Materialismo Magico.

Una conversazione tra Gruppo Ippolita, Jessica Murano, Martu Palvarini, Arianna Forte.

 

L’intervento qui proposto è la sintesi di un cerchio di discussione svoltosi all’interno dell’evento Alleanze dei Corpi, il giorno 21 settembre 2024. Tre relatrici sono state invitate a discutere del materialismo magico a partire dall’omonimo testo di Stefania Consigliere, pubblicato da Derive e Approdi nel 2023.

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Gruppo Ippolita

Sono felice di essere qui alle Alleanze dei Corpi e ringrazio la direttrice artistica Maria PaolaZedda che ci ha invitatate e introdotte, ma anche Francesca Marconi e Barbara Stimoli che hanno curato la sezione Transmateria, senza le quali non si sarebbe potuto organizzare questo momento così particolare. Io sono Hanay Raja del gruppo Ippolita. 

La cerchia di discussione prende il nome Materialismo Magico da un libro che è una bella collettanea curata da Stefania Consigliere dedicata alla svolta ontologica in antropologia che ci ha molto ispirate e che trovate disponibile nello stand della Libreria Antigone, che ringrazio per la presenza e la selezione di libri davvero molto ampia che attraversa tutto il discorso, diciamo, del Nuovo Materialismo Femminista un tema che è fondativo di queste giornate di festival. Allora, sono qui con tre ospiti assolutamente d’eccezione.

Alla mia sinistra Jessica Murano, che è una storica della medicina e della psichedelia. Poi Marta Palvarini, designer di giochi di ruolo. E Arianna Forte, che è una curatrice d’arte. Abbiamo chiamato a rimestare nel nostro calderone queste tre streghe. 

Ieri c’è stato un raid aereo su Beirut da parte degli israeliani, nel pensare a quella sponda del mediteraneo mi è venuta in mente una grande dea che si chiama Tanit, un’antica del Libano, della Libia, di Tunisi, ha un’ origine fenicia. Se la cercate, Tanit ha un simbolo molto particolare. Un’amica lesbica libanese l’aveva tatuata sulla mano e mi diceva che molte ragazze lesbiche in Libano usano il simbolo della dea Tanit per riconoscersi a vicenda. Questo modo sincretico di risignificare le grandi dee del passato è uno dei modi in cui io intendo la relazione tra il politico e il magico: come potenza simbolica che ci aiuta a impoterarci da un punto di vista femminista. Quando si parla di magia, di culture sapienziali, di sciamanesimo, ma anche di pratiche di cura alternative a quelle della medicina ufficiale, i nostri ambienti antagonisti sono sempre un po’ restii all’ascolto e alla  considerazione reale di queste pratiche e di questi saperi anche se le pratiche somatiche alternative siano assolutamente contigui all’ambiente culturale che attraversiamo. Ma non vengono legittimate attraverso il discorso pubblico e collettivo. Questo dipende dal fatto che la nostra cultura antagonista di estrazione socialista, libertaria, marxista con tutte le sue sfumature, ha abbracciato sostanzialmente il pensiero positivista, quindi un certo tipo di razionalità strumentale. Invece abbiamo bisogno di pensare anche la razionalità in un altro modo e questo è solo uno dei perni della questione perché c’è anche la necessità di emanciparsi dall’indottrinamento della Chiesa Cattolica perché ci ha lasciato delle cicatrici indelebili e ancora oggi dobbiamo lottare perché la cultura catto-fascita di questo paese non prenda il sopravvento sulla vita delle donne e delle persone queer. Purtroppo abbracciando il positivismo abbiamo scelto di bollare come superstizione tutta la cultura sapienziale, ancestrali, che non solo è costituisce una strada verso il  buon vivir, ma anche perché forse è uno dei modi possibili per disinnescare il realismo capitalista. Il magico e le forme del magico sono un possibile antidoto all’iperrealtà che ci soverchia, anche attraverso i prodotti di consumo dell’informatica commerciale. Da qualche anno ormai si parla di nuovo materialismo femminista, complice certamente la pubblicazione di Chthulucene di Haraway che ha rilanciato il tema.

Si tratta di una critica femminista e postumana che mette in discussione le scienze sia da un punto di vista più epistemologico, cioè dei limiti della conoscenza scientifica, ma anche da un punto di vista ontologico, quindi anche dal punto di vista dell’Essere del mondo. E fa di questa materia come dire, non un’oggettività abrupta, inerte, ma una materia vibrante, per citare un’altra del nuovo materialismo Jane Bennet; una materia che è assolutamente forza vitale, processuale, possiede movimenti propri, riconoscibili, che si depositano e che diventano forme della materia. In questo senso non c’è una separazione netta fra organico e inorganico. Tutti i fenomeni naturali sono dei fenomeni relazionali, cioè cambino a seconda degli aspetti che noi mettiamo in gioco con la materia. Questo darsi di una materia così immaginata è associato spesso al monismo spinozista, ma anche al tao, al panpsichismo, l’animismo… Ma quando si parla di questa materia vibrante la si inquadra dell’ambito filosofico, magari anche in maniera politica, ma certamente è raro che venga associata alle culture, come diceva ieri Amanda Pigna, originarie; con l’aspetto del divino dentro di noi o del rapporto con il sacro. Sarebbe interessante invece cercare un ponte tra nuovo materialismo femminista e svolta ontologica in antropologia.

Con le nostre relatrici di oggi proveremo ad accorciare un po’ le distanze col desiderio di fare un po’ di immaginario, perché una delle cose che è venuta fuori dalle nostre riunioni preparatorie è anche la necessità provare a cercare le parole per reincantare il mondo. 

Andiamo alla ricerca di mondi altri, da abitare qui e ora, non una comfort zone del consumo culturale, ma una sottrazione attiva e politicizzata, una diserzione in cui costruiamo forme di contronarrazioni: l’esperienza psichedelica, il gioco, le streghe affaccendate intorno al calderone delle tecnologie, sono veri e propri atti di resistenza ai protocolli del raziocinio produttivista che stiamo assumendo anche attraverso l’uso delle tecnologie della sorveglianza. Detto questo, consegno la parola alla prima delle nostre ospiti.

Jessica Murano

Vorrei prima di tutto ringraziare Hanay per aver organizzato questo cerchio di dialogo. 

Mi presento brevemente: sono una storica della medicina e mi occupo da qualche anno di psichedelia. La psichedelia all’interno della storia della medicina si comporta come una sostanza che a me piace definire dissidente. Gli psichedelici hanno questo potere, generano degli effetti che non sono inquadrabili nel nostro modo razionale di intendere il mondo. La medicina, in particolare, si poggia nella sua struttura, o meglio, il paradigma biomedico si poggia nella sua struttura su un grande dualismo fondativo del nostro pensiero, che è il dualismo mente corpo, che però, a cascata, porta con sé tutta una serie di altri dualismi che hanno delle importantissime ricadute a livello politico e a livello legislativo. Sto pensando alla dicotomia normale/anormale, equilibrio/squilibrio, dentro/fuori, droga/farmaco.

Tutte queste dicotomie strutturano la nostra idea di medicina e di cura. Il Rinascimento Psichedelico di cui si parla da ormai qualche anno, ha come obiettivo la legalizzazione degli psichedelici al fine di utilizzare gli stessi nella cura della salute mentale. 

La medicina occidentale però, intende il corpo umano come lo intendeva Cartesio, quindi come una macchina, in cui il malfunzionamento di una parte di essa va ristabilito prendendo in considerazione il sintomo e non la causa che genera il problema. É proprio in questo frangente che gli psichedelici si comportano, come prima dicevo, da dissidenti. Perché? Perché generano degli effetti -come ad esempio l’esperienza mistica e spirituale- che non possono essere misurati dagli strumenti del metodo scientifico attuale, e questo ha portato alla comparsa di studi che a me fanno sorridere, ma che fanno emergere argomenti di riflessione importanti, legati alla possibilità di misurare quantitativamente l’esperienza mistica. O si cerca quantitativamente di misurare l’esperienza della morte. E questa cosa è interessante perché va un po’ a mettere in discussione il metodo scientifico stesso, che non è il più oggettivo, non è il più esatto, non è il metodo migliore per conoscere la realtà. È uno dei tanti modi che noi conosciamo per dare un nome alle cose, per classificarle. In tal senso volevo portare oggi in questo cerchio di discussione uno studio condotto da Helen Longino, una storica della scienza femminista americana. La studiosa ha lavorato negli stessi anni in cui sono emerse le teorie di Donna Haraway, e ciò che ha tentato di fare Longino è stato di chiedersi se e come fosse possibile introdurre all’interno del metodo scientifico le istanze emerse dalla lotta e dalla teoria femminista. La ricerca di questa storica è stata trentennale, e non ho lo spazio e il tempo per spiegarla nel dettaglio, ma una cosa interessante che emerge dai suoi scritti è la decostruzione del concetto di oggettività. 

L’oggettività è un concetto che è andato a costruirsi progressivamente con la strutturazione del metodo scientifico, ed è cambiato con il passare del tempo. Lorraine Daston e Peter Galison hanno pubblicato un libro nel 2009, dal titolo Objectivity, in cui hanno ricostruito la storia di come questo concetto sia emerso nel Settecento e abbia visto la sua completa maturazione nell’Ottocento, quando si cristallizza con le caratteristiche che oggi noi conosciamo: ciò che è reale deve essere misurabile, e se non è tangibile deve quantomeno essere descrivibile. L’oggettività per la scienza non è soltanto un ideale epistemico a cui tendere, ma è anche l’atteggiamento che gli scienziati devono avere nei confronti del loro oggetto d’indagine: devono epurare il proprio punto di vista ed essere il più oggettivi e più imparziali possibili quando osservano i loro dati.

Interrogandosi proprio sulla relazione tra gli studiosi e i propri oggetti di studio, Longino avanza questa proposta: anziché cercare di epurare lo sguardo dello scienziato da qualsiasi forma di soggettivismo, che è una cosa impossibile, la scienza potrebbe procedere in maniera opposta e contraria, ovvero prendere consapevolezza di quali sono i pregiudizi che guidano le teorie, sia a livello individuale che collettivo. 

Ciascuna persona che lavora nell’ambito della ricerca ha delle credenze, dei valori, dei desideri che guidano la propria pratica scientifica. Prendendo consapevolezza di quali valori e quali pregiudizi guidano le teorie di ciascuno, si potrebbe giungere a quello che Longino chiama il momento di critica trasformativa. Un momento in cui la comunità scientifica si rende conto di quali sono gli impliciti del proprio discorso e quindi tenta di creare una teoria che possa contenerli, rendendosi conto al contempo del valore politico e civile della scienza. In questa prospettiva i dissidenti assumono un ruolo fondamentale perché sono proprio loro a mettere a prova gli assunti impliciti sui quali una teoria si fonda. In questo senso secondo me è interessante pensare alla psichedelia non come a uno strumento che viene sussunto nel metodo scientifico ma, al contrario, come un dispositivo capace di rendere problematiche le dicotomie di cui prima si parlava: se lo psichedelico non è una droga e non è un farmaco, allora cos’è? Qual è il suo potere generativo?

In questo senso, credo che gli psichedelici si comportino un po’ come il trickster. Io faccio parte di un collettivo che ha scelto di chiamarsi Collettivo Trickster e che si occupa di stati non ordinari di coscienza. Abbiamo scelto questa figura perché, tra le figure dei miti e delle religioni, il trickster è una figura ambivalente: può essere uomo, può essere donna, può essere animale, può avere tratti antropomorfi. Incarna la contraddizione, incarna l’ambivalenza, incarna il paradosso. È Eshu nella mitologia Yoruba, è Loki in Scandinavia, può essere Eris o Dioniso nella mitologia greca. Il trickster fa saltare la logica tradizionale e quella del pensiero unico. 

Abbiamo pensato a questa figura quando ci siamo chiesti che cosa significhi per noi studiare gli stati non ordinari di coscienza, ponendoci anzitutto il problema di che cos’è uno stato di coscienza. Quest’ultima locuzione è stata creata negli anni Sessanta da uno psichiatra che si è chiesto quali sono i fattori che vanno a influenzare l’emergere di uno stato di coscienza, ed è stato formulato a partire da un’idea molto fissa della coscienza, immaginata come “qualcosa” che avviene nella mente. Quando pensiamo a uno stato alterato di coscienza, a una persona fuori di sé, immaginiamo qualcosa che succede in un processo mentale. 

La nostra prospettiva parte dal presupposto per il quale più che a “stati di coscienza”, ci troviamo davanti a dei transiti, a dei movimenti, delle fluttuazioni in cui viene mobilitato l’intero organismo. É quello che i filosofi chiamano una cognizione incorporata, cioè significa che tutto l’organismo, insieme alla rete di relazioni culturali ed ecologiche, procede nell’immersione e nell’emersione di quelli che appunto noi chiamiamo stati di coscienza. A mio avviso, lo psichedelico è uno dei tanti strumenti cui poter accedere a uno stato di coscienza alterato. Tuttavia, credo sia interessante indagarlo perché ha un potere generativo che permette di abitare, non di pensare, ma di abitare, delle forme di realtà differenti. Utilizzo il termine “abitare” contrapposto a “pensare” perché quando assumi uno psichedelico lo assumi attraverso il corpo. E quindi è in primo luogo una sensazione, una percezione, un’impressione. Proprio perché attraverso il corpo permette di accedere a delle dimensioni di realtà diverse da quelle abituali, proprio lo psichedelico ci può aiutare a compiere quel processo di decolonizzare la realtà di cui ha parlato tanto Rachele Borghi in Decolonialità e privilegio, ma di cui ha parlato tanto anche Federico Battistutta, che fa parte del nostro collettivo, quindi l’idea che il colonialismo non sia solo un colonialismo degli stati occidentali verso gli altri stati ma che ci sia un colonialismo della mente, dei corpi, del tempo libero. E per decolonizzarci sono possibili delle pratiche in cui abitiamo dei mondi altri. Mi piacerebbe un po’ chiudere con una citazione di Foucault di quando si trovava nella Death Valley sperimentando con l’LSD, che diceva dobbiamo cercare di fare del principio di piacere un principio di realtà. Credo che questo sia un invito molto grande a giocare e a sperimentare con forme di realtà alternativa.

Ippolita

Grazie, grazie davvero.Un po’, ho una domanda subito, perché volevo chiederti se ci spieghi che cosa sono le sostanze enteogene.

Jessica Murano

Enteogene è una bellissima parola che significa che genera il divino internamente ed è una locuzione che è stata creata da degli etnobotanici in realtà alla fine degli anni 70’, quando si trovavano a studiare le piante medicinali e i funghi, e quindi si riferiscono con questa parola a tutte quelle sostanze che sono capaci di indurre una connessione spirituale o una connessione con il divino, appunto.

Ippolita

Grazie. vedo tantissime connessioni. Ieri Angela Balzano parlava dei trickster e ne parlava citando Haraway, parlando in particolare dei virus, perché Haraway definisce i virus proprio dei trickster, contrabbandieri che trasferiscono DNA da un regno all’altro. I virus sono degli esistenti materici, questa è un’altra parola fantastica che è venuta fuori ieri, che riescono a transitare da un mondo a un altro e quindi un po’ questo mi richiamava al ragionamento che tu ci stai proponendo. 

Andiamo avanti con il secondo intervento.

Martu Palvarini

Qualche doverosa premessa per entrare un po’ nel tema che provo a portare. Innanzitutto io mi occupo di gioco analogico, quindi gioco non digitale, dal gioco da tavolo, al gioco di ruolo, all’escape room, a tutto quello che è l’ARP, ovvero il gioco di ruolo dal vivo. Sono degli ambiti che, in qualche modo, rifiutano il digitale per un motivo molto specifico, che è quello della chiarabilità. Il digitale è difficilmente accerchiabile, i codici sono proprietari. Qui mi aggancio al discorso di Ippolita, delle culture tecniche, tecnologiche e i discorsi che si fanno, perché invece tutti questi altri giochi analogici sono liberamente accerchiabili e portabili in campo da chiunque. Basta un foglio di carta, basta mettersi attorno a un cerchio di sedie e chiacchierare. Questo in realtà è il potenziale del gioco analogico. Prima premessa. Seconda premessa, che forse è quella che più si interconnette con questa visione del materialismo magico. Cos’è il gioco di ruolo? Come si può parlare di gioco di ruolo? Forse qualcuno di voi conosce quella che è l’improvvisazione teatrale. Ci assomiglia? Non proprio. Alcune persone lo definiscono, è come il gioco che si fa da bambini e bambine, facciamo finta che. Non è proprio neanche questo. Nel gioco di ruolo si interpretano dei personaggi in uno spazio immaginario seguendo delle regole specifiche che determinano la nostra potenzialità d’azione, quindi l’agentività del personaggio all’interno dello spazio immaginario. Questo è fondamentale perché la regola è importante, determina la possibilità di agire su quello spazio che altrimenti diventa semplicemente uno spazio in cui ce la stiamo raccontando. E perché la regola importante ulteriormente si interconnette con il materialismo magico? Perché spesso è determinata dall’oracolo. L’oracolo è il tiro di dado, il pescaggio di una carta, qualcosa che va a determinare una casualità, qualcosa che va a definire uno spazio di impossibilità e poi di declinazione del possibile, che poi va reinterpretato a livello narrativo.

Ci facciamo, in qualche modo, influenzare dal caso per narrare delle storie che ci devono sfuggire di mano. Quindi, per assurdo, la regola ci permette di deragliare. La regola ci permette di andare in stati di coscienza alterati, a tutti gli effetti. È molto interessante anche tutto il piano di ragionamento sulla questione anti dualistica, della rottura del dualismo, perché c’è un approccio all’interno, sono vari livelli di dualismi che sono stati imposti a tutti gli effetti, soprattutto nel gioco di ruolo occidentale, perché esiste anche un gioco di ruolo non occidentale, che è tutta un’altra materia molto interessante, che parla di altri luoghi, altri confini, su cui magari entriamo poi nel dettaglio più tardi. Il gioco di ruolo occidentale va a definire due livelli di dualismo. Uno è quello del dentro-fuori, dello spazio di gioco e reale. Il cerchio magico, che prima citava Hanay, è in realtà nient’altro che tutto completamente derivato dalla teorizzazione di Huizinga in Homo Ludens.

È un testo del 1938, quindi stiamo ancora parlando di cose molto vecchie, siamo proprio molto molto indietro. Per quanto sia estremamente interessante Huizinga, è ampiamente criticabile. Proprio perché va a definire uno spazio sacrale. Uno spazio che è quello del cerchio magico che va a definirsi come uno spazio altro rispetto alla realtà. Quando si gioca di ruolo invece, la realtà si affronta in maniera molteplice, costante. Si abbraccia il pensiero harawaiano: come l’immaginario che andiamo costruiamo costituisce in potenza nuove realtà. La cosiddetta sci-fi speculativa, la fantasia speculativa, la possibilità di immaginare luoghi che sono in realtà fortemente interconnessi con il reale.

Se pensiamo e giochiamo soprattutto il mondo futuro, stiamo immaginando effettivamente il futuro perché ci stiamo basando sul nostro attuale presente per immaginare il futuro. Questa cosa già è potentissima. In più c’è un altro livello che è quello del rapporto tra personaggio e persona giocante. Questo rapporto è estremamente definito all’interno del gioco e spesso si tende a dividere completamente i due soggetti. Il personaggio è una cosa, la persona che lo gioca è un’altra.

Molto spesso al tavolo da gioco ci sono persone che dicono “ il mio personaggio agirebbe in questo modo io invece agirei in quest’altro”. È affascinantissimo. Perché effettivamente vai a creare un dualismo quando il personaggio che stai muovendo è il tuo avatar, sei tu che stai decidendo come farlo muovere, come fa esserci una divisione reale? Dall’altra, però, il tuo personaggio esperisce cose che tu non esperiresti.

Per questo si è coniato, in realtà traslandolo dal teatro, il termine bleed. Un processo che, per descriverlo in maniera più facile possibile, è come quando si mettono i panni bianchi con i panni colorati in lavatrice. Il panno bianco è il giocatore, la giocatrice, la persona giocante. I panni colorati sono invece il personaggio. Quando finisce il processo di lavaggio, quando finisce il gioco, le due cose sono completamente rimescolate. Si sono bleedate, si sono macchiate tra loro. Tra l’altro è interessante che il termine sia proprio bleed, perché poi se si pensa al free bleed capiamo come si possano aggiungere dei livelli politici, di genere e di rivendicazione molto forti, e rivendicabili da tutta una parte di persone che giocano ed esperiscono il gioco che hanno un pensiero estremamente progressista.

In questo punto, in questa costante condivisione tra persona giocante e personaggio, abbiamo una completa distruzione di quello che è il concetto di reale e la sfera del reale. Se mi alzo dal tavolo dopo aver interpretato uno sbirro, facciamo un esempio, mi sentirò in un certo modo. Se mi alzo dal tavolo dopo aver interpretato una rivoluzionaria, mi sentirò in un altro modo ancora. Questo processo è effettivamente un processo di contaminazione assoluta, che è molto difficile da trovare in altri modelli di gioco. Per questo porto il gioco di ruolo come esempio cardine, perché andiamo a parlare di, a tutti gli effetti, processi quasi magici. Se torniamo sul discorso di cos’è un personaggio, è interessante vedere come ci sia una costante riduzione al numero dei corpi da parte del gioco di ruolo occidentale. Perché? Cosa significa?

Quando parliamo di gioco di ruolo occidentale viene subito in mente Dungeons & Dragons molto noto, il più noto, infatti è in mano ad un’azienda multinazionale di miliardi di dollari, e ovviamente c’è un livello di capitalizzazione abnorme su quel gioco nello specifico. Soprattutto quel gioco però che ha impostato tutto quello che è una scuola, una teorizzazione, un modo di giocare, riduce tutti i personaggi a un insieme di caratteristiche numeriche che vanno a definire quelle che sono le regole nella realtà. Esiste invece una controscuola che va a decostruire questa riduzione provando a strutturare attraverso parole chiave la descrizione di un personaggio. Proviamo a decostruire completamente questo rapporto col numero senza per forza rimuovere l’oracolo, senza rimuovere per forza il dado come casualità.  Perché dobbiamo dire che un personaggio è intelligente 9? Cosa vuol dire Intelligente 9? Cosa stiamo dicendo? Qual è il bias che stiamo applicando? E qui si rapporta anche con quello che è il pensiero scientifico, il razzismo all’interno del gioco di ruolo.

Ci ricordiamo un’edizione, appunto, proprio di Dungeons & Dragons degli anni 90, dove le donne, i personaggi donna erano meno forti degli uomini, proprio a livello di regolamento. Il regolamento non permetteva a una donna di essere più forte di un uomo in un mondo in cui si uccidono draghi. Crolla tutto, no? Di cosa stiamo parlando?

Perché questa cosa dovrebbe avere un’attinenza? Perché c’è un discorso di simulazionismo. E ancora una volta il simulazionismo è una volontà di strutturare la realtà. Se io tiro un colpo di spada così, è diverso dal tirare un colpo di spada in un altro modo. Questo è molto interessante perché abbiamo tutta questa nuova scuola di gioco di ruolo, da ormai vent’anni a questa parte, che invece ricostruisce completamente questo approccio. Ci sono giochi che parlano di identità mostruose, teenager, che in realtà parlano di parallelismi con la queerness, il coming out e l’outing, la possibilità di vedere il proprio personaggio che è il classico, la classica teenager americana, che però in realtà è un lupo mannaro che fa un massacro nella scuola. È interessante perché è un parallelismo con la queerness. Cosa vuol dire questa cosa?

Abbiamo un gioco di ruolo italiano che mi sento di citare, perché è di un caro amico, che si chiama Stonewall 1969. Stonewall è un gioco serio: non uccidiamo i draghi in un universo che non possiamo immaginare, ma è un gioco in cui si piange, in cui si sta male, in cui si abbraccia la possibilità di subire, attraverso il personaggio, la violenza della polizia, la violenza di una cultura patriarcale, omofoba e terrificante come quella degli anni Sessanta negli Stati Uniti. E in questo è molto magico, è un grande calderone di rimescolamenti. Quello che mi interessa ulteriormente dire, e forse aprire poi anche sulla parte successiva, è che nel gioco di ruolo si costruiscono costantemente mondi.

È una costante rottura del canone, una costante distruzione di quello che è l’immaginario percepito. Un immaginario che proviene da culture molto specifiche.

Per esempio, la possibilità di riscrivere completamente Lovecraft e tutti i miti di Cthulhu, significa riappropriarsi di una narrazione razzista degli anni ‘40 e capire quali di queste narrazioni tenere e quali è possibile operare una riappropriazione, una riscrittura, proprio perché è un approccio, antiescapista. È un approccio che ci permette di non sfuggire dalla realtà, non negare la realtà, non dividere l’opera dall’autore, tutt’altro. Abbracciamo questo conflitto, stiamo in questo conflitto terrificante in cui proviamo invece a metterci in discussione costantemente e riappropriarci di quello che può essere un immaginario costruttivo.

Ippolita

Vi introduco la nostra terza relatrice che è Arianna Forte che è arrivata da Roma, è una curatrice d’arte indipendente e ci parlerà un po’ del rapporto tra femminismo e tecnologia in una chiave che ancora una volta è quella del magico. Prego.

Arianna Forte

Grazie Hanay.
Anche io mi presento, passando all’esplorazione di un altro mondo legato al magico.
Sono una curatrice d’arte indipendente, studio il rapporto tra femminismo e tecnologia e al momento sto indagando, grazie al contributo dell’Italian Council, le pratiche artistiche che definisco “rituali computazionali e tecno-scientifici”.
Vi propongo di entrare nello specifico di alcune di queste pratiche per esplorare le declinazioni del materialismo magico, rievocando la figura della strega che a mio avviso diventa uno strumento anti-egemonico potente per navigare i sistemi tecno-scientifici.
Partiamo da una cosa semplice: chi sono e chi erano le streghe? Un insulto, un’accusa ma anche un archetipo politico molto forte. La strega è colei che indichiamo come praticante della magia e dell’esoterismo. È diventata anche una buzzword, cioè una parola che ritorna all’infinito, cooptata dall’industria culturale, dal fantasy e da Disney. Se per alcune di noi il riferimento alla studiosa Silvia Federici è un po’ scontato, io la cito sempre perché per me è fondante. Mi ricollego ai suoi studi sulla caccia alle streghe, allo sterminio di genere che è avvenuto in tre secoli in Europa, condannando e uccidendo, si stima, più di centomila donne, e non solo donne: al rogo erano mandati gli omosessuali e in generale i “deviati” rispetto all’ordine eteropatriarcale e tutti coloro che erano connessi all’universo cosiddetto femminile.

Coloro che venivano considerate le streghe erano lo stereotipo di ciò che è arrivato a noi, cioè le persone che facevano una vita diversa da quella della comunità di allora, quindi persone anziane, lesbiche o con una sessualità non conforme o semplicemente persone che praticavano quella che può essere considerata una cura della comunità attraverso dei saperi che venivano dal basso e dall’esperienza diretta attraverso il corpo, che si contrapponevano con i nascenti saperi scientifici della modernità che era in arrivo. Quindi avevano una conoscenza sia dell’ambiente e inevitabilmente delle tecnologie. Erano figure che avevano una connessione interspecie molto forte, infatti nelle rappresentazioni le si vede spesso accompagnate dal famiglio, che era l’animaletto che per gli inquisitori diventava il diavolo. Avevano un ruolo molto forte nella società.
Quimera Rosa, un gruppo di bio-artiste e bio-hacker che rivendicano la connessione della figura della strega nella loro pratica, affermano “Las brujas no son mujeres”, ossia che le streghe erano qualcosa di più che semplici donne, ma coloro che detenevano un potere (sociale, politico, epistemologico) e che erano veramente le persone più high-tech della loro epoca: avevano delle conoscenze che potevano condividere e quindi erano molto più avanti, da un certo punto di vista, delle pratiche scientifiche e tecnologiche. E le rivendicavano.
Silvia Federici, d’altro canto, ci dice che in quel periodo storico chiunque fosse identificata con il femminile ha iniziato a diventare una strega, nella direzione di un vero e proprio sterminio di genere. Perché per preparare un ordine corporeo, culturale e poi alla fine economico differente, che è quello del capitalismo, tutto ciò che veniva connesso con il femminile diventava stregonesco e quindi prendeva un’accezione negativa e doveva essere eliminato per preparare l’ordine del mondo moderno, in cui ciò che è improduttivo, magico e sovversivo non doveva avere spazio: togliendo potere alle donne, che erano le prime che storicamente hanno avvocato rivolte per le terre comuni, separando uomini da donne e il lavoro produttivo da quello riproduttivo, per assicurare il disciplinamento del corpo femminile all’interno dell’ordine capitalista. Questo è quello che dice la Federici, ma che si ricollega poi a tutti gli studi sul processo di disincanto di cui hanno parlato in tantissimi, tra cui anche Stefania Consigliere, che abbiamo preso come madrina della tavola rotonda. Questo processo di disincanto è consistito nel togliere agentività a tutto ciò che non è considerato umano, spazzando via le relazioni simpatetiche tra macro e microcosmo, a una razionalizzazione e meccanizzazione dell’epistemologia e alla preparazione dell’ordine progressista, moderno e capitalista in cui viviamo. Ordine che adesso sta iniziando a fare acqua da tutti i buchi dopo tre secoli.
E la conseguenza qual è stata? Una addomesticazione della figura della donna, una commodificazione del suo corpo, che deve essere dedicato al lavoro di cura gratuito, necessario per la famiglia mononucleare, e una limitazione di tutte le sue libertà, conoscenze e della sua posizione sociale. E quindi anche la distruzione di un mondo, il mondo magico. Latour si riferiva a questo processo parlando della “grande divisione” tra natura e cultura, mente, spirito e corpo, la grande separazione dei grandi dualismi cari a Cartesio, di cui abbiamo già ampiamente parlato. Così si arriva a quello che la Consigliere indica come una reductio ad unicum, quindi l’idea della riduzione a un mondo unico, che è quello egemone, occidentale, capitalista, che è diventato poi colonialista, maschio, specista, ecc. È l’unico modo che la modernità accetta, negando in assoluto tutte le altre possibilità.

Questo è il presupposto per introdurre White Feather Hunter, bio-artista che ha concluso da poco un PhD presso SymbioticA, l’unico dipartimento di bioarte che esiste nel mondo ed è all’Università del Western Australia. Utilizza la figurazione della strega e della stregoneria per navigare i sistemi dell’ingegneria dei tessuti attraverso lo sviluppo di una pratica di laboratorio basata sul corpo e sulla performance. Il suo progetto di ricerca si chiama The Witch in the Lab Coat, ossia “la strega in camice da laboratorio”, l’immagine che lo rappresenta è emblematica: consiste nella fotografia del suo camice da lavoro bianco ma con una bella e fiera macchia di ciclo mestruale, a contestare l’idea di sterilità della medicina e dell’oggettività dell’ambiente del laboratorio. Anche per lei la strega diventa un framework per navigare la scienza in maniera anti-egemonica.
Uno dei suoi progetti più interessanti si chiama Mooncalf, riguarda la sua ricerca sulla creazione di un siero estratto dal sangue mestruale dal quale riesce a sintetizzare cellule staminali endometriali. Sfida quelli che sono gli stereotipi della scienza e del laboratorio, utilizzando bio-materiali come il proprio sangue mestruale. Nonostante il livello di progresso scientifico importante, la diffusione della notizia è offuscata dal pregiudizio che il sangue mestruale sia “corrotto”. Uno dei professori revisori del suo dottorato ha interrotto la sua ricerca per un anno perché “non si sentiva a suo agio con l’uso del sangue mestruale”.
Un ulteriore esempio dello stigma è il caso dell’articolo della sua collega Federica Helena Marinaro sulle cellule staminali mestruali che è stato rifiutato dalla rivista scientifica Springer perché non pubblicabile. I revisori affermavano che la prova che il sangue mestruale è tossico si vede nel fatto che in alcune culture viene utilizzato per “uccidere i mariti”.
Sembra paradossale quello che vi sto dicendo, però è così.

Un altro aspetto interessante di cui parla White Feather è quello della burocratizzazione relativa all’uso di questi biomateriali. La separazione costante tra oggetto e soggetto dell’indagine scientifica. Non ha potuto utilizzare, lei come tante artiste che si occupano di bioarte, i propri materiali perché bisogna utilizzare dei materiali corporei che non sono quelli personali. Parla di un’esperienza totalmente disincarnata in cui la conoscenza che passa per il nostro corpo è negata.
Parla, infatti, di un fenomeno che chiama asepsi emozionale. L’asepsi sarebbe il processo scientifico in cui si escludono i batteri e altri microrganismi dal campione, quindi si sterilizza il materiale biologico. L’asepsi emozionale si riferisce alla sterilizzazione del significato personale del ricercatore e dell’empatia nei confronti del materiale biologico oppure del processo di ricerca che si sta facendo. Lei fa anche riferimento al fatto che tre quarti della sperimentazione che si attua nel campo delle biotecnologie afferisce a materiali animali che ovviamente vengono totalmente scorporati da quello che è stato l’animale, con cui si perde ogni tipo di relazione e empatia..

Chiudo l’esempio su White Feather parlando di un altro suo progetto molto interessante, che è un progetto di curatela del Museum of Witchcraft and Magic a Boscastle in Inghilterra che ha il nome di ARCANUM SANGUINI, in cui lei tratteggia una linea di continuità tra la pratica della stregoneria e dell’alchimia con quella dela biotecnologia.
Per White Feather non c’è differenza tra un incantesimo, un rituale e un protocollo in laboratorio. La vera differenza è nell’attribuzione di significato. Le pratiche magiche sono modi deliberati per conferire a un processo un significato personale, impregnarlo di un senso affettivo.
Prende in esempio i protocolli di alcuni di quelli che noi consideriamo esseri fantastici, per esempio la mandragola. La mandragola sarebbe questo essere vivente transpecie – metà uomo metà radice – che la leggenda credeva crescesse dallo sperma caduto a terra in seguito alle esecuzioni per impiccagione degli uomini. Gli alchimisti hanno attinto a questa idea, sviluppando protocolli per far crescere esseri umani in miniatura in fiale di vetro usando concentrazioni di sperma e sangue.
Questi degli alchimisti, a suo avviso, sono proprio il prototipo di quelli che sono i protocolli scientifici di adesso. La differenza qual è? Che ci si toglie la connessione emozionale affettiva, che poi è quella che caratterizza il mondo magico, la voglia di mettere un intenzionalità.

Ci sarebbe tanto da dire sulle pratiche artistiche del reincanto, connesse ai saperi tecnologici e scientifici, ma vi lascio con questo spunto sulla pratica di White Feather che associa la stregoneria alla ricerca scientifica.

Ippolita è un gruppo di ricerca indipendente che si occupa di filosofia della tecnologia. Negli anni ha pubblicato diversi libri, l’ultimo è Hacking del sé per AgenziaX, ricordiamo anche Anime Elettriche e Tecnologie del dominio. Ippolita propone momenti di formazione critica sulle tecnologie per chi si occupa di terapia, accompagnamento di civili in aree di conflitto e centri antiviolenza. Il gruppo cura la collana di libri Culture Radicali per Meltemi editore nella quale è stata pubblicata la trilogia sulla scuola di bell hooks. http://ippolita.net https://it.wikipedia.org/wiki/Ippolita_(gruppo)

Jessica Murano è Phd in storia della medicina e un background in storia dell’arte. È insegnante e ricercatrice indipendente. Si occupa di tematiche all’intersezione tra epistemologia della scienza e cultura visuale. É tra le fondatrici del Collettivo Trickster. https://jessicamurano.com/

Martu Palvarini attivista, giocatrice, appassionata di cultura pop, cerca continuamente di connettere il mondo nerd alla riflessione politica della contemporaneità. Co-fondatrice della casa editrice Asterisco Edizioni, coniuga l’attivismo LGBITQ+ con l’editoria indipendente. Curatrice di Fuori dal dungeon: genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale e autrice del gioco di ruolo Dura-Lande, pubblicati entrambi per Asterisco Edizioni. 

Arianna Forte curatrice d’arte indipendente e ricercatrice con base a Roma. Dopo una lunga collaborazione con gli artisti Oriana Persico e Salvatore Iaconesi, si è specializzata nella relazione tra arte, dati, intelligenza artificiale. Nel 2021 ha fondato ERINNI, una piattaforma curatoriale che unisce arte e attivismo. Ha curato la mostra 1M sotto la metro e ha vinto il premio al sostegno della ricerca all’estero come curatrice dell’Italian Council 12 edizione.

Parole Chiave: materialismomagico, metodoscientifico, magia, reincantamento