Il sacro, i commons e l’economia.
Conversazione con Massimo De Angelis a cura di Federico Battistutta

Il sacro è un tema poco frequentato nei manuali di economia. Solitamente gli economisti sono interessati ad affrontare ben altri argomenti. Invece in questa conversazione fra Massimo De Angelis e Federico Battistutta si cerca di intrecciare temi ritenuti abitualmente agli antipodi, quali il sacro, i commons e l’economia, ragionando a partire proprio da una prospettiva di trasformazione post-capitalista, riflettendo sul benessere umano, sociale ed ecologico all’interno di circuiti decisionali partecipativi.
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Leggendo tempo fa Paul B. Preciado mi sono imbattuto nell’espressione “simbionte politico”, in cui le dinamiche proprie del mutualismo biologico vengono ricontestualizzate nel campo della produzione di soggettività e nella pratica politica (mostrando fra l’altro un debito indiretto verso le teorie di Kropotkin). Preciado usa questo termine per descrivere un nuovo modo di concepire le relazioni fra i viventi, incentrato sui principi di ibridazione e di coesistenza interdipendente e trasformativa. Questo presuppone un ripensamento radicale delle forme politiche e sociali verso una prospettiva che superi logiche gerarchiche e oppressive, promuovendo relazioni tra i viventi collaborative e simbiotiche. Parole-chiave di un simile percorso sono: interdipendenza (individui, comunità ed ecosistemi non esistono come entità isolate, ma sono sempre in relazione); mutualismo (pratiche fondate non più sul dominio o sullo sfruttamento, ma su reti di interazioni in direzione di un reciproco beneficio); trasformazione costante (come nelle relazioni simbiotiche biologiche, anche qui le parti coinvolte si modificano continuamente attraverso l’interazione); critica delle strutture di potere tradizionali (messa in discussione dei principi fondanti del patriarcato: dal sessismo al classismo, dal razzismo all’abilismo, fino allo specismo).
Tutto ciò dà di che pensare. Nel senso che questi discorsi aprono molte piste, non solo su una rinnovata visione della politica, ma anche del sacro (ma di ciò Preciado non ne parla proprio), tracciando potenziali intrecci fra i due piani. Mi riferisco all’esperienza di un’eccedenza di senso, emergente sia in contesti individuali che collettivi – ciò che Gregory Bateson chiamava “sacra unità” – in grado di produrre modificazioni del sé, dentro un’esperienza colta e letta in una prospettiva che sovverte in qualche modo i paradigmi dominanti anche nel campo della spiritualità e delle religioni, oltre che in quelli propriamente politici. Dal canto suo Walter Benjamin osservava che la lotta di classe è lotta per cose rozze materiali, senza le quali non esistono quelle più fini e spirituali, ma aggiungeva subito che queste ultime si formano ed emergono proprio dentro la lotta.
Da queste premesse nasce la presente conversazione con Massimo De Angelis sul sacro, i commons e l’economia, provando a mettere in relazione temi collocati abitualmente agli antipodi. Massimo, teorico dei commons dentro una prospettiva di trasformazione post-capitalista, è fondatore della rivista web “The Commoner” e ha insegnato a lungo Economia politica e cambiamento sociale presso la University of East London. Segnalo il suo saggio Omnia sunt Communia. On The Commons and Postcapitalist Transformation (London, Bloomsbury 2017).
(F.B.)
Il sacro credo sia una parola poco usata nei manuali di economia. Per introdurre il discorso ti chiederei allora di spiegare un’espressione – “diventare indigeni” – che tu usi (e adoperata con tonalità differenti anche da altri autori/autrici, come Mariarosa Dalla Costa o Eduardo Viveiros de Castro). Cosa vuol dire “diventare indigeni”?
Vuol dire riprenderci almeno una parte di ciò che già eravamo, riprenderci l’indigeno che è in noi – come recita il titolo di un vecchio saggio di Mariarosa Dalla Costa all’indomani del sollevamento zapatista. Riprenderci una certa coscienza indigena che non è solo la coscienza ecologica di cui quella indigena si fa spesso portatrice, ma anche quella coscienza che si dispiega con un impegno per lo spazio e la convivenza condivisa. Si diventa indigeni, nella misura in cui si partecipa alla realtà materiale e sociale in cui si abita. Ma oggi, dentro i mega-circuiti del capitalismo, cosa vuol dire abitare? Dobbiamo darne un senso ampio e articolato: si abita un luogo specifico, certo, ma la riproduzione delle nostre vite dipende da circuiti della cooperazione sociale (le scorie che emettiamo, le merci da cui dipendiamo ecc.). Si abita anche un mondo con tutto ciò che c’è in mezzo. Essere indigeni oggi per noi, qui in Europa, nel primo mondo, è riprenderci queste connessioni del vivere e riprodurre le nostre vite. E questo implica anche tessere insieme tante altre coscienze, quelle ricordate da Mark Fisher: di classe, ecologista, femminista/transfemminista e quella psichedelica, a cui anche tu sei interessato, cioé quella coscienza che ci fa vedere il reale come almeno potenzialmente plastico, ci fa vedere gli spazi delle soglie (come in Stavros Stravides), il potenziale del “non-ancora” di Ernst Bloch o il futuro nel presente di C.R.L. James.
A questo punto dovrebbe essere chiara la domanda sul sacro: pensando al messaggio che ci ha lasciato Bateson circa la “sacra unità” – il connettivo misterioso all’opera nel mondo biologico -, come possiamo intendere la relazione tra il sacro e i commons (senza preoccuparci se corrisponde o meno ai principi o dogmi di qualche religione)?
Per me ci sono due modi di intendere il sacro, entrambi fondamentali e interrelati. Il primo lo intendo come l’esperienza umana di far parte di un tutto più ampio, come la consapevolezza intrinseca dell’essere umano di essere parte integrante di un ordine o una realtà che trascende l’individuo stesso, di un eccesso quindi di possibilità oltre l’individuo. Questa concezione del sacro si basa sulla consapevolezza di connessione, interconnessione e interdipendenza; che sia l’universo, Gaia, il divino o una dimensione più ampia e significativa della realtà. Si tratta di un senso di appartenenza a qualcosa di più grande e profondo, in cui il soggetto si sente connesso e coinvolto in un ordine che va al di là del proprio io. Al contrario oggi spesso ci si appiattisce su forme del sacro assai parziali: il sentirsi parte di una tifoseria calcistica, di essere parte di una famiglia, di una nazione. Il più delle volte tali totalità parziali sono catturate dall’ordine delle cose che intensifica la relazione competitiva che riproduce l’alienazione su scala più grande. I tifosi di una squadra calcistica diventano così funzionali al business del calcio; il sentirsi parte di una famiglia, di un clan, di una rete, spesso riproduce distinzioni e rivalità verso altre famiglie, clan e reti, amplificate dai modelli di consumo distintivo; il sentirsi parte di una nazione può amplificare le distinzioni con altri popoli fino al punto di dimenticarsi degli elementi comuni, così da fertilizzare il terreno simbolico necessario alla competizione economica, lo sfruttamento neocoloniale e, al limite, la guerra. Allo stesso tempo la percezione del sacro e quindi il senso attribuito al quotidiano si modifica anche attraverso il processo di formazione di nuove comunanze, attraverso il riconoscimento di un dominio condiviso (di classe, di genere, di etnia), di partecipazione alle gioie e dolori di un soggetto collettivo: una lotta, un moto di riscatto, un momento di empowerment, una pratica cooperativa di auto-valorizzazione e potenziamento dell’autostima di tutt*, può far emergere risorse latenti e porta i soggetti ad appropriarsi consapevolmente del loro potenziale, e può offrire a un soggetto collettivo un nuovo orizzonte di possibilità. Come ricordano Stefania Consigliere e Paolo Bartolini, al sacro “compete una prossimità radicale alla dimensione del possibile.” E qui, ovviamente, il sacro si connette sia al movimento e al conflitto sociale che ai commons, cioè alle nuove forme di cooperazione sociale oltre il capitale.
Quindi c’è un altro modo di articolare il sacro?
Sì, in questo caso il sacro è anche un elemento che si manifesta dentro e attraverso le pratiche ordinarie, in quella che potremmo chiamare la praxis del valore, in tutte le sue diverse dimensioni (anche quelle più alienanti, anzi, sta proprio qui la difficoltà). In questa seconda dimensione, il sacro non si presenta come una qualità emergente dentro le pratiche quotidiane. Qui il sacro non è un “altrove”, ma un valore che si esprime proprio nelle dinamiche ordinarie e nelle interazioni che compongono la vita sociale, soprattutto nelle forme che costituiscono la cooperazione sociale ad egemonia capitalistica in cui siamo immersi.
Ti chiederei allora di spiegare cosa intendi per praxis del valore.
Certo. Per il marxismo il principio generativo e ontologico della realtà sociale, ciò che dà forma e direzione alla cooperazione sociale in senso lato, è la prassi. E questa, a sua volta, ha tre caratteristiche interconnesse: lo scopo (la sua teleologia), le norme e le relazioni sociali che si intrattengono. Lo scopo fornisce un orientamento, le norme consentono il coordinamento e la relazionalità il potere sociale (la relazione con altri soggetti umani e animali, con sistemi e macchine, con gli ecosistemi in generale). Un dominio di prassi è un dominio sociale in cui lo scopo, le relazioni e le norme sono specificamente configurate attraverso un’azione incarnata, messa in atto dai soggetti e articolata in pratiche sociali.
Però ci sono tanti tipi di prassi, ognuna caratterizzata da specifiche configurazioni e modalità di norme, scopi e relazioni. Da cosa dipende tale configurazione? In ultima analisi, dipende dalla selezione sociale di questi scopi, relazioni e norme. Nel quadro di Gregory Bateson, la selezione è un processo che crea distinzioni e comprende i processi attraverso i quali specifici modelli, comportamenti o idee acquistano importanza all’interno di vari sistemi, compresi i regni del biologico, del sociale e del culturale. Suggerisco che i processi di selezione sono intrinsecamente legati alla formazione dei valori. Da un punto di vista antropologico, il valore non è altro che il significato che si dà all’azione e i valori emergono attraverso un processo complesso in cui certe pratiche vengono rafforzate e sostenute, spesso inconsciamente, in base alla loro efficacia o coerenza, però all’interno di un particolare sistema.
Potremmo dire che da questa praxis del valore vediamo emergere il sacro, inteso non come esperienza estatica, ma proprio dentro il mondo profano così com’è, come potenza collettiva di agire e reagire a un mondo sempre più alienante …
Sì, il valore, tuttavia, non nasce da individui isolati dal resto della società. David Graeber ha sottolineato che il valore è il modo in cui le persone rappresentano a sé stesse l’importanza delle proprie azioni. Qualsiasi azione o processo acquisisce senso solo se integrati, cioè in riferimento a un sistema d’azione più ampio. L’articolazione tra individui e interi, parti e totalità sistemiche, implica che è perseguendo il valore (o specifiche tipologie di valori) che riproduciamo interi, cioè reti di co-produzione. Pertanto, diversi tipi di valori perseguiti riproducono diversi tipi di interi, di sistemi sociali, di dimensioni di società diverse. Quando siamo sottoposti ai ritmi del lavoro capitalistico, alla misura delle cose del capitale che sacralizza il valore di scambio (e quindi il profitto, con tutte le norme e le relazioni ad esso congruenti), noi produciamo valore nel senso marxiano del termine. In questa nostra chiacchierata, noi assolutamente non stiamo riproducendo questo valore, ma altri, che sono ascrivibili dentro il dominio dei valori relazionali o al limite del valore d’uso (se qualcun* trova che questa chiacchierata ha qualche utilitá). E neanche quando ci scambiamo opinioni e conoscenze su come far crescere le piante nel nostro orto o nelle nostre passeggiate in qualche città emiliana. Qui la praxis del valore é completamente diversa, è basata su misure delle cose molto diverse, su un’ordine di sacralità diverso. E’ chiaro che il capitale può appropriarsi di questi valori, ma la sua origine e riproduzione non avviene dentro il capitalismo. E’ il contrario di ciò che avviene quando la praxis assume la forma di lavoro astratto sotto il comando del capitale, nella gig economy o nella fabbrica o nel consumo compulsivo. In questo caso siamo dentro un comune che non si preoccupa del lavoro di cura, ma sacralizza qualcos’altro (la merce e il suo valore di scambio). Siamo dentro un comune che chiamiamo capitalismo, un sistema così post-umano, da non curarsi dell’umano, della base fondamentale dell’umano.
Mi viene in mente la famosa frase di Margaret Mead su quale sia stato il primo atto umano. “Un femore guarito” disse, “è la prova che qualcuno si è preso cura di te, ti ha aiutato a sopravvivere. Prendersi cura l’uno dell’altro è ciò che ci rende umani.” Ma allo stesso modo, il prendersi cura di una pianta, di un territorio, di un ecosistema, perché l’umano non è che una parte di quello. Capisci allora che pensare al sacro dentro il profano, cioè dentro la quotidianità della vita ad egemonia capitalista, può aprire prospettive. Dentro la dimensione capitalistica del sacro, di cosa sia il valore, noi mettiamo in atto (we enact) il capitalismo, lo produciamo e lo riproduciamo. Ma questo soggetto che nella quotidianità lo mette in atto è però un soggetto ambivalente, come sosteneva Romano Alquati, cioè si trova in mezzo tra l’essere completamente assoggettato al sistema e l’essere contro/altro dal sistema. E quindi, il conflitto lo attraversa, il conflitto tra vissuti del sacro è sempre presente, sia esso internalizzato in processi psichici o esternalizzato in sollevamento collettivo. La domanda che ci si deve porre è: sacro per chi, per cosa, per quali scopi? Ed è anche qui, come nella prima distinzione del sacro, che entrano in scena i commons, non come beni comuni, ma sistemi sociali, fondati su praxis del valore completamente opposti a quelle del capitale.
Provo a riassumere. Abbiamo due modi di intendere il sacro: da una parte c’è il sacro come esperienza di sentirsi parte di un tutto più ampio (chiamiamola coscienza cosmica, transpersonale, mistica, estatica ecc.) e, dall’altro, il sacro come prassi politica che costruisce commons, insorgendo e ribellandosi alla sacralizzazione e alla feticizzazione di denaro, merce, profitto e consumismo. Secondo me queste due prospettive del sacro sono in qualche modo connesse o comunque sarebbe opportuno promuoverne la connessione. In fondo, il sentirsi parte di un tutto, anziché monadi disconnesse e in competizione dentro scale gerarchiche verticali, può facilitare l’emergere di processi affettivi allargati, empatici e solidali per costruire commons, reti di sostegno comunitarie. Così come esperienze comunitarie e di lotta vissute intensamente ci rendono concretamente partecipi di un sé infinitamente più ampio di quello che si trova abitualmente incapsulato nei confini del proprio corpo e del proprio ego. Ecco, tu cosa ne pensi?
Sì, sono assolutamente d’accordo. Ma per chiarezza, da una parte c’è il sacro come esperienza di sentirsi parte di un tutto più ampio e, dall’altro, il sacro come prassi che costituisce il comune. Questo comune può essere anche corrotto come nel capitalismo. La sfida è come tu dici quella di dar vita a una prassi politica che costituisce commons, pratiche di cooperazione sociale che rifondino la prassi su altri valori rispetto a quelli perseguiti dal capitale. Questo certamente significa anche una riarticolazione delle due dimensioni del sacro.
Per ritornare alla “sacra unità” di Gregory Bateson quando, nel suo Verso un’ecologia della mente, sottolinea che non si possa comprendere una parte del sistema senza considerare il sistema nella sua totalità e che ogni elemento è in relazione con il tutto. Qui ogni parte del sistema è collegata alle altre attraverso scambi di energia, informazioni o materia, e il sacro non ha connotazioni strettamente religiose, ma richiama il senso di rispetto, interdipendenza e responsabilità nei confronti della complessità della vita. Ignorare questa interdipendenza porta a squilibri, come il degrado ambientale e le crisi della riproduzione sociale. Allora in quest’ottica, l’idea di un sistema che persegue crescita infinita in un contesto di risorse finite è intrinsecamente disfunzionale perché viola, cioè dissacra, il principio fondamentale della interconnessione e dell’equilibrio sistemico.
Ed è quello che sta accadendo oggi. Aggiungo che non solo il comune può essere corrotto, come dici giustamente tu, ma anche il sacro, laddove viene decodificato e presentato in forma gerarchica, verticistica, autoritaria e discriminatoria.
Sì, da parte mia aggiungo che il capitalismo orientato alla crescita infinita ha una miopia epistemologica nel senso che si concentra solo sul perseguimento del profitto sopra ogni altro valore, ovvero un modo di pensare e di agire nel mondo che frammenta le connessioni tra le parti e il tutto. Esso viola i limiti sistemici della nostra appartenenza a Gaia, pensando che le “risorse” naturali siano inesauribili e che i costi ecologici possano essere esternalizzati senza conseguenze. I ritmi che il capitalismo impone alla cooperazione sociale non sono compatibili né con i ritmi della vernacolarità, creando quindi alienazione sociale, né con i ritmi lenti e i cicli di rigenerazione della natura (ad esempio il ciclo dell’acqua o la rigenerazione dei suoli), creando catastrofi ecologiche e perdita di biodiversità. Il comune creato dal capitalismo è quindi un sistema con circuiti di feedback spezzati. Per esempio, quando un’azienda inquina, e non paga direttamente il costo ambientale, questo è un feedback “negativo” ignorato. Come lo è quando la protesta per condizioni di vita e di lavoro migliori resta inascoltata o criminalizzata, perché altrimenti il suo ascolto verrebbe a gravare sui costi del capitale a discapito del profitto. Così le contraddizioni sociali ed ecologiche si accumulano, e le conseguenze a lungo termine delle crisi ecologiche (es. cambiamento climatico) non vengono percepite in tempo reale, quindi il sistema continua a funzionare in modo miope. Il capitalismo, in questo senso, non ascolta i segnali del contesto. Come in un organismo che ignora il dolore, questo porta a malattie sistemiche come il collasso ecologico, la disuguaglianza sociale e via dicendo.
E qui entrano in gioco i commons.
I commons sono in questo senso quelle pratiche che creano sistemi di cooperazione sociale alternativa, dove si cerca di integrare il benessere umano, sociale ed ecologico in circuiti decisionali partecipativi, dove si riconoscono i limiti planetari come vincoli fondamentali, e dove si cerca di ricostruire ciò che chiamiamo economia nel senso di un’economia rigenerativa e cooperativa. E allora qui il benessere e non può più essere misurato con il monismo del Pil, i costi non sono più definiti come semplici costi monetari, ma anche sociali ed ambientali, ed il circuito di feedback viene ampliato per includere tutte le parti costituenti la totalità socio-ecologica di cui facciamo parte. Insomma, appunto, un tentativo di articolare e rendere congruenti i due sensi del sacro dal quale siamo partiti, attraverso una praxis diversa della cooperazione sociale.
Massimo De Angelis ha insegnato Economia politica e cambiamento sociale presso la University of East London ed è fondatore della rivista web “The Commoner”. Tra le sue pubblicazione Omnia sunt Communia. On The Commons and Postcapitalist Transformation (London, Bloomsbury 2017).
Federico Battistutta è un ricercatore indipendente e si interessa di aree di frontiera (spiritualità secolare e misticopolitica, ecosofia ed ecospiritualità, dialogo interreligioso e interculturale). Il suo ultimo libro è Misticopolitica. Orizzonti della spiritualità post-religiosa (2022). Fa parte del Collettivo Trickster.
Parole chiave: commons, comune, economia, sacro, diventare indigeni, Gaia