NEOTENIA – NEOETNIA Parte I
Un incontro con Georges Lapassade

di Nicoletta Poidimani
Dal dibattito su sciamanesimo e possessione come modificazioni degli stati di coscienza ai percorsi dell’underground: la neotenia come chiave di lettura dei processi di soggettivazione etnica nella metropoli
Scarica il pdf: Conversazione Lapassade Poidimani Parte Prima
Georges, qual è la continuità fra Il mito dell’adulto e lo specifico del movimento rap di cui ti stai attualmente occupando?
La continuità è semplicemente un interesse permanente per le culture giovanili che avevo già anche prima di studiare questo fenomeno, prima del Mito dell’adulto (Lapassade, 1971) che è stato pubblicato nel ‘63. Già nel ‘48 mi ero interessato molto alla parte giovanile dell’esistenzialismo, perché c’era un movimento forte a Parigi intorno al jazz, alle canzoni del momento… C’era una cultura che non era solo filosofia ma una cultura di canti, di musica di revival dixieland e attorno c’erano dei poeti giovani che vendevano dei piccoli libri di poesia, c’era un movimento di grafismo…
È stato un movimento. Negli anni ‘50, attorno al rock si è scatenata, sviluppata, un’autonomia della cultura giovanile che emergeva in quel momento sul piano mondiale, non solo musicalmente: non era solo la musica, era un’aspirazione. C’è stato il movimento hippie, ad esempio, nel ‘60 e ho indagato su questo, poi sui mods, sugli skins.
II rap non mi interessa solo come genere musicale, ma, in primo luogo, come movimento giovanile. Prima di interessarmi al rap, prima di studiarlo, con gli studenti del mio corso ci siamo occupati del movimento beur; questo movimento dei figli degli immigrati magrebini in Francia è stato molto forte negli anni ‘80 come rivolta politica, con i cortei fatti nelle strade. L’università nella quale lavoro si trova a Saint Denis, una città periferica di Parigi, una banlieue. Ci confrontiamo in continuazione con una presenza massiccia di figli degli immigrati neri e arabi non solo nella strada, ma anche nell’università stessa dove vengono come studenti: sono numerosi i figli di immigrati che si sono iscritti tre, quattro, cinque anni fa massicciamente all’università; sono presenti perché abitano in quella zona e la nostra università è più o meno la loro università e anche molti studenti che non sono del luogo ma che sono venuti a studiare in Francia vengono a Saint Denis, perché c’è una tradizione di accoglienza, di antirazzismo e di ascolto nei loro confronti…
Un’università interetnica, insomma? C’è mescolanza?
Completamente! E questo è molto importante per capire. Nel 1982-83 abbiamo cominciato a lavorare con una piccola radio locale, una radio universitaria gestita dagli studenti e anche da altri giovani… e hanno portato il rap immediatamente, perché il rap e questa cultura hip hop, il rap e i graffiti e la break dance, sono arrivati in Francia nell’82 e si sono installati nell’83 nella banlieue. II movimento è partito da Saint Denis. Nel libro sull’hip hop curato da Bifo (Berardi Bifo, 1992), c’è un articolo di Manuel Massenya, uno dei miei studenti, un meticcio. Lo conosco bene perché è venuto al mio corso e ho imparato molto con lui: è un “vecchio” – vecchio tra virgolette, perché ha 25 anni – è un old timer, perché è del primo hip hop. In questo articolo lui parla di Parigi nel 1980. Dice: “Parigi vive. Mentre le tendenze musicali mostrano stili eterogenei, le radio sputano una miriade di gruppi tutti ugualmente insignificanti, la musica anglosassone si vende bene, ma nessun artista riesce a distaccarsi dal gioco irresponsabile del “having fun”, e nessuno si indirizza comunque alla gioventù meticciata.
Gioventù che, nonostante i sospiri della classe politica, cresce sempre di più, ponendo il problema delle città e della crisi di identità dei figli di immigrati nati o cresciuti sul suolo francese. Come i nostri vicini di oltre Atlantico all’inizio del secolo, le città dormitorio costruite alla bell’e meglio si disgregano. Nel 1983 TF1 diffonde Hip Hop, una trasmissione di varietà, in cui si producono dei gruppi piuttosto strani, provenienti per lo più dagli USA, che portano nei loro bagagli un nuovo stile di vestito e di danza chiamato Smurf, Break dance, Electric Boogie o Body Poppin. Il presentatore, Sydney, un antillese di una ventina di anni, organizza delle lezioni e presenta dei graffitisti tra cui Futura 2000. Quando Afrika Bambaataa vi è invitato, è il vero big bang che dà un fondamento reale a quel che non era stato fino al momento che una distrazione senza scopo definito. Afrika Bambaataa importa Zulu Nation, i suoi principi e le sue regole, il suo codice d’onore teso a modellare un adolescente irresponsabile e pericoloso in un agnello dotato di una linea di condotto irreprensibile: non fumare, non bere, non bestemmiare… La Zulu Nation è ora una vera e propria organizzazione. Alla testa di ogni paese in cui viene impiantata, un re ed una regina locale, qualche volta più d’uno. Questi sono incaricati di reclutare il massimo di persone e debbono anche restare in contatto con la direzione newyorkese. Essere zulu in Francia è un titolo di nobiltà, un sentimento di appartenenza ad una certa élite. Tutto si presenta benissimo, i giovani affluiscono a centinaia, migliaia, per assistere alle trasmissioni. Ma la selezione era dura. Le sfide vanno bene, i gruppi con le coreografie più perfezionate si impongono. I cinema fanno il pieno alla uscita di Beat Street e di Break Dance 84. E poi, improvvisamente, senza spiegazioni, tutto si ferma. Quelli per cui l’hip-hop era divenuto una ragion d’essere, un modo di farsi valere, il solo movimento le cui parole d’ordine erano l’unità contro i flagelli (la droga, la promiscuità, il sovraconsumo, la violenza e soprattutto il razzismo) si sentono traditi. Scomparso questo centro d’interesse non resta che aspettare. Per qualche anno il rap “vegeta”.
Questo libro di Bifo parla di Los Angeles, di Los Angeles che brucia… Mi potresti dire cosa ne pensi della presenza del rap durante la rivolta di Los Angeles, presenza tanto biasimata e condannata dai mass-media?
Ma allora per il momento dobbiamo lasciare il discorso sui giovani…
Mi sembra che anche quella rivolta c’entri col nostro discorso.
Così come per molti anni in Francia il rap vegeta, forse anche negli Stati Uniti… Ma in Francia è ritornato molto più forte nell’89 e io l’ho capito indagando sulle difficoltà scolari degli immigrati della seconda generazione negli istituti professionali. Ho incontrato gente che faceva rap, che faceva i tags [firme stilizzate fatte sui muri con la bomboletta spray. N.d.A.] che, come sai, sono proibiti, e questo mi ha spinto ad interessarmi al nuovo rap, alla seconda andata del rap, e questo è collegato con i fatti di Los Angeles.
Perché?
Perché ci sono due movimenti in questo movimento hip hop: il primo, è un rap festoso, è multietnico… la Zulu Nation di Bambaataa… è pacifista…
Non-violento.
Sì, non-violento. Cosa curiosa: negli anni ‘60, nel ‘68, i neri avevano scatenato un movimento violento, ma un movimento violento politicizzato, collegato con gli altri movimenti internazionalisti. Erano internazionalisti, contro la guerra nel Vietnam, e volevano incontrare i movimenti “bianchi”. L’ho potuto verificare nel Québec nel ‘70: sono venuti a Montreal e volevano incontrare i militanti della lotta armata del Québec, il Fronte di liberazione del Québec, FLQ. Allora, in quegli anni, erano molto presenti nei Campus, nella rivolta studentesca di Berkeley… Poi questo movimento si ferma. Esce un primo rap, quello del Rapper’s Delight alla fine degli anni ‘70. Afrika Bambaataa, la Zulu Nation è del 1976 e in quel momento il rap è festoso: invita la gente a ballare, ad essere felice…
È una festa, insomma?
Sì, è una festa. Ma poi è venuto il reaganismo e in America si è accentuata la povertà dei ghetti, la segregazione. In quel momento, già nell’82, esce il messaggio di Grandmaster Flash [1] che è un poema molto profondo, molto bello, che parla della tragedia del ghetto, parla della miseria, della morte, della droga, del suicidio… di cose terribili! E questo ha prodotto progressivamente un ritorno dei rappers alla cultura delle Black Panters e dei Last Poets, che erano i poeti di questo movimento, poeti politicizzati, dimenticati prima: i Public Enemy nell’87 si ispirano al messaggio del Grandmaster Flash e dei Last Poets e passano da una descrizione sociale critica alla ripresa del messaggio politico degli anni ‘60, a Malcom X, ecc. Quello di Los Angeles non è un movimento come quello degli anni ‘60, delle Black Panters, è un movimento molto più concentrato sull’etnia nera, non ha uno sbocco internazionalista, esplode in un momento di riflusso della politica internazionale… Credo che Los Angeles sia come una transe, come tutti i movimenti spontanei di violenza metropolitani – o anche contadini, come la lotta di Thomas Müntzer – ogni movimento profondo, violento, di rabbia sociale è una transe, come abbiamo sostenuto anche nel L’Uníversité en transe (Lapassade, Boumard, Hess, 1987). Ma non ha la prospettiva di un progetto politico organizzato.
Qual è la forma di organizzazione sociale di Los Angeles, dei ghetti? Sono le bande, le gang, e non organizzazioni strutturate, con un’ideologia. Per il momento non si può dire che nelle bande ci sia l’indicazione per un futuro di maggiore socializzazione, di politicizzazione: questo è il momento delle bande, della violenza, ed il rap è l’espressione di questo.
Non significa, però, che il rap ha scatenato il movimento. Non lo credo. II rap lo accompagna, ne è l’espressione e lo ha anche anticipato con la sua descrizione del ghetto, ma non è lo scatenante, lo starter della violenza. Questo mi fa pensare al libro di Rouget Musica e trance (Rouget 2019), nel quale – contrariamente a quel ricercatore americano che diceva che la musica dei tamburi è induttrice di transe, porta alla transe la gente nei rituali – dice che la musica non è l’induttore, lo scatenante, ma l’organizzatrice della transe. Lo si vede nel tarantismo, come ha messo in luce Carpitella [2]: nella cura domiciliare c’è la musica e l’isteria si organizza come transe rituale; invece nella cappella di S. Paolo a Galatina, dove Carpitella ha registrato le urla e i pianti dei tarantolati, non c’è musica, non ci sono né chitarra né tamburi e allora è un’isteria collettiva, disperata. Ciò significa che il compito della musica è di organizzare. Ma a Los Angeles il rap non organizzava niente; è stata una transe… come dire… come a Galatina, ma non in casa, non come nella transe domiciliare. Non è stata una transe ritualizzata quella di Los Angeles, ma una transe della folla, una transe di massa, carne diceva Le Bon (2013) nel suo libro del 1895 sulla psicologia della folla.
Non è stata una transe strutturata, canalizzata. II rap non ha scatenato, a Los Angeles, la rivolta; non l’ha organizzata, ma è stato presente come discorso di primo piano sulla violenza etnica, sulla crisi nei ghetti…
Nel tuo libro (Lapassade, Rousselot, D’Onofrio, 1992) parli di un’etnia immaginaria. Che significa?
A mio parere è un po’ come l’Afrique Fantôme: il rap è una cultura della diaspora, come vien detto anche nel libro curato da Franco Berardi (Berardi Bifo, 1992), nel bel saggio di Federico Beliz, Tra Babele e Shashamane. Vi si parla della cultura reggae… non solo del reggae, anche di fenomeni più vecchi: del rastafarianesimo. Il rasta, il rastafari è quello che… è Hailé Selassié… ras Tafari è il nome di quel capo tribale del 1930 che si incoronò imperatore dell’Etiopia e prese il nome di Hailé Selassié. Questo articolo parla dei poeti della Giamaica e parla anche un po’ del rap, del reggae. L’interesse di questo articolo è nell’idea della duplicità di tutte le culture della diaspora, come si capisce da questo brano: “Si presenta dunque, fin da questo momento, l’alternativa tra un movimento a carattere fortemente urbano – intrecciato con le correnti più interessanti della cultura occidentale – e un movimento di rivendicazione della propria origine e di ritorno verso le radici e verso la madre Africa” (Beliz, 1992)… che è utopia! Questa è la parte utopica del rastafarianesimo: il ritorno in Africa!
Anche tu, nel tuo testo sul rap, parli di un’Africa immaginaria…
Sì, immaginaria!
Perché loro in realtà sono…
…occidentali!
… ma avulsi sia dal contesto della loro provenienza, sia da quello in cui si trovano a vivere qui, in Occidente.
Sì. Continuo la lettura: “Una duplicità che appartiene a tutte le culture della diaspora. Si pensi per tutte alla diaspora ebraica, perennemente lacerata fra la figura dell’ebreo errante – indipendente da ogni dogmatismo e da ogni integralismo – e la figura del ritorno alla terra promessa, che si manifesta come aggressività nazionalista e come integralismo religioso” (Ibidem). Questo è la duplicità, come dice lui, di tutti i movimenti, non solo di quello ebraico, ma dei neri, dei rasta, che da una parte sono nella world culture, world music, usano la cultura occidentale, il linguaggio occidentale e sono nel loro tempo, e d’altra parte hanno questa nostalgia dell’Africa madre, della bella Africa… che non esiste, che non è mai esistita perché c’è stato il razzismo, ci sono state le guerre tribali… Ma loro hanno una visione paradisiaca dell’Africa… è un’Africa immaginaria…
Vorrei precisare meglio questa ambiguità dei ragazzi del rap, dell’hip hop: un giorno, dopo il mio seminario, sono andato, come tutti i venerdì, a mangiare con tutti i ragazzi dell’hip hop che vengono al mio seminario, c’era anche Manuel Massenya, quello di cui abbiamo letto il saggio prima… Mentre eravamo a pranzo, a mezzogiorno, è venuto un ragazzo realmente africano – lui non è nato in Francia, è venuta in Francia a 22-23 anni per fare l’università – che è stato un militante del movimento studentesco francese dell’86, un leader, un delegato nazionale, eccetera… ed è un po’ rigido: quando è arrivato dove noi mangiavamo si è diretto verso un ragazzo seduto di fianco a me e gli ha detto “tu sei uno Zulu, con questo vestito stravagante… questa è esibizione… conosco bene questi zulu, mi danno un po’ fastidio perché dicono certe cose, sono aggressivi, non sono organizzati, fanno rumore inutilmente”; gli ha fatto un discorso molto ‘pesante’… Allora subito gli altri ragazzi gli hanno risposto “noi non parliamo con te, perché tu sei come i padri africani: autoritario…”. In quel momento rifiutavano l’Africa dei padri, dei genitori: erano europei, erano occidentali e volevano una libertà occidentale! E questo è un fatto, ma ce n’è stato un altro… In quella mensa universitaria dove stavamo mangiando, i lavoratori sono neri e alcuni sono studenti che ci lavorano per mantenersi agli studi. Questi non appartengono alla seconda generazione di immigrati, ma alla prima immigrazione, e organizzano in questo spazio della mensa, al sabato, delle feste comunitarie della Guinea, del Senegal… dei Paesi da cui provengono. Partecipano le donne con i loro bei vestiti, i ragazzini con i dolci del loro Paese…
Quindi sono feste tradizionali?
Tradizionali, sì. E abbiamo tentato di portare il rap. Non volevano! “No, no, no! – dicevano – Non è la nostra cultura!”. Mentre a duecento metri da lì, nella stessa università, c’era una serata rap alla quale loro non sono venuti. Si manifestavano, dunque, due culture: quella tradizionale di alcuni Paesi africani e la cultura rap. Ho avuto allora l’impressione – e questo è un ritorno al mio libro Il mito dell’adulto – di un rituale di passaggio.
Un autore poco conosciuto ma molto importante – Arnold Van Gennep – ha scritto nel 1909 un libro sul tema dei riti di passaggio (Van Gennep 2012) dove spiega che il rito di passaggio non è solo per gli adolescenti: ci sono altri riti di passaggio; anche i funerali sono rituali di passaggio: separano e riuniscono e fanno passare in un altro mondo.
Nel Mito dell’adulto uno degli argomenti è che non c’è un solo, un unico rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità: questa è l’idea comune, ma è errata. Van Gennep non dice questo. Dice che tutta la vita è un rito di passaggio, ci sono sempre dei rituali. Significa che per tutta la vita si passa! E non si passa ad uno stato adulto definitivo ad un certo momento della vita: si passa sempre. Ho l’idea che il rap funzioni per loro – non per gli americani, ma per questi ragazzi figli di immigrati in Francia – come un rito di passaggio per separarsi dalla cultura dei genitori – che è africana, e questo va contro l’utopia del ritorno… – separarsi, dicevo, ed entrare nella società occidentale. Non si tratta solo di ambiguità quindi, come dicono Bifo e Beliz. Quest’ultimo sostiene che questa ambiguità c’è sempre e anche Bifo vede questa ricerca dell’identità – inutile secondo lui – e della contaminazione con il mondo moderno… Credo che di fatto si rompa, si distrugga l’identità dei genitori – che è una sicurezza – e si entri in una problematica dell’identità che necessita di una costruzione sociale della nuova identità. E il rap – come prima il rock e tutti questi movimenti giovanili – ritengo sia la costruzione collettiva di un’identità che non coincide con quella proposta dalla società adulta e dalla società occidentale, ma nemmeno della società del Terzo mondo.
I figli di immigrati sono un’etnia, ma non un’etnia nel vecchio senso. I negrieri, i venditori di schiavi, operavano una mescolanza delle etnie per distruggere le etnie, le culture etniche e la possibilità di una ribellione etnica quando gli schiavi venivano portati in America. Veniva attuata una distruzione, e questo lo mostra molto bene Beliz. Ritorniamo a Beliz. “Quando i negrieri sequestravano gli africani sulle coste nigeriane o nell’entroterra, e li imbarcavano sulle navi che dovevano portarli, poi, nelle nuove terre per venderli come schiavi, durante il viaggio cercavano di mescolare fra loro gruppi africani di lingue diverse, in modo da impedire loro la comunicazione. Questo espediente continuava anche nelle piantagioni di cotone, in cui gli schiavi venivano costretti a lavorare. In tal modo la sola possibilità di comunicazione tra i diversi gruppi africani divenne l’uso della lingua del padrone, del negriero”. Ecco: questa non è più un’etnia; ma è etnia! Una nuova etnia. Una plurietnia che si fa etnia!
Non è più etnia nel senso razziale del termine…
Non lo è più nel senso localizzato. Non è un’etnia… come dire… Uolof… non è questo. Tutto si mescola e nasce un’etnia che si chiama ‘i neri americani’ o ‘neri del candomblé’. Sono etnie mescolate. Anche questi ragazzi di Parigi vengono dal Senegal e da altre parti, dalle ex colonie francesi, ma sono mescolati fra loro. È questa l’etnia immaginaria: un’etnia che non è un’etnia ma che è una nuova etnia, una tribù metropolitana.
Mi sembra interessante in quanto è aperto agli apporti di varie culture in realtà. Non è un’etnia chiusa… forse proprio per questo è immaginaria… nel senso che è incompiuta, è in continua dialettica con i nuovi elementi…
È incompiuta, sì. È un’incompiutezza come la neotenia. È una sorta di neotenia etnica… è una neoetnia!
Una neoetnia… un gioco di parole…
Neotenia, neoetnia… un gioco di parole, sì. Un rovesciamento di parole! Mi piace questa formula.
Il rap è la cultura della neoetnia neotenizzata. E la Zulu Nation è questo. È esemplare questo fatto della Zulu Nation, perché non è una nation nel senso corrente: Afrika Bambaataa ha deciso di fare proprio il mito, non è andato in Africa, ma l’ha preso dal cinema americano. Ha avuto l’idea vedendo un film americano sulla lotta degli Zulu; sapeva che uno dei capi di questa lotta si chiamava Afrika Bambaataa e così ha deciso di prendere questo nome come artista del rap.
Anche questo fa parte della nuova identità: è una ricostruzione, la scelta di un’identità immaginaria. Un’identità seconda, autoprodotta, come se dicesse “io ho deciso di chiamarmi non come hanno voluto i genitori – Lewis o chissà che altro nome americano… – no! Afrika Bambaataa è il mio nome, la mia nuova identità dopo questo rituale di passaggio”. Tu sai che nel rituale di passaggio si acquisisce una nuova identità… Dandosi un nuovo nome inventa e istituisce la Nazione Zulu internazionale, in cui ci sono ebrei, italiani… La Zulu Nation è un’etnia immaginaria, è una nazione mondiale, con anche dei bianchi che ne fanno parte. E, allora, uno strumento per costruire una nuova identità collettivamente – questo mi interessa dire – attraverso il rap, i graffiti, la break dance, la cultura hip hop.
Mi interessa vedere come si diventa adulti, se esiste un adulto Zulu o se invece questo movimento esprime il rifiuto di diventare adulto… Uno studioso francese, Jean Monod, ha scritto un libro, Le barjot (Monod, 1968), in cui è presentata un’indagine sui gruppi di blousons-noir degli anni ’60, che erano delle bande di Parigi. Questo autore dice che la banda non vuole preparare all’età adulta, ma, al contrario, è un riparo, un rifugio dall’adulto… come la mantagnata [nome della masseria di S. Foca, in provincia di Lecce, in cui si è tenuto un incontro nazionale dei gruppi rap italiani nel periodo di agosto-settembre ‘92 e al quale era presente anche Lapassade. N.d.C.]… Come la mantagnata è al riparo dal vento [secondo il suo significato dialettale. N.d.C.], la banda è al riparo dall’adulto, vuole stabilizzare l’età pre adulta. Credo che anche questo movimento hip hop sia contro l’idea della maturità borghese, ordinaria, occidentale. Questo non è quindi un passaggio alla maturità ma a una nuova identità da inventare. Per questo credo ci sia un forte nesso fra Il mito dell’adulto e questo mio lavoro sul rap e sull’hip hop. Non solo il rap come forma poetica e musicale, quindi, ma il rap come strumento di un movimento culturale giovanile.
Tornando ora alla mia domanda che tu avevi diviso in due parti, l’idea dello straniero-partecipante coincide con questa modalità?
Sì, è lo stesso. Avevo utilizzato allora, a mio modo, un concetto di Trotsky…
L’entrismo.
Sì, l’entrismo. Secondo Trotsky, il militante doveva entrare nei partiti comunisti stalinisti per modificare la lotta – che considerava riformista, burocratica – ma dall’interno, con una ‘maschera’, la maschera dello stalinista. Questa è una strategia decisa da Trotsky alla fine della sua vita e sviluppata dalla Quarta Internazionale. Ma questo non era il mio discorso, anche se era in collegamento con il concetto di rivoluzione permanente. Ho recuperato il concetto di entrismo in un senso ontologico…
…anche sociale!
Sociale e filosofico. Nella conclusione del Mito dell’adulto, il senso della parola entrismo è: “non entrare realmente ma far finta di entrare”.
Ed è anche questo: entrare nel mondo adulto che è un mito, il mito dell’adulto come un mondo che nessuno incarna. Nessuno è realmente adulto: si tratta di una costruzione artificiale.
Ti faccio un esempio: Luciano Parinetto, all’inizio di Corpo e rivoluzione in Marx, scrive: “Anche se si tratta solo di un esempio, l’affermazione marxiana che sesso femminile e sesso maschile sono entrambi un genere, una essenza non demistifica solo l’ideologia hegeliana, ma può servire a esorcizzare quell’ideologia, ancor oggi imperante, che, fissando i sessi in due ruoli irrimediabilmente opposti, fa della loro rigida maschera, storicamente e culturalmente specifica, un dato naturale, fondando, nel contempo, l’intolleranza, la repressione, la persecuzione e l’ostracismo nei confronti di chi, non adattandosi a quella maschera, risulta dunque, per essa, deviante, e perciò, contro natura” (Parinetto, 2015). Questa affermazione mi ha fatto pensare immediatamente al saggio di Garfinkel – fondatore dell’etnometodologia – su Agnès (Garfinkel, Sassatelli, 2000), una transessuale con cui Garfinkel ha avuto l’idea e l’occasione di parlare per 35 ore. Garfinkel aveva infatti il compito di parlare con questo ragazzo di 18 anni, come uno degli esperti di uno staff – dove c’erano l’endocrinologo, lo psicologo, lo psichiatra – come sociologo per sapere se Agnès fosse una donna o un uomo, prima dell’operazione. Garfinkel, prima di parlare di Agnès, fa un discorso su ciò che significa la distinzione tra maschi e femmine, che è diventato un testo classico della sociologia moderna. Rifacendosi al saggio di Schutz sulle realtà multiple (James, Schutz, 2006), dove si afferma che negli stati ordinari l’atteggiamento si chiama attitudine naturale, Garfinkel dice che per l’uomo adulto della nostra società esiste una distinzione fra maschi e femmine e che per l’uomo adulto della nostra società i valori del maschio sono questi, quelli delle femmine quelli ecc… Questa descrizione dell’opposizione dei due sessi è molto simile a quella di cui parla Parinetto. E questa è anche la storia di Agnès; lei non si considera contro natura, ma di natura femminile con un pene, un attributo maschile che per lei è solo una verruca, un incidente; non si considera omosessuale, ma donna. Allora vuole avere una vagina. L’etnometodologia di Garfinkel è una sorta di micro marxismo, perché l’idea fondamentale è quella della reificazione. Cioè, contrariamente a Durkheim – il quale dice che i fatti sociali vanno trattati come cose – noi sosteniamo che l’oggetto della sociologia sono complessivamente gli atti quotidiani, pratici, che ti fanno vedere che il mondo stabile è in effetti una costruzione permanente. Non c’è stabilità nel mondo! La stabilità del mondo è un’illusione, è una costruzione, è un’attività permanente per fare esistere un mondo come natura. Questo è l’argomento fondamentale di tutta l’etnometodologia.
Il mondo non è compiuto ma incompiuto….
Sì, dobbiamo studiare gli etnometodi, cioè i metodi ordinari usati per costruire questo mondo di stabilità… che non c’è! Anche noi nella nostra conversazione, adesso, stiamo costruendo un mondo. La conversazione finale sarà una struttura; sarà un fatto sociale questo incontro. Si può analizzare come fatto sociale, e questa si chiama analisi della conversazione. Anche l’idea dell’adulto è una costruzione sociale. L’opposizione fra adulto e non adulto come norma non è una norma reale, ma è costruita nell’interazione.
Garfinkel si interessa alla costruzione sociale della sessualità. Ad esempio, Agnès è stata educata da ragazzo, ha imparato le tecniche da ragazzo… ma lei si considera donna. Allora non deve far vedere che è un ragazzo. Vive con una ragazza reale, un’amica, tiene la contabilità come lei in un’agenzia e la sua amica non sa che è un maschio! Usa trucchi per non far vedere il suo sesso all’amica: vivono nello stesso appartamento e lei si comporta come una ragazza. Solo Garfinkel, i medici e la sua famiglia lo sanno; tutti gli altri no. Ad esempio, lei non sa cucinare ma in quel momento, nel 1950, una ragazza americana deve saper cucinare; come fare per imparare? Lei ha un fidanzato, Bob, e lui sa, ma la madre non lo sa, la considera la fidanzata del figlio perché è vestita da donna. La madre di Bob è di origine straniera e lei dice alla madre di Bob “so cucinare ma non conosco la cucina thailandese, voglio imparare da te”. Così Agnès impara anche la cucina americana. In altri termini, lei si fa etnografa. Deve osservare tutti i comportamenti femminili – il tono di voce, il movimento delle spalle – per essere donna perfetta, ma non come omosessuale; lei detesta gli omosessuali, lei si dice donna. Non si considera transessuale ma donna, con questo sesso inutile da sopprimere, da trasformare. A partire da questo, Garfinkel fa il discorso della non naturalità della opposizione dei sessi. Per lui, Agnès è l’esempio dell’esplosione della naturalezza, del fatto che i sessi sono delle costruzioni. Questa è la stessa conclusione a cui è arrivato Parinetto a partire non da Garfinkel ma da Marx.
Non è un episodio, una parentesi, è come il problema dell’adulto: l’identità è costruita.
Per tornare ai giovani figli di immigrati, si potrebbe dire che questi ragazzi sono transculturali. Come Agnès fanno vedere l’arbitrarietà dell’idea del bianco opposto al nero, delle razze, delle etnie. Fanno esplodere tutto questo. Lo stesso per l’adulto: l’adulto non esiste come natura. Ma dalla larva alla farfalla, questo è il modello! Questo è l’adulto! È natura, fa parte del mondo della natura.
Tu sei dell’idea che l’uomo abbia rotto con la natura.
Sì! È questa la neotenia. Non esiste la farfalla per la neotenia, ma solo la larva. Non si trasforma in farfalla, conserva la forma di larva e poi si riproduce come larva e diviene una nuova razza, un nuovo animale che non è l’animale adulto. L’axolòtl – che è simile ad un larva della rana – non diventa mai adulto. Questa è la neotenia…
… una situazione di passaggio, che non è pienamente natura né pienamente mondo umano.
Neotenia, neoetnia… Starebbe bene come titolo di questa intervista…
A proposito di questo discorso sulla neotenia: riprenderei il testo di De Martino La Terra del Rimorso (De Martino, 2023), in cui sono spiegate le fasi coreutiche della danza del ragno… Tu sai che prima la tarantolata imita il ragno, è il ragno, cammina come il ragno per terra…
…e poi si attacca alla corda… come il ragno al suo filo…
…alla ragnatela…
…al filo della ragnatela…
…e poi però diventa donna, ritorna nel mondo umano, non è più ragno nella fase successiva…
…ritorna ad essere donna, ma donna guarita!
Esatto. lo interpreto questo come una possibilità collettiva – c’è la collettività che partecipa – di ricongiungimento alla natura: questa donna è natura e fa parte anche del mondo umano. Anche lei non è ben definita.
Tu dici questo perché il ragno è natura, ma noi sappiamo che questo ragno è immaginario, non è natura. Si crede che le tarantole pizzichino, ma non è così. Tutto il discorso di De Martino dimostra che queste tarantole sono immaginarie, non sono le tarantole dei campi ma tarantole colorate che cantano, che ballano, che suonano: non è natura. La tarantola forse balla un po’ sul suo filo, ma non ha una musica preferita. Questa è un’invenzione, una mitologia come sostiene De Martino. È cultura, non è natura. È il contrario: è il rifiuto della natura. L’idea è che se la tarantata deve ballare è perché questo ragno, che è immaginario – una tarantola che non è la tarantola, che sta in un campo che non è un campo… – quando ha punto ha emesso un suono, che è la sua canzone, e ha voglia sempre di ballare questa musica. Per questo bisogna trovare, prima della terapia, il suono giusto.
Per esempio, in Marocco per gli Gnaua è la stessa cosa. Quando fanno la cura domiciliare dei posseduti, che sono pizzicati non dal ragno ma dal Gin, da un genio – anche la tarantola forse è un genio – il maestro, il capo dei gruppo musicale che suona uno strumento a tre corde, una chitarra africana, va a vedere la persona ammalata e canta con la sua chitarra i canti specifici dei Gin ed a un certo momento l’ammalata o l’ammalato reagisce. E allora dicono: è quello, è quel Gin.
Ho capito; individuano tramite la canzone quale sia lo specifico genio che possiede.
È la stessa cosa del tarantismo.
Però con il suono…
Con il suono. Due esempi. In Marocco si dice che il Gin abbia la sua musica specifica che fa parte della sua individualità, del suo carattere, della sua personalità, come ha anche un colore: nero, bianco, rosso…. Anche la tarantola ha un colore, è nera, è gialla,… Questo dimostra che il tarantismo entra nella mitologia, nel soprannaturale – che è il contrario della natura – nel mondo che gli sciamani vanno a visitare. Questa non è una identificazione con la natura. Il ragno nel sistema del tarantismo è una sopra- natura.
Riguardo al tarantismo, durante il seminario a Bologna, questa primavera, tu e Piero Fumarola avete parlato di ‘ballo giamaicano della taranta’ sottolineando, in questo modo, una radice di cultura popolare comune al rap e al tarantismo. Potresti spiegare meglio questo aspetto?
Si. Ma prima di tutto devo dirti che abbiamo molto discusso questo argomento quest’estate anche con Papa Ricky e con quelli del Sud Sound System. Per esempio Papa Gianni, che è un contadino, diceva che loro non hanno questa cultura contadina e che i genitori forse conoscono questi ragni… ma che le sue canzoni sono sul disagio dei giovani di oggi, della modernità, forse della metropoli… Un discorso contrario al nostro che credevamo di avere sistematizzato la loro condizione, le loro pratiche nella definizione di tarantamuffin. E loro hanno detto che questo collegamento con il tarantismo, con la ‘pizzica pizzica’, la tarantella, la musica locale, la terapia della tarantata, era inventata.
Queste critiche danno ragione a Rina Durante – una professoressa salentina specialista del folklore leccese e fondatrice dei gruppo folk Nuovo Canzoniere Grecanico – che ha detto, in un’intervista a la Repubblica, che questa idea del collegamento tra la ‘pizzica pizzica’ e il raggamuffin è un’invenzione di due universitari. Non diceva Lapassade e Fumarola, ma tutti possono capire che siamo noi. Quelli del Nuovo Canzoniere Grecanico fanno lo stesso discorso: dicono di essere radicati alla cultura contadina, anche grecanica, alla bella cultura salentina, ed è vero, mentre gli altri sono del reggae.
Sono una nuova etnia… un’altra etnia…
Sì, non è l’etnia salentina, è un’altra etnia. Questo ci fa vedere la complessità del discorso. Vorrei prendere una strada particolare per andare più avanti: in un graffito gigantesco al centro della mantagnata, era rappresentato un ragazzo dell’hip hop che uccide la tarantola, il che significa che l’hip hop uccide il ragno. Forse non la mitologia del ragno, ma realmente il ragno in quanto portatore del male. Ma non il ragno del tempo contadino; precisiamo allora quale ragno…
De Martino dice che nell’immaginario collettivo del tarantismo, nella mitologia della tarantola, se la tarantola non muore, il tarantolato continua ad essere malato; se lei muore di morte naturale o se la ammazzano allora è guarito. A meno che lei non dia la sua eredità ad una figlia che la conserva e fa continuare la malattia,
Per cui c’è il ri-morso…
…ed ogni anno si deve fare a domicilio la terapia per fare morire la tarantola. In questo documento, in questo graffito gigantesco al centro della mantagnata – simbolo di questa occupazione – la tarantola muore. Inoltre, Daniele Durante e Roberto Licci, del Nuovo Canzoniere Grecanico hanno prodotto due o tre canti, per esempio Possessione, o un altro che si chiama Cara Taranta, la cui “tesi” è che la taranta attuale è l’eroina, con la sua puntura, con la siringa.
Ed è più pericolosa perché può far realmente morire per aids o per overdose. Una differenza con la vecchia tarantola che invece era innocua. Nella Terra del Rimorso si sa che è un mito. Si potrebbe dire, con un po’ dì fantasia, che quel ragazzo dell’hip hop è un nuovo terapeuta, in quanto l’hip hop è nemico delle droghe pesanti, le denuncia. Per esempio T’a sciuta bona è una canzone dei Sud Sound System contro la droga pesante. Non ci sarebbe quindi un collegamento con la vecchia cultura contadina, ma una ripetizione ad un altro livello, che è quello della modernità.
Un’altra cosa che ci faceva piacere dire è che ci sarebbe una vicinanza ritmica tra la tarantella, la pizzica e il reggae. A Lecce e poi a Bologna abbiamo fatto un esperimento mescolando un gruppo di tamburellisti della tarantella tradizionale ed uno di reggae: hanno fatto musica insieme e ha funzionato. A Bologna, De Giorgi e i tamburellisti di Torrepaduli, hanno incontrato i Massilia Sound System, e hanno improvvisato con loro.
Concludendo, questa è l’ambiguità di cui parla Bifo: questo movimento è teso tra due poli, il polo del ritorno all’identità “etnica” e quello metropolitano verso la “musica mondiale”. Questa è la mia argomentazione. Non è molto chiara, forse, riguardo al raggamuffin, ma il punto attuale è questo. È una discussione aperta…
Mi viene in mente un fatto, a proposito dei rapporti fra il raggamuffin e il tarantismo: quando c’è stato il concerto in quella discoteca fuori Bologna durante l’ultimo seminario, ad un certo punto sul palco sono saliti i tamburellisti di Torrepaduli con i ragazzi che facevano rap…
Con i Massilia Sound System…
…ed hanno fatto questa jam session, tutti quanti insieme. Subito dopo, se ricordi, ti avevo detto che avevo notato– su me stessa innanzitutto e poi guardandomi intorno anche sugli altri – che quella musica non soltanto elettronica ma fatta anche con i tamburelli, ecc… – quindi una musica più diretta, meno mediata – ha coinvolto di più le persone che stavano ballando e in effetti c’è stato un momento in cui il coinvolgimento era a livello di transe. Però, d’altra parte, quando uno dei suonatori di Torrepaduli è sceso dal palco ed è andato in mezzo alla gente a fare la danza dei coltelli, nessuno è riuscito a riconoscere quello che lui stava facendo. Nessuno ha partecipato alla danza dei coltelli. Generalmente in quella danza comincia un uomo e c’è un altro uomo che viene coinvolto. ..
Nel Salento! Non a Bologna, perché non è la cultura locale.
Tu dici che era più per non conoscenza di quel tipo di cultura piuttosto che non…
Non può entrare chiunque a fare il protagonista della danza dei coltelli, perché è molto tecnica. La gestualità del ballo dei coltelli non si impara, non si può improvvisare, è un rituale. Come a Bahia c’è la capoeira che è un ballo molto maschile, dove si affrontano due uomini, non so se con i coltelli o con le spade, ma è dello stesso genere. E viene dall’Africa. Anche nella break dance, nell’ambito dell’hip hop, c’è un momento della sfida fra due che ballano insieme. A Torrepaduli non tutti fanno questi balli; sono zingari locali a farli. Si fanno vedere, sono orgogliosi di saperli fare. Ho visto un ragazzino di 13 anni che era molto orgoglioso di saper ballare la danza dei coltelli, e di fare questo mimo, questa simulazione con le mani. Come potrebbe una persona di Bologna che non ha mai ballato il ballo dei coltelli improvvisare? Chi lo ha fatto a Bologna veniva da Torrepaduli. Questa danza è un rito. E, questa è una mia convinzione, è un rito sciamanico.
Perché è sciamanico?
Ci sono due grandi forme di terapia, di transe terapeutica: lo sciamanismo e la possessione. Tralasciamo l’estasi, che è la terza. Le prime due, più famose, sono il contrario l’una dell’altro, Torniamo al tarantismo: la tarantata Maria di Nardó balla e si identifica con il ragno, è il ragno, vive il ragno e, come dice Rouget, la posizione è identificazione. Al sole e con il filo che cala dal soffitto: questa è la tarantata, è lei che balla.
A San Rocco i malati o le famiglie dei malati dormono attorno al santuario, fanno l’incubazione. Di sabato entrano nel santuario per implorare, per parlare: “fammi la grazia”, oppure “fai la grazia a mia nonna, a mio fratello che è malato, ecc. Fai qualcosa per loro…”. Non ballano. Contemporaneamente, la stessa notte sul sagrato della chiesa gli zingari al ritmo della ‘pizzica pizzica’ suonata dai tamburellisti locali, ballano il ballo dei coltelli.
Marius Schneider (1948), che è un musicologo, in un suo libro in spagnolo pubblicato nel 1948, citato da De Martino nella Terra del rimorso, diceva che gli sciamani ballano con la spada. E aggiungeva che, secondo lui, la danza delle spade è il secondo momento del rito di passaggio: il momento centrale che si chiama margine. Vieni messo in un luogo, per maturare il cambiamento ai margini della società; poi vieni riaggregato. Per questo secondo momento “al margine” forse non è una buona espressione; è un momento di transito, di passaggio, più o meno di incubazione… di transizione, il ballo delle spade avrebbe, in questo momento, il ruolo di inversione, sostiene Schneider: c’è il male? Si passa al bene. C’è una inversione.
Quando si balla la danza dei coltelli ci sarebbe lo scontro fra la malattia e la salute per invertire il destino. I malati sono nel male, devono uscire vivi da questa notte, sani, curati. Allora quelli fanno questo mimo, non in quanto ammalati ma in quanto sciamani che mimano la malattia degli altri, per superarla. È il contrario della possessione. Ma se nella possessione la posseduta mima il ragno, diviene il ragno, i danzatori mimano questa lotta cosmologica tra bene e male per conto dell’ammalato. È sciamanismo questa rappresentazione di lotta fra giganti. È interessante per la teoria della transe vedere che la stessa musica fa due effetti diversi. Lo sciamanismo e la possessione sono le due grandi figure della transe.
Più che effetti diversi sono degli usi diversi.
Degli usi diversi della musica.
Note:
[1] Cfr. https://ponderosa.it/artist/grandmaster-flash/ [2] Cfr. https://www.teche.rai.it/1978/06/possessione-la-taranta-salentina/
Bibliografia:
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Nicoletta Poidimani si occupa di teoria e pratica femminista e della connessione fra gli stati modificati di coscienza e l’utopia concreta. Ha collaborato con Luciano Parinetto all’Università degli Studi di Milano.
Georges Lapassade (1924-2008) è stato un filosofo, sociologo e antropologo francese, tra i fondatori dell’analisi istituzionale e pioniere dell’etnometodologia in Francia. Professore all’Università Paris VIII, ha studiato fenomeni culturali come il graffitismo, il rap e gli stati modificati di coscienza, con particolare attenzione alle culture nordafricane e afroamericane. Attivo anche nel campo della pedagogia e dell’educazione, ha promosso metodi di autogestione e intervento sociale critico.
Parole chiave: transe, neotenia, neo-etnia, sciamanesimo, possessione