Femminismo e psichedelia.

Due modelli teorici per re-immaginare il paradigma biomedico e la politica sulla salute mentale

 di Jessica Murano

Il metodo scientifico attuale determina il paradigma di salute e malattia, e consequenzialmente le terapie adottate per curare i disturbi fisici e mentali. Concentrandosi su questi ultimi, l’articolo esplora due modelli teorici che possono ridefinire il paradigma biomedico attuale, ovvero il femminismo e la psichedelia. Grazie a questi, è possibile evidenziare le problematicità insite nell’attuale modello scientifico, e proporre nuove prospettive al fine di immaginare nuovi modelli per la salute mentale, e più in generale, per intendere l’individuo. 

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L’articolo è originariamente apparso in Altrove (23) 2022, pp. 206-222 .

La crisi del paradigma biomedico

Negli ultimi vent’anni si è assistito a un graduale peggioramento delle condizioni di salute mentale nel mondo occidentale. La pandemia di Covid-19 altro non ha fatto se non acuire una problematica sociale già da molto tempo denunciata dagli esperti del settore. Come ha scritto lo psicologo Brett J. Deacon in un articolo apparso nel 2013 dall’emblematico titolo: The biomedical model of mental disorder: a critical analysis of its validity, utility and effects on psychotherapy research [Il paradigma biomedico delle malattie mentali: un’analisi critica della sua validità, utilità ed effetti], (Deacon: 2013), il problema più grande dell’attuale modello di riferimento entro cui si intendono oggi la salute e la malattia è il modello stesso, i suoi assunti teorici e le sue soluzioni pratiche. Deacon osserva come, per la scienza medica, la malattia mentale sia intesa come la risultante uno squilibrio biochimico, da curare grazie alla farmacologia. Eppure, sebbene gli stati occidentali abbiano investito ingenti somme di denaro per finanziare le industrie farmaceutiche, nessuno dei farmaci prodotti negli ultimi cinquant’anni si è rivelato più efficace dei composti scoperti per caso più di mezzo secolo fa. Inoltre, l’efficacia di questi composti ha scarsi risultati a lungo termine, in quanto il farmaco cura il sintomo senza tuttavia operare sulla causa che genera il problema, presentando come effetto collaterale lo sviluppo di una forte dipendenza, sia fisica che psicologica. La farmacologizzazione della salute mentale è diventata un vero e proprio problema socio-politico, come brillantemente spiegato da Laurent De Sutter nel testo Narcocapitalismo (De Sutter: 2017). Nel 2021, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un report dal quale si apprende che il 5% della popolazione, ossia circa 280 milioni di persone, soffre di depressione, e come quest’ultima sia tra le principali cause di disabilità a livello mondiale, contribuendo in modo significativo all’onere globale delle malattie. Già alla fine degli anni Settanta, lo psichiatra George Engles affermava: 

“Il modello di malattia oggi dominante è quello biomedico, con la biologia molecolare come disciplina scientifica di base. Esso presuppone che le malattie siano da deviazioni dalla norma di variabili biologiche misurabili (somatiche). Non lascia spazio, all’interno della sua struttura, alle dimensioni sociali, psicologiche e comportamentali della malattia. Il modello biomedico non solo richiede che la malattia sia affrontata come un’entità indipendente dal comportamento sociale, ma richiede altresì che le aberrazioni comportamentali siano spiegate sulla base di processi somatici (biochimici o neurofisiologici).” (Engles: 1977, p. 130) 

Il paradigma biomedico affonda le proprie radici nel pensiero cartesiano: la netta distinzione tra corpo e anima teorizzata dal filosofo francese e la conseguente visione del corpo umano come una macchina perfetta, in cui la corretta organizzazione degli elementi corrisponde a uno stato di salute, condiziona e articola l’epistemologia della medicina. Descrivendo i rapidi progressi nel campo della fisiologia e della biologia, nel testo Il punto di svolta il fisico Fritjof Capra (Capra: 1982) mostra come la medicina, fedele a un approccio riduzionista, sviluppi gradualmente l’idea per la quale una malattia sia causata da un singolo fattore, in perfetto accordo con la teorizzazione cartesiana degli organismi viventi intesi come macchine, i cui guasti possono essere ricondotti al cattivo funzionamento di un singolo meccanismo. Applicando questa concezione alla scienza psichiatrica, gli psichiatri hanno concentrato il loro sforzo sul ritrovamento di cause organiche per i disturbi psichici. Tale approccio parziale per la cura delle malattie mentali, che elude l’influenza di fattori ambientali ed esperienziali nella costituzione del disagio psichico, fu messo in discussione già alla fine dell’Ottocento, quando Freud sviluppò un approccio dinamico per intendere la psiche, che avrebbe poi portato allo sviluppo della psicanalisi. 

Per il filosofo della scienza Thomas Kuhn, il quale ha teorizzato la struttura delle rivoluzioni scientifiche, il paradigma è un complesso di principi, procedimenti metodologici, e condizioni culturali, che fa da riferimento al lavoro della comunità scientifica di una determinata epoca storica. Quando l’applicazione dello stesso si rivela insufficiente per risolvere i problemi si verifica uno stato di crisi: questo è il momento in cui la comunità scientifica propone dei cambiamenti radicali sia nei problemi da affrontare che nei metodi con cui i problemi sono analizzati. Si sviluppa così, gradualmente, una nuova visione del mondo, incompatibile con il vecchio paradigma: una rivoluzione scientifica. Seguendo questo ragionamento, si può affermare come l’attuale paradigma biomedico stia attraversando un momento di crisi, in quanto gli attuali modelli teorici di riferimento si stanno rivelando insufficienti per risolvere i problemi che la contemporaneità pone. Come possiamo dunque immaginare un nuovo quadro concettuale entro cui intendere salute e malattia?

In questo scritto tenterò di approcciare alla domanda rivolgendomi a due correnti distinte e distanti, ma che presentano molteplici punti di intersezione: il femminismo e la psichedelia. Il femminismo si è focalizzato su un radicale ripensamento del corpo e dell’individuo, l’approccio psichedelico ha invece contribuito a rimettere in discussione la definizione stessa di coscienza. In tal senso, sebbene abbiano perseguito battaglie diverse, condividono un medesimo scopo: articolare una nuova visione di essere umano, delle sue caratteristiche, dei suoi confini. Lo studio qui proposto prende le mosse dalla domanda: è possibile ridefinire, allargare, ripensare, l’attuale paradigma biomedico? Attraverso femminismo e psichedelia, tenterò di formulare una possibile direzione per rispondere a questo quesito, più che mai urgente e fondamentale. 

Ripensare i fondamenti del metodo scientifico attraverso la teoria femminista

Un’interessante prospettiva che aiuta a ripensare i confini e il funzionamento del paradigma biomedico proviene dal lavoro della filosofa della scienza femminista Helen Longino. La ricerca della studiosa si è focalizzata sulla nozione di conoscenza situata al fine di problematizzare gli approcci analitici standard, che trattano la conoscenza come l’obiettivo di una mente isolata -alla Cartesio-, astratta da situazioni di vita concrete come il corpo, le emozioni, i valori e i ruoli sociali dello scienziato. Con l’obiettivo di promuovere una politica di inclusione nella produzione della conoscenza scientifica, Longino ha messo in discussione il metodo scientifico stesso, i suoi confini, le sue pratiche, i procedimenti attraverso i quali un’ipotesi scientifica viene giudicata legittima e ammissibile. 

La proposta teorica della studiosa parte dal tentativo di ridefinire i criteri del fare scienza, formulati da Thomas Kuhn nel testo Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria (Kuhn: 1970). Nello scritto, il filosofo discute cinque valori che gli scienziati dovrebbero utilizzare per guidare i loro giudizi nella scelta tra teorie concorrenti. Questi sono l’accuratezza, la semplicità, la coerenza, l’ampiezza del campo di applicazione e la fecondità. Secondo lo studioso, tali criteri costituiscono una base oggettiva per la scelta delle teorie, e sono ad oggi lo strumento di cui la scienza si serve, insieme alla verifica dei dati sperimentali, per determinare la veridicità e l’ammissibilità di un’ipotesi scientifica. Sono proprio questi criteri ad essere messi in discussione da Longino, la quale, adottando un approccio teorico femminista, ha problematizzato un assunto fondamentale del nostro attuale modo di fare scienza: la nozione di oggettività. 

L’odierna accezione di oggettività è ancorata al pensiero positivista ottocentesco: ciò che è reale deve essere misurabile, e se non è tangibile, deve quantomeno essere descrivibile. L’oggettività non è soltanto un’ideale epistemico cui tendere, ma è altresì l’atteggiamento che deve assumere lo scienziato nei confronti dei dati che interpreta: egli ha il dovere di epurare il proprio punto di vista da pregiudizi soggettivi, di essere imparziale, di avere un atteggiamento quanto più obiettivo e, appunto, oggettivo. 

Nel testo Objectivity gli storici della scienza Lorraine Daston e Peter Galison (Daston,  Galison: 2010) hanno ricostruito la storia del concetto di oggettività, mostrando come abbia potuto configurarsi così come lo intendiamo oggi in virtù di diversi ma correlati fattori: i rapidi progressi tecnologici -si pensi all’apparizione di nuovi dispositivi che hanno radicalmente cambiato il modo di fare scienza e guardare ai dati, come la fotografia e il microscopio-, la settorializzazione disciplinare nel mondo accademico, un’epistemologia della scienza positivista. Tuttavia, ciò che di interessante mostra il testo è come le nuove tecnologie visuali apparse in un contesto positivista -materialista e razionalista- abbiano prodotto un “desiderio di visualizzare” sconosciuto alle epoche precedenti. In tal senso è esemplare lo studio delle emozioni: dal qualificarsi come ambito di pertinenza della teologia, nel XIX secolo diviene materia di indagine delle scienze della mente. Nella cornice epistemologica del positivismo, gli scienziati avvertono l’urgente necessità di vedere i caratteri invisibili della mente. Le emozioni diventano allora precise misurazioni fisiologiche, i fotografi si ingegnano per immortalare le fugaci espressioni del volto da consegnare come dati di studio agli scienziati, Lombroso profila l’identikit del criminale, Charcot immortala le isteriche della Salpêtrière. Lo studio delle emozioni ha fortemente risentito di questo desiderio di visualizzare di fin de siècle; così come gli avvenimenti storico-politici fecero sì che le teorie sulle passioni fossero nutrite da ipotesi razziste, colonialiste e misogine, proprie del modo di pensare ottocentesco. Questo testo cardine della storia della scienza mostra chiaramente come scienza e contesto abbiano un rapporto co-costitutivo, e come sia impossibile scindere il progresso tecnico da desideri, credenze e aspirazioni degli scienziati. È ciò che in altre parole afferma il filosofo Georges Canguilhem, quando discute dei rapporti tra naturalismo letterario, dottrine biologiche del XIX secolo e l’idea che il patologico sia omogeneo al normale: 

“La storia delle idee non è necessariamente sovrapponibile alla storia delle scienze. Ma, siccome gli scienziati conducono la propria esistenza di uomini entro un ambiente e una comunità non esclusivamente scientifici, la storia delle scienze non può ignorare la storia delle idee. Applicando a una tesi la sua conclusione, si potrebbe affermare che le deformazioni che essa subisce nell’ambiente della cultura possono rivelarne il significato essenziale.” (Canguilhem: 1998, p.21)

Nella ricerca di Helen Longino, il centenario concetto di oggettività viene decostruito e trasformato. Secondo la studiosa, la scienza a volte progredisce non a dispetto, ma a causa dei filtri e dei pregiudizi dei ricercatori, che si tratti della tendenza a concentrarsi esclusivamente su un particolare insieme di dati, del desiderio di battere qualcun altro su un annuncio, di una vena contraria o di una smodata fiducia in se stessi. In tal senso, la scienza funziona non tanto perché gli scienziati hanno una capacità speciale di filtrare i loro pregiudizi o di accedere al mondo così com’è realmente, ma piuttosto perché aderiscono a un processo sociale che struttura il loro lavoro, vincolando e incanalando le loro predisposizioni e predilezioni, i loro momenti di eureka, la loro comprensione ampia ma inevitabilmente limitata, i loro ego e le loro gelosie. La proposta di Longino è la seguente: anziché inseguire inutilmente una forma di oggettività ideale, tentando di epurare la propria pratica scientifica da qualsivoglia forma di soggettivismo, bisognerebbe invece prendere consapevolezza e identificare i valori individuali, socio-culturali e politici insiti nel fare scienza. In tal modo, per gli scienziati diventerebbe un dovere quello di sottoporre a un vaglio critico le proprie teorie, alla ricerca dei valori soggettivi che guidano le loro pratiche. Questa procedura permetterebbe di prendere consapevolezza circa la misura in cui le ipotesi scientifiche sono influenzate da credenze, valori e desideri, e nello specifico da quali credenze, quali valori, quali desideri. In seguito a questo momento di analisi individuale da parte di ciascun ricercatore, il vaglio delle ipotesi scientifiche più convincenti e pertinenti sarebbe svolto dall’intera comunità scientifica di riferimento. Questo permetterebbe di giungere a quello che Longino definisce “momento di critica trasformativa” nel processo di validazione di un’ipotesi. In tale prospettiva, i dissidenti assumono un ruolo fondamentale, poiché capaci di mettere alla prova gli assunti impliciti sui quali una teoria si fonda. Inoltre, in tal modo sarebbe possibile trovare uno spazio di legittimazione dei valori culturali, sociali e politici nella pratica scientifica, rimarcando il valore politico e civile della scienza. L’enfasi posta sul momento di critica trasformativa nel processo di validazione di un’ipotesi evidenzia come una comunità omogenea corra il rischio di mantenere invisibili i presupposti di fondo problematici: in tal senso, la diversità di approcci diventa necessaria. 

Nel pensare alla possibilità di una scienza femminista, ho attinto a elementi dell’analisi fornita nei capitoli precedenti per concludere che 1) si potrebbe praticare la scienza come femminista riconoscendo il modo in cui l’assunto di fondo della scienza mainstream ha facilitato alcune conclusioni e ne ha escluse altre e 2) utilizzando deliberatamente assunti di fondo opportunamente in contrasto con quelli della scienza mainstream. Questo tipo di scienza femminista, o più in generale di scienza oppositiva, è sempre locale e rispettosa di alcuni standard di una specifica comunità scientifica.” (Longino: 1990, p. 214, traduzione dell’autrice).

Le “scienze oppositive” sono, in questa visone, fondamentali nella storia del pensiero, non soltanto perché capaci di portare alla luce i giudizi di valore che orientano la pratica scientifica, ma anche e soprattutto perché in grado di far emergere l’intricato rapporto tra scienza e potere, tra pratica scientifica e pregiudizi impliciti nel fare scienza.

Nel 1990, nel saggio Science as Social Knowledge (Longino: 1990), Longino entra nel merito dei cinque criteri neutrali elaborati da Kuhn, proponendo una serie di valori alternativi a quelli proposti dallo studioso. Li illustro brevemente di seguito poiché saranno utili per dimostrare, nella successiva parte di questo scritto, in che modo sono stati adottati per legittimare ricerche scientifiche altrimenti inammissibili per gli attuali standard clinici. 

1 Longino oppone al criterio dell’accuratezza -le ipotesi dedotte da una teoria devono trovare una conferma empirica nei dati- quello dell’adeguatezza empirica: le affermazioni della teoria empiricamente adeguate saranno sempre in accordo con i dati, che siano passati, presenti o futuri. Ad esempio, alcune biologhe femministe si sono impegnate a screditare le teorie che pretendevano di dimostrare un’eziologia biologica per le differenze attribuite in base al sesso: le studiose hanno dimostrato le credenze e i valori impliciti nella formulazione di tali teorie, basate su un’idea di soggetto femminile passivo e subordinato al maschile.

2 Si oppone al criterio della coerenza -non contraddire sé stessa o altre teorie- quello della novità. Per novità Longino intende modelli o teorie che differiscono in maniera significativa dalle teorie attualmente accettate, postulando entità e processi diversi, adottando principi di spiegazione differenti, adottando metafore alternative, o tentando di descrivere e spiegare fenomeni che non sono stati precedentemente oggetto di indagine scientifica. (Longino: 1990, p. 386) A tal proposito Longino cita il lavoro di Donna Haraway (Haraway: 1985) capace di decostruire la nozione di umano attraverso la figura del cyborg, e di usare la narrazione fantascientifica per creare nuovi quadri di riferimento in cui leggere e interpretare il reale.  

3 Al criterio della semplicità -ossia la capacità della teoria di mettere ordine ed eliminare il caos- si oppone il criterio dell’eterogeneità ontologica. Una teoria dovrebbe garantire la parità con altre entità, senza tentare di ridurle a un unico tipo base. Il criterio della semplicità elaborato da Kuhn si lega infatti a quello dell’omogeneità ontologica, per cui si trattano le differenze come eliminabili attraverso la scomposizione delle entità in un unico tipo base. 

4 Infine, si oppone al criterio della portata esplicativa -ossia l’ampiezza dell’applicabilità della teoria- la complessità di interazione. È necessario privilegiare le teorie che trattano interazioni tra entità reciproche e dinamiche, piuttosto che assumere le entità come processi unidirezionali. Estrarre i fattori dall’ambiente in cui si trovano nel mondo naturale significa non prendere in considerazione l’influenza del contesto. 

Il quadro concettuale femminista così articolato, permette di valorizzare le differenze senza tentare di ridurle a un’entità generica di base, di rispettare l’identità ontologica di ciascun fattore preso in esame, di esaminare ciascun dato nel contesto in cui è inserito. Riformulando i criteri alla base del paradigma, è possibile iniziare a riformulare e ridefinire il paradigma stesso, facendo emergere le criticità implicite e invisibili. In quanto scienza oppositiva, il femminismo intrattiene un rapporto subalterno con il potere, ed è proprio la sua relazione con quest’ultimo a determinare la possibilità di un’alternativa al sistema di pensiero vigente: 

“Il semplice fatto di articolare quelle virtù teoriche che potrebbero essere considerate femministe non significa che sia possibile sviluppare, perseguire e stabilire teorie e modelli che le esemplifichino. Le virtù a cui si oppongono sono mainstream proprio perché si trovano in rapporti di rinforzo con i valori e le relazioni nel contesto sociale della scienza. Ci possono essere delle sacche, delle “nicchie”, nelle quali è possibile praticare una scienza alternativa che soddisfi almeno alcuni criteri femministi (quelli discussi o altri). Ma queste devono essere create deliberatamente e si troveranno in relazioni complicate con altri siti di ricerca. La pratica della scienza è troppo materialmente dipendente dal suo contesto socio-politico per un cambiamento significativo senza cambiamenti in quel contesto. Non si può affermare, guardando alle virtù teoriche in sé, che liberatorie, oppressive, femministe, maschiliste o neutrali. Bisogna guardare invece ai motivi che vengono offerti per trattarle come virtù e i modi in cui il loro impiego in particolari argomentazioni scientifiche e programmi di ricerca risuona con le condizioni del contesto sociale e politico della ricerca.” (Longino: 1995, traduzione dell’autrice)

L’incontro tra epistemologia femminista e terapia psichedelica 

Le sostanze psichedeliche sono attualmente protagoniste di un’ennesima riscoperta e fascinazione, sia da parte delle scienze della mente, -psichiatria, psicologia, neuroscienze-sia in ambito culturale. Se nel 2018 il mondo scientifico approcciava entusiasticamente alla ricerca sugli psichedelici, già nell’agosto 2022 David Yanen, ricercatore della John Hopkins University, invitava la comunità scientifica ad utilizzare toni più cauti e consapevoli rispetto ai possibili impieghi di queste sostanze, per evitare di scivolare nell’ennesima bolla di disinformazione (Yaden: 2022) che già aveva connotato la storia delle terapie psichedeliche negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. 

Agendo direttamente sulla coscienza, gli psichedelici permettono di vivere esperienze singolari come la dissociazione dal proprio io, la dissoluzione dei propri confini corporei, la possibilità di vedersi dal di fuori, di indagare i propri meccanismi di funzionamento, di rivivere accadimenti passati. 

“Non dovrebbe stupirci che piante con simili poteri e possibilità siano circondate da emozioni, leggi, rituali e tabù altrettanto potenti. Questi riflettono la consapevolezza che cambiare la mente può avere un effetto dirompente sia sugli individui che sulle società, e che quando strumenti così potenti vengono messi nelle mani di esseri umani fallibili le cose possono mettersi parecchio male. Abbiamo molto da imparare dalle culture indigene tradizionali che hanno a lungo fatto uso di psichedelici come la mescalina o l’ayahuasca: di norma, tali sostanze non vengono mai usate in modo casuale, ma sempre intenzionale, inquadrate in un rituale e sotto l’occhio vigile di anziani esperti. Questi popoli riconoscono che tali piante possono scatenare energie dionisiache, le quali possono diventare incontrollabili se non sono governate con cura.” (Pollan: 2021, p. 22)

In virtù della natura stessa della sostanza, che permette di vivere esperienze non programmabili e inaspettate, gli studiosi che avevano sperimentato con questi composti in ambito psichiatrico negli anni Cinquanta e Sessanta si erano preoccupati di mettere a punto dei protocolli incentrati sulla capacità dei pazienti di svolgere un ruolo attivo nel processo di guarigione, anziché accettare passivamente le terapie somministrate dai medici. 

La criticità più rilevante dell’odierna ricerca sugli psichedelici è l’impossibilità di ricondurre queste sostanze negli attuali standard clinici. Come si diceva all’inizio, il paradigma di salute e malattia contemporaneo inquadra la malattia mentale come risultante di uno squilibrio biochimico: su questa visione sono stati strutturati dei protocolli al fine di testare e verificare l’efficacia dei composti farmaceutici, che debbono rispondere a precisi parametri prima di essere adottati come tecniche di cura. In questo frangente, le sostanze psichedeliche hanno permesso di evidenziare la parzialità degli standard clinici attuali: esse infatti producono un effetto che, per essere compreso nella sua interezza, deve essere inteso nella sua portata fenomenologica, esistenziale, spirituale. 

Gli psichedelici portano così alla luce un problema teorico, pratico, concettuale: il disagio psichico non è un disagio riconducibile a un mero squilibrio biochimico, è piuttosto il prodotto di un’intersezione di fattori che hanno pari importanza nello sviluppo del disagio stesso. Il principio di funzionamento dei composti psichedelici sfugge dalla categorizzazione farmacologica, elude una concezione di essere umano dualistica e materialista, rende problematica l’attuale dicotomia tra droga e farmaco. L’imprevedibilità e il potere generativo di queste sostanze mostrano come l’essere umano possa agire manifestando modalità di esistenza, percettive e sensoriali, molto più ampie di quelle che l’esperienza comune e le regole del vivere sociale permettono. In maniera analoga, la teoria femminista ha preso in considerazione vissuti e modalità di esistenza estranee alla logica maschilista, patriarcale, capitalista. Ciò che accomuna psichedelia e femminismo è dunque il loro rapporto con il potere: in quanto teorie dissidenti, emarginate, subalterne, permettono di far emergere le criticità insite nel modello di “normalità” comunemente accettato. 

“Nella discussione di questo significato [normale], si è fatto notare quanto questo termine sia equivoco, giacché designa a un tempo un fatto e un “valore attribuito a questo fatto da colui che parla, in virtù di un giudizio di valore che egli fa proprio. […] La vita di fatto è un’attività normativa. Per normativo si intende in filosofia ogni giudizio che consideri o qualifichi un fatto in relazione a una norma, ma questo tipo di giudizio è in fondo subordinato a quello che istituisce delle norme. È normativo, in senso stretto, ciò che istituisce delle norme.” (Canguilhem: 1998, p. 96)

La norma è ciò che, in ultima istanza, femminismo e psichedelia problematizzano e criticano. È “normale”, nella società odierna, assumere psicofarmaci e considerare gli psichedelici droghe pericolose, è “normale” pensare che gli scienziati debbano essere osservatori gelidi e imparziali per condurre efficientemente il loro lavoro, è “normale” credere che lo squilibrio mentale corrisponda a uno squilibrio chimico, che può opportunamente essere inibito con la farmacologia.

Qualificandosi come approcci oppositivi e dissidenti, terapie psichedeliche e teorie femministe hanno la capacità di far emergere le relazioni di potere implicite nei rispettivi modelli di corporeità/identità da una parte, e coscienza/alterazione di coscienza dall’altra. In tal senso, i due movimenti presentano dei punti di intersezione proficui quando si tratta di ripensare le pratiche e gli strumenti utilizzati nel campo delle tecniche di cura della salute mentale, poiché quest’ultimo impone di confrontarsi tanto con la nozione di identità quanto con quella di coscienza implicite nel modello di salute e malattia. 

Un caso di studio interessante in tal senso è la ricerca di Flo Mc Cartney (Mc Cartney: 2021), studentessa dell’Università di Edimburgo, la quale ha svolto una tesi di laurea sviluppando dei modelli applicativi per le terapie psichedeliche basati sul quadro concettuale sviluppato da Longino.

L’uso dei composti psichedelici nella ricerca sulla salute mentale incarna in primis il valore della novità: postulando processi e principi di spiegazione diversi, gli psichedelici permettono di riformulare e ridefinire gli stati di coscienza, le tecniche di cura, le politiche di salute mentale. Il criterio della complessità di interazione teorizzato da Longino, che privilegia i modelli esplicativi in cui i fattori in gioco sono multipli piuttosto che singoli, permettere di includere all’interno degli standard clinici l’influenza del contesto, anziché escludere gli effetti di quest’ultimo. In tal senso ha operato il team di ricerca dell’Imperial College of London coordinato da Robin Carhart-Harris. Nello studio condotto con la psilocibina per il trattamento della depressione (Nutt, Carhart-Harris: 2020), il team ha stabilito che quando negli articoli scientifici si cita la parola psilocibina, con tale termine s’intende non soltanto l’effetto della somministrazione della sostanza, bensì tutti i fattori che entrano in gioco nell’esperienza, come gli elementi del contesto, e il set mentale del paziente. Grazie al criterio dell’eterogeneità ontologica invece, è possibile smettere di spiegare i meccanismi d’azione delle sostanze psichedeliche in termini esclusivamente neurobiologici, permettendo di pensare nuovi modelli che includano il potere esplicativo dell’esperienza in sé stessa, anche se non misurabile o osservabile con tecniche esterne. La ricerca della giovane studiosa non ha come obiettivo di rendere la terapia psichedelica mainstream, piuttosto mira a mettere in luce le problematicità insite nell’attuale modello di salute e malattia -in particolare nella scienza psichiatrica-, facendo emergere gli elementi problematici presenti nel paradigma pensato da Kuhn. 

Questa tesi non è un’approvazione dell’uso ricreativo delle droghe psichedeliche e non intendo sostenere che la terapia psichedelica dovrebbe essere mainstream, piuttosto desidero evidenziare i modi in cui l’esplorazione sperimentale di questa strada è ostacolata dagli attuali valori scientifici paradigmatici. Discuterò come gli aspetti restrittivi della psichiatria sperimentale riflettano in qualche modo i valori scientifici proposti da Kuhn (1977). Il nocciolo della mia argomentazione si basa sulla risposta di Longino (1995) a Kuhn, in cui sostiene che i suoi valori contribuiscono alla perpetuazione di una società sessista.” (Mc Cartney: 2021, p. 5, traduzione dell’autrice)

La sociologa femminista Michelle Corbin (Corbin: 2010, 2012) si è invece concentrata sulle tecniche di legittimazione utilizzate dai ricercatori per spiegare in termini scientifici le esperienze psichedeliche. Lo studio mette in luce gli stratagemmi teorici e pratici che permettono ai ricercatori di poter condurre sperimentazioni con sostanze psicoattive all’interno degli attuali standard clinici di riferimento. Per esempio, anziché dichiarare che gli psichedelici possano essere una via d’accesso per esperienze mistico-spirituali, affermazione che viola gli standard di obiettività scientifica, si è tentato di descrivere l’esperienza mistica in termini di processi fisiologici quantificabili e misurabili. Un’altra tattica messa in atto dai ricercatori è quella della psicofarmacologia esistenziale, in cui la spiritualità diventa sinonimo di terapia. Le esperienze spirituali sono indagate nel tentativo di renderle riconoscibili ad uno sguardo scientifico, e nell’attuale era del cervello, lo spirituale diventa meccanismo d’azione molecolare, localizzabile e analizzabile. Come fa giustamente notare la sociologa, se da una parte queste tecniche hanno permesso di continuare a sperimentare con gli psichedelici, dall’altra hanno contribuito a rafforzare il predominio della conoscenza scientifica sulle conoscenze spirituali, rinforzando ulteriormente la reiscrizione di demarcazioni gerarchiche che, dal positivismo in poi, hanno caratterizzato la relazione tra scienza e altre modalità conoscitive. 

Le società tollerano le droghe che cambiano la mente quando contribuiscono ad appoggiare il dominio della società e le proibiscono quando ai loro occhi lo minano. Per questo le sostanze che una data società decide di considerare psicoattive ci dicono molto sia delle sue paure che dei suoi desideri. (Pollan: 2021, p. 13)

Conclusioni

Come si accennava in apertura, lo studio qui proposto si è articolato a partire dalla domanda: è possibile ridefinire, allargare, ripensare, l’attuale paradigma biomedico? In questo scritto ho mostrato una prospettiva teorica possibile per proporre una nuova configurazione entro cui intendere la salute e la malattia. In quanto scienze oppositive, femminismo e psichedelia permettono di far emergere le criticità insite negli attuali modelli di riferimento inerenti la corporeità e la coscienza. Mi sono presa la libertà di definire tali movimenti dissidenti perché, nella ricerca di Longino, sono proprio questi ultimi a permettere di articolare un momento di critica trasformativa, operata dall’intera comunità scientifica. L’incontro tra questi due mondi sta muovendo ora i primi passi, ma esistono già numerosi studi in cui la convergenza tra i due sta producendo fruttuose piste di indagine. Non da ultima, la ricerca dell’attivista Zoe Helene, fondatrice del collettivo Cosmic Sister, si è incentrata sul modo in cui le pratiche psicospirituali psichedeliche permettono di ridefinire il ruolo e il potere delle donne. I progetti educativi di femminismo psichedelico di Cosmic Sister promuovono le medicine degli spiriti delle piante sacre come un modo per “avviare una rapida evoluzione culturale”, a partire dall’emancipazione e dalla rappresentazione femminile. Questi pochi esempi mostrano come l’intersezione tra femminismo e psichedelia è capace di produrre nuove ontologie e nuove epistemologie, verso un radicale ripensamento del rapporto tra individuo, società e coscienza.  

Jessica Murano è dottoressa di ricerca in Medical Humanities. Come storica e ricercatrice indipendente si occupa di tematiche all’intersezione tra storia della scienza, cultura visuale e storia della medicina. É autrice di diverse pubblicazioni su riviste scientifiche e culturali, e fa parte del collettivo Trickster. 

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