Matteo Colombani, Eccedenza e individuazione, Sensibili alle foglie 2024

L’estratto che segue (riprodotto senza le note di approfondimento) ripercorre i concetti di apocalisse, erotismo e rivolta presenti nel saggio di Matteo Colombani, qua riordinati seguendo la traccia di La morte a venezia di Thomas Mann.

Nel fascicolo dedicato alle produzioni artistiche considerate sintomatologiche della congiuntura culturale della modernità, [Ernesto] de Martino campiona [anche] La morte a Venezia di Thomas Mann. Trattandosi di annotazioni, de Martino non fornisce un apparato analitico della novella, ma una selezione di quadri narrativi la cui esegesi in chiave apocalittica assume evidenza nei pochi commenti che legano tra loro i frammenti trascritti. Se all’interno della prospettiva demartiniana la loro incompletezza risulta arricchita dal quadro teorico di riferimento (l’apocalisse senza escaton, modello della nuda crisi), l’asimmetria di potere tra presenza e mondo intessuta nella trama di La morte a Venezia rende il racconto di Thomas Mann un documento elettivamente chiarificante anche rispetto all’argomentazione qui sviluppata.

Al centro della novella troviamo l’avventura di Gustav Aschenbach o von Aschenbach, l’insigne poeta di mezza età che de Martino descrive nei termini del “tipico rappresentante dell’ordine borghese, della coscienziosità e del controllo, della forma e dell’equilibrio, della accanita ed eroica resistenza al negativo della vita” (de Martino: 2019, 375). Un ritratto che inizia a deformarsi fin dalle prime pagine del racconto, quando Aschenbach, scosso dalla vista di una presenza insolita, scivolerà lentamente verso il regno negativo della vita contro il quale aveva sempre lottato, fino ad accarezzare il pericolo di smarrire la propria individuazione insieme al mondo nella sua oggettivazione mondana.

L’oscillazione dei valori nella vita del poeta è provocata dal gioco di sguardi che si verifica con un viandante dall’aspetto “fuor del comune” sotto i portici della sua città, Monaco di Baviera. Che fosse dovuto alla semplice aria da giramondo trasmessa dallo straniero o dall’influsso di qualche altro segreto a lui associato, da quel momento Aschenbach “s’avvide con meraviglia di uno strano allargamento del proprio animo, una specie di vagante irrequietezza” che lo accompagnerà fino alla fine della novella. “Vagante”, dunque, da intendersi nel senso nomadico dell’espressione, ovvero come irrequietezza priva di approdo. “Era voglia di viaggiare, nient’altro”, precisa Thomas Mann, “ma insorta come un accesso morboso, ed esaltata fino alla passione, anzi fino all’illusione dei sensi” (Mann: 1960, 12-13).

La vista dello straniero, dall’atteggiamento che “pareva quello di chi domina e sovrasta, ardito o addirittura feroce” – prima figurazione di una eccedenza indomita, di una presenza irriducibile al proprio mondo –, provoca in Aschenbach una visione dai tratti oracolari: “il suo desiderio divenne veggente, la sua fantasia, non ancora acquetata dopo le ore di lavoro, si foggiò un esempio di tutte le meraviglie e gli orrori della terra che in un sol tratto si sforzava di immaginare” (ivi, 13).

La descrizione del sogno a occhi aperti che segue nel racconto, vera e propria allucinazione nel senso divinatorio del termine, evoca un paesaggio dai tratti primordiali e lussureggianti, un altrove dalla consistenza insieme magica e mostruosa. Tra vapori tropicali, acquitrini melmosi e piante deformi, compare l’immagine di una tigre accovacciata, cifra iconica di un erotismo selvaggio, omoerotico suggerirà lo sviluppo della novella. Nascosta tra i tronchi nodosi dei bambù, la vista della tigre accompagna il ridestamento del poeta, il quale “sentì il suo cuore battere di spavento e di una smania misteriosa” (ibidem). Una tensione dell’animo da cui von Aschenbach non avrà più tregua.

Fonte di turbamento e desiderio al tempo stesso, l’episodio sopra descritto assume un valore sinottico anche secondo la critica di Massimo Fusillo, per il quale l’improvviso smarrimento del poeta “contiene in nuce, proletticamente, tutto lo sviluppo della vicenda”: un gioco di visioni, sguardi e turbolenze dominato dalla penombra di Venezia e dalla bellezza del giovane Tadzio, figurazioni di una torsione tra terrore e desiderio che si avvinghierà su se stessa fino al cedimento (Fusillo: 2006, 186).

La Venezia che prende corpo nel racconto, che si schiude allo sguardo di Aschenbach durante il viaggio in nave – nello specifico, “un vecchio vapore italiano antiquato, fuligginoso e tetro” –, è subito contrassegnata da una luce opaca, crepuscolare: “cielo e mare rimasero foschi e plumbei, ogni tanto cadeva una pioggerella nebbiosa, ed egli si rassegnò a raggiungere per mare una Venezia diversa da quella che aveva sempre trovato avvicinandosi dalla terraferma” (Mann: 1960, 30-34). La tonalità di grigi cui viene affidata la colorazione dell’orizzonte rimane prevalente anche dopo lo sbarco in città, condensandosi in affreschi funerei come nel caso della gondola:

Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su una gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai tempi delle ballate e così inusitatamente nera come di tutti gli oggetti di questo mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminose avventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla morte stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all’ultimo silenzioso viaggio. E si è osservato che il sedile di una tal barca, quel divano laccato di un nero funereo e rivestito di luttuose gramaglie, è il più morbido, il più voluttuoso, il più sfibrante del mondo? (ivi, 38).

La scelta di Venezia, d’altronde, rappresenta già una determinazione sulle tinte del viaggio: “Città vivente e morta al tempo stesso, la laguna, i canali putrescenti, le architetture rammemoranti una gloria storica ormai sepolta”; una città che, continua l’annotazione di de Martino, “così fasciata di morbide allusioni alla morte, è anche oggettivamente vulnerata dalla malattia” (de Martino: 2019, 376), preludio all’epidemia di colera che avanzerà insieme alla precipitazione dell’influsso erotico, divenuti entrambi ingovernabili sul finire del racconto.

A tracciare la geografia degli sguardi e delle perturbazioni di Aschenbach tra i canali e i vicoli di una Venezia destinata a svuotarsi per la diffusione del contagio, si impone la bellezza del giovane Tadzio: forestiero a sua volta, ospite dello stesso albergo, egli diventa la figurazione prediletta di quell’“impulso alla fuga”, di “quel desiderio giovanile di avventure e di lontananze” da cui dipende l’intera parabola veneziana (Mann: 1960, 107) Attraversato da uno slancio erotico senza precedenti, Aschenbach allenta le maglie della sua ordinarietà sbilanciandosi verso nuove individuazioni, ora svincolate dalle griglie sessuali e carrieristiche alla cui impalcatura morale si era sempre sentito in dovere di sacrificarsi: “La solitudine, il paese straniero e la felicità di un’ebbrezza tardiva e profonda lo incoraggiavano e lo persuadevano a permettersi senza paura e senza vergogna le cose più sorprendenti” (ivi, 91); come quando, incalzato dal parrucchiere, si lascia correggere il viso con tinture, creme e rossetto, inebriandosi di giovinezza fino a crollare per sfinimento tra le calli della città:

Eccolo lì il maestro, l’artista dignitoso, l’autore del Miserabile, che in una forma di esemplare purezza aveva condannato la vita zingaresca e il torbido dei bassifondi, abiurato ogni simpatia per gli abissi, riprovato il riprovevole, colui che era salito così in alto, che, superato il proprio sapere e liberatosi dall’ironia, si era abituato a considerarsi impegnato dalla fiducia che ispirava alle masse – Gustav von Aschenbach la cui gloria era ufficiale, il cui nome era stato nobilitato e il cui stile era proposto a modello nelle scuole, eccolo lì seduto a terra, con le palpebre chiuse; […] e le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parole staccate del discorso che il suo cervello intorpidito compone con la strana logica del sogno (ivi, 115).

Il racconto si conclude con la morte di Aschenbach in una Venezia abbandonata dai turisti per l’aggravarsi della pestilenza, prima tenuta nascosta, ora di pubblico dominio. L’ultima visuale del poeta, ormai accasciato sulla spiaggia con l’espressione “di chi è caduto in un sonno profondo”, cattura ancora una volta il corpo di Tadzio, il quale gli parve che verso di lui sorridesse, che “gli facesse cenno; che, staccando la mano dall’anca, gli indicasse l’orizzonte lontano, lo precedesse aleggiando nell’immensità piena di promesse” (ivi, 120). Gustav von Aschenbach, commenta de Martino, compie così il suo destino:

l’evasione dalla forma e dal destino e dal valore, la fuga dall’opera dello spirito fermo e dignitoso, il disperato amore per l’immagine del bel giovinetto, la lotta devastatrice contro il tempo e la vecchiezza, l’insidia del dio straniero e la tentazione del caos, e infine la morte davanti all’ultima immagine del giovinetto, nello sfondo di una città malata che ha anch’essa preso coscienza della mortale insidia che covava nel suo seno (de Martino: 2019, 377-378).

[…] Nella sezione di La fine del mondo dedicata al racconto di Thomas Mann, viene riportata una citazione di La morte a Venezia che nella veste editoriale del volume non risulta virgolettata, come se fosse opera dello stesso de Martino. Quali che siano le motivazioni, l’indeterminatezza delle stesse risuona nel contenuto citato, nella prospettiva dodecafonica, plurale e dissonante racchiusa al suo interno, mimeticamente rappresentata dalle seguenti parole:

Perché alla passione, come al delitto, non s’addice l’ordine stabilito e il benessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogni turbamento e flagello del mondo le torna gradito perché può sperare vagamente di trarne un vantaggio (Mann: 1960, 87 e de Martino: 2019, 376-377).

Il contenuto espresso indovina un’incandescenza tematica che arde silenziosamente sotto l’intera parabola veneziana e che, al pari del tizzone scappato dalla brace, scotta la superficie del racconto aprendo una fessura sull’asse portante dell’impianto narrativo: la frizione tra l’istituzione di un ordine e il possibile che in esso viene trattenuto, confiscato. 

La minaccia alla normalità veneziana, alla sua ordinarietà intesa come architettura di potere, sfugge dal principio all’iniziativa umana: non già provocata dall’azione di qualche sodalizio sovversivo, essa è la diretta conseguenza dell’insidia della pestilenza, ovvero dell’epidemia di colera. Nonostante le differenze, morbo e sovversione hanno spesso condiviso gli stessi domini.

[…] Dal punto di vista analitico è nell’opera di Michel Foucault che il rapporto tra morbo e potere, tra contagio e sovversione viene indagato nelle sue implicazioni più critiche. Dietro l’adozione delle misure anticontagio, l’autore rintraccia e cattura delle corrispondenze biopolitiche, forme specifiche di governo (dispositivi) il cui denominatore comune risiederebbe nell’organizzazione dei processi di soggettivazione, determinando i territori del desiderio e del possibile. Nel terzo capitolo di Sorvegliare e punire, il volume che raccoglie l’indagine sul dispositivo disciplinare, Foucault interroga la peste a partire dai regolamenti previsti dalle autorità locali alla fine del XVIII secolo, disvelando i sogni contrapposti che dietro tali prescrizioni si racchiudono (Foucault: 2014, 213-218).

Secondo il polo dell’autorità, la peste disegna il sogno politico di una città suddivisa in zone dettagliate, sorvegliate da ispettori che controllano le strade, spiano gli interni delle case, chiedono conto della salute di ognuno, aspettano al varco i trasgressori; un modello in cui “il potere si esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito tra i vivi, gli ammalati, i morti” (ivi, 215).

Secondo il polo degli irregolari, la peste catalizza il sogno proibito di una festa collettiva dove le leggi sono sospese, gli interdetti rimossi, il tempo consumato freneticamente; uno spazio composto da “corpi che si allacciano irrispettosamente”, da individui che si tolgono e mettono le maschere, “che si smascherano, che abbandonano la loro identità statutaria e l’aspetto sotto cui li si riconosceva, lasciando apparire una tutt’altra verità” (ivi, 215-216).

Dietro i dettagli delle prescrizioni sanitarie, argomenta Foucault, non si nasconde solo la preoccupazione del contagio, ma l’ossessione dei contagi, “della peste, delle rivolte, dei crimini, del vagabondaggio, delle diserzioni, delle persone che appaiono e scompaiono, vivono e muoiono nel disordine” (ivi, 216).

Il sogno politico di una città setacciata dall’autorità e il sogno proibito di una libertà senza vincoli delineano una contrapposizione prospettica che Domenico Scalzo rinomina “il doppio sogno della peste”. Conteso all’ombra di un ideale medico e poliziesco che si allunga sulle relazioni tanto immaginarie quanto reali della vita collettiva, il doppio sogno della peste, scrive l’autore, “[svela] come il potere biopolitico, lo stato di sicurezza, nato per far vivere e respingere nella morte, sia tenuto in ostaggio dal gioco del rimosso seppellito nell’inconscio delle discipline, cioè dal fantasma che la peste divenga una festa, che il terrore si trasmuti in libertà, e l’ostilità in un’ospitalità senza freno e leggi, ai limiti della licenza e dell’illegalismo” (Scalzo: 2020, 396).

Un affresco disperato e perturbante la cui eco risuona nella torsione tra terrore e desiderio incorporata nella disposizione d’animo di von Aschenbach, il quale non desistette dal mantenere “un’attenzione tenace e indagatrice agli avvenimenti poco puliti che si svolgevano in città, a quell’avventura del mondo esterno che confluiva oscuramente con quella del suo cuore e alimentava la sua passione di vaghe speranze senza legge” (Mann: 1960, 92-93).

Il riferimento riguarda la diffusione del colera di cui Aschenbach è ormai al corrente, mentre ai più continua a rimanere nascosta per scongiurare l’allontanamento dei turisti dalla città. Un silenzio che il poeta stesso, seppure entro un contrappunto di riserve morali legate all’individuazione che precede il suo stato di ebbrezza, sceglie di assecondare nella speranza che tale sinistro possa così diventare il detonatore della sua vertigine onirica:

Bisogna tacere! – sussurrò con energia. E: – Io tacerò! – La coscienza della sua complicità, della sua connivenza lo inebriava come piccole quantità di vino inebriano un cervello già stanco. La visione della città colpita dal flagello e abbandonata a se stessa, confusamente vagheggiata dalla sua mente, accendeva in lui speranze inconcepibili, che disobbedivano alla ragione ed erano mostruosamente dolci (ivi, 107).

La vertigine di Aschenbach, protratta con “dura lotta” nonostante le avversità prevedibili (ivi, 64), indovina un inviluppo dell’individuazione nell’ordine sociale che rende il declino di quest’ultimo un requisito indispensabile per la trasformazione della prima: Tadzio e von Aschenbach non possono innamorarsi perché l’ordine stabilito non lo prevede; parimenti, non potrebbe sussistere un crollo dell’ordine finché l’individuazione non rompe il suo principio: l’ordine non precipita proprio perché il desiderio tra Tadzio e von Aschenbach non prende corpo. Un’aporia dell’erotismo che solo un colpo di scena avrebbe potuto rovesciare; un capovolgimento che in La morte a Venezia non può però avere luogo, impedito all’origine dall’insidia della pestilenza, la quale sequestra preventivamente “il vantaggio connaturato al turbamento dell’ordine sociale” ipotecandolo di morte. Ecco allora che il ruolo giocato dall’epidemia nella struttura del racconto si manifesta in tutta la sua ambivalenza: forma in cavo della vera sovversione, essa rappresenta al tempo stesso il grimaldello e la sicura dei rapporti di potere, abbastanza per forzare la serratura, non sufficiente per scardinare il cancello. Solo una presa in carico del turbamento sociale avrebbe potuto scorporare il disordine dalla pestilenza, creare una possibilità svincolata dalla morte […], ora incalzata verso nuove configurazioni, verso la possibilità della rivolta. […] Sottratta alla narrazione, la rivolta sfugge alle trappole della memoria e del sacrificio; le sue possibilità rimangono inespresse, a disposizione.

Riferimenti bibliografici

De Martino, E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Giordana, F. Daniel, M. Marcello, Einaudi, Torino 2019.

Foucault, M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. di T. Alcesti, Einaudi, Torino 2014.

Fusillo, M., Il dio ibrido. Dioniso e le Baccanti del Novecento, Il Mulino, Bologna 2006.

Mann, T., La morte a Venezia, tr. it. di R. Anita, Einaudi, Torino 1960.

Scalzo, D., La festa crudele. Foucault e la peste, in Id. (a cura di), Vivere il tempo che uccide, Argalia, Urbino 2020.

Matteo Colombani è laureato in filosofia. Le sue ricerche spaziano dall’antropologia culturale alla teoria critica. È parte del collettivo Trickster e autore di alcune monografie, tra cui Lo spettro di Dioniso nell’underground. Prolegomeni a una trance contemporanea  (Mimesis, 2020).
Parole chiave: apocalisse; erotismo; rivolta; Ernesto de Martino; Thomas Mann; Venezia