridico che ci siamo dati. Sarebbe interessante confrontarsi con la mukadmà, col curandero, o con un medico tradizionale cinese rispetto alla centralità dell’essere in grado di intendere e di volere e confrontarsi su come viene intesa in quei contesti. Attraverso questo tipo di confronto puoi capire sia il focus dell’altro in rispetto a se stesso e il proprio contesto sia il focus che ha rispetto al nostro mondo. Può essere che per lui [lo yenna] la questione dello stato non ordinario, dell’essere in grado di intendere e di volere, non sia così dirimente per la riuscita del rituale. Potrebbe essere più importante saper cosa fare per evitare che ci sia una coabitazione problematica tra la persona umana e non umana, in un’ottica di addomesticamento, di gestione. In fin dei conti anche per la psicoanalisi la direzione da seguire andava verso l’addomesticamento dell’inconscio, però al giorno d’oggi la gestione attraverso la negoziazione non è la prediletta, si vuole eliminare, espungere quello che viene considerato come un sintomo, che sia l’innamoramento o l’attacco di panico. Questa eliminazione spesso viene risolta con la sedazione, che è una logica comprensibile, come se si cercasse con la forza di riportare la persona in uno spazio in cui è capace di intendere e di volere. Chiaramente oggigiorno nessuno lo farebbe con un sedicenne o una sedicenne innamorati, però il richiamo “smettila di perderti, di pensare a lui/lei, torna qua a fare i compiti” non è molto distante dai richiami che vengono fatti per altri territori di perdita, sicuramente più drammatici.

F.G. A proposito del discorso sull’innamoramento, e sul suo controllo, mi viene in mente 1984 di Orwell. Quello che crea una crepa nel sistema rigido della dittatura distopica è l’innamoramento tra i protagonisti, come se in qualche modo creasse una breccia.

A.P. Hai ragione, come se una struttura irrigidita venisse aperta da uno stato che, pur essendo considerato lecito, può facilmente sfociare nel non lecito.

Quello che stiamo dicendo mi fa anche pensare alla demarcazione fra stati spontanei e stati indotti. La distinzione tra questi anche da un punto di vista antropologico è piuttosto netta: ci sono stati che emergono spontaneamente e invece altri che vengono indotti intenzionalmente. Quello che ritengo sia interessante sottolineare è che tendenzialmente la spontaneità viene associata al disordine, mentre l’induzione viene considerata un’attività di risoluzione di quel disordine. Trasversalmente nei mondi culturali e storici vengono costruiti dei dispositivi per produrre processi di coscienza non ordinaria, che cercano di domare la comparsa di processi spontanei. Riguardo questo c’è anche un posizionamento politico da considerare, poiché più si restringe il campo degli stati leciti, più si allarga la possibilità che ci emergano stati non leciti. Vorrei ribadire che parlando di lecito e illecito non si intende legale e illegale: avere un attacco di panico non è illegale, ma non è lecito.

Nella mia esperienza nell’ambito dell’etnopsichiatria nella quale lavoro con psicopatologia e mondi culturali altri mi capita di osservare una variazione di quello che sta capitando alla persona con degli esiti sull’asse salute-malattia in termini che noi leggeremmo come psicopatologici. Queste variazioni spesso avvengono in maniera “spontanea”, intesa come determinazione culturale della devianza: in Italia nel 2025, puoi avere gli attacchi di panico, ma non puoi essere un posseduto.

F.G. Spontanea nel senso non indotta intenzionalmente dalla persona.

A.P. Spontanea nel senso che accade. Ogni persona è costruita per potersi manifestare nel disordine in una certa forma, da noi esistono gli attacchi di panico che si manifestano con una variazione della coscienza. Ciò che ritengo interessante è che venga associata la parola “spontanea” a qualcosa che accade come disordine e che dei dispositivi, tipicamente terapeutici – che sia la chirurgia o la contro-stregoneria – battano la stessa pista per far sì che quel disordine possa trovare una forma, ristabilire l’ordine, attraverso una variazione che questa volta è “indotta”. La persona viene quindi presa e lavorata affinché si apra “qualcosa”  e in quell’apertura possano avvenire dei processi con funzione risolutiva del disordine. I dispositivi con questa funzione possono essere i più disparati dalla respirazione olotropica all’adorcismo dello Spirito Santo.

F.G. Aggiungerei che anche la psicoanalisi, attraverso il lettino e le libere associazioni, apre a un processo non proprio “ordinario”.

A.P. Anche la psicoterapia in senso lato può essere che si muova in stati “altri”, però questo non è sempre dichiarato, esplicito. Mi chiedo quanto il processo che si attiva all’interno di una psicoterapia rientri o meno nel territorio degli stati leciti, perché per la maggior parte delle persone entrare nello studio dello psicoterapeuta non è troppo diverso dall’andare a fare le cose di tutti i giorni. All’interno del percorso psicoterapeutico, e del setting che gli è proprio, ci sono delle sedute che contengono una variazione significativa della coscienza, ad esempio quando emerge un forte stato emotivo, un ricordo improvviso, o il cosiddetto insight, o il paziente vive in maniera intensa il transfert sul terapeuta; in questi casi possiamo parlare di una variazione della coscienza significativa. Concordo che in alcuni setting questa variazione possa essere più accentuata che in altri, ad esempio pensando al setting psicanalitico classico: lettino e analista alle spalle sicuramente creano un processo diverso rispetto a stare vis a vis. Posso inoltre dire che nella mia esperienza come psicoterapeuta, molto spesso c’è una variazione dello stato di coscienza quando la seduta prende una nuova pista, quando del materiale specifico si affaccia o il paziente si predispone ad uno spostamento dall’assetto conosciuto: allora il mio stato di coscienza muta, acquisisce una variazione. La mia percezione della stanza si modifica, presto più attenzione ad alcune cose, sento vicinanza o distanza o ad esempio, in alcuni casi di esperienze di controtransfert significative, avverto una variazione della percezione fisica di me stesso. In un caso, agli inizi della mia carriera, ricordo che avevo questa percezione molto significativa per cui in alcuni momenti mi sentivo fisicamente molto più grande di un paziente, come se fossi diventato alto due metri e trenta o cinquanta centimetri e lui fosse diventato alto un metro e cinquanta. C’era una forte oscillazione, che adesso definirei come una variazione della coscienza, nei termini in cui ne stiamo parlando. Era una variazione, avevo una propriocezione diversa, mia e sua, netta, a seconda o del momento in cui lui entrava in uno splendore narcisista o al momento in cui cadeva nella mortificazione e nell’umiliazione. Però direi che la maggioranza delle volte in cui sei in una seduta, questa variazione è minima.

Il nostro confronto è partito dalle riflessioni rispetto al binomio stato/processo in riferimento alla coscienza. Considerando questa intrinsecamente processuale l’introduzione del concetto di “variazione” potrebbe essere un modo per lavorare sul tema evitando l’ontologizzazione, cosa che spesso, problematicamente, accade: quella parola, coscienza, diventa una cosa e forse non lo è, forse vale la pena pensarla come se non fosse una cosa. Recuperiamo l’aspetto processuale della coscienza superando le discussioni sui termini stato/modificato/alterato/ordinario… Consideriamo la coscienza un processo soggetto a delle variazioni che si muovono su un territorio demarcato dal binomio lecito/non lecito.

F.G. Binomio che chiama in causa la dimensione socio-culturale.

A.P. In ogni mondo culturale avvengono delle serie di variazioni, passano, accadono e non fanno problema. Esistono quindi delle gamme di variazioni che in un mondo culturale sono lecite, ma potrebbero non esserlo in un altro. Possiamo distinguere la gamma di variazioni del nostro mondo culturale, in quelle che sono contemplate e non fanno problema, quindi lecite, e variazioni che non sono contemplate e tendono a fare, più o meno, problema. Ci possono essere delle variazioni significative, a cui però non viene data molta importanza, ad esempio gli incubi, i quali sono spiacevoli ma raramente fanno problema, generalmente non elicitano risposte particolari e quindi quella può essere una variazione considerabile lecita. Ci sono poi delle variazioni spontanee illecite che quindi fanno problema e rappresentano una crisi e ci sono anche dispositivi il cui fine è costruire delle variazioni specifiche. Variazioni di coscienza significative le costruisce anche il corso di addestramento militare per paracadutisti, per essere paracadutista devi imparare a maneggiare delle variazioni di coscienza significative come ad esempio evitare di essere paralizzato dal terrore. Possiamo dire quindi che esistono dei dispositivi che hanno lo scopo intenzionale di gestione delle variazioni di coscienza, tra questi alcuni hanno una funzione terapeutica, rientrando nella gestione dell’asse salute-malattia, ma ne esistono altri riguardanti ad esempio la gestione dell’asse pace-guerra.

F.G. A partire da questo mi viene in mente un altro tema, quello dell’apertura di variazioni di coscienza con intento terapeutico nell’incontro con soggetti costruiti in un altro mondo culturale. Quando degli europei si rivolgono a dispositivi costruiti in un mondo altro che contemplano delle variazioni di coscienza come possono essere lo stambeli, lo yoga o le cerimonie di ayahuasca che succede? O ad esempio nel tuo caso: organizzi una sessione di respirazione olotropica e arriva un indiano cheyennes. Che succede in quell’incontro lì? Nell’incontro fra un dispositivo che contempla delle variazioni di coscienza, costruito in un certo mondo, con una soggettività di un altro mondo, che prevede, forse, delle differenze proprio rispetto al tema delle variazioni di coscienza.

A.P. Se sono in seduta etnopsicoterapeutica e arriva una paziente originaria del Marocco che è abituata ad essere posseduta, e io le propongo un lavoro psicocorporeo, che nella  nostra concezione è semplicemente di liberazione dai blocchi emotivi, lei potrebbe entrare in uno stato di possessione. Questo però riguarda che cosa faccio operativamente come tecnico specifico, cioè psicoterapeuta, all’interno di un dispositivo che contempla due possibilità di uscite dal mondo, di attraversamenti di soglia, e che tiene conto delle differenze tra un dispositivo autoctono in Marocco e un dispositivo psicoterapeutico in Italia. Questa è la questione cardine dell’etnoclinica. Che me ne faccio dei miei strumenti di dispositivo terapeutico quando ho davanti un altro costruito diversamente? È chiaro che se lo strumento contempla l’apertura di qualcosa, un attraversamento di soglia, una variazione di coscienza e come tecnico ho sviluppato competenze etnospecifiche per stare all’interno di un setting, quale ad esempio quello psicoanalitico, e mi capita una paziente che arriva dal Marocco, che viene posseduta, questo apre un interrogativo molto complesso. Sarebbe necessario aprire tutto un altro discorso che riguarda l’ambito dell’operatività tecnica, non della definizione del territorio. Il territorio è quello della variazione della coscienza. Rimane aperto, e solo fugacemente accennato, il territorio dell’operatività. Territorio che non andrei ad esplorare ora, questo è sicuro. Mi fermerei. Anche perché ora devo proprio fuggire.

 

Alessandro Pacco, psicoterapeuta psicocorporeo ed etnopsicoterapeuta, lavora come clinico, formatore e supervisore in vari contesti istituzionali e a studio privato. Il suo ambito d’intervento principale si trova nelle molteplici intersezioni tra processi espansi di coscienza, patologia/fisiologia, dispositivi clinici, mondi culturali e migrazione. Dal 2014 fa parte del Laboratorio Mondi Multipli del DISFOR dell’Università di Genova. Pratica la Respirazione Olotropica dal 2005. Facilitatore certificato GTT, dal 2016 coordina il collettivo respirazioneolotropica.org per la diffusione della Respirazione Olotropica in Italia.

Francesco Gottardo, psicologo e membro del Collettivo Trickster, interessato ai territori transfrontalieri teorici e geografici, fra soggettività, coscienza e incontro fra mondi. 

Parole chiave: coscienza, etnopsichiatria, mondi culturali, psiche