Federico Zappino, Sul materialismo queer, Mimesis, Milano 2024. 

di Federico Battistutta

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Gli studi sul materialismo stanno mostrando in questi anni una particolare  vivacità, inoltrandosi dentro lo spazio di un’ontologia della materia come  forza dinamica, vitale e intelligente, in grado di auto-organizzarsi e  dispiegare un campo e un’operatività quanto mai complessi e versatili. Il  recente testo di Federico Zappino, Un materialismo queer è possibile (uscito quest’anno da Mimesis), si colloca a pieno titolo all’interno di  questa mobile cornice. Il libro raccoglie una serie di interventi, distinti  quanto a forma (interviste, articoli apparsi su riviste, relazioni a convegni e seminari, prefazioni o postfazioni a volumi), ma accomunati dal fatto di  mettere a tema la percorribilità di una materialismo queer o, per essere  precisi, di un marxismo queer. 

In fondo l’approccio che sottostà all’intero testo è propriamente dialettico  (rendendolo in questa maniera perfettamente unitario) in quanto riguarda  da un lato il rinnovamento del marxismo alla luce delle teorie queer e,  dall’altro, il rinnovamento delle teorie queer alla luce del marxismo. Sono  temi in parte nuovi, ma non nuovissimi, c’è tutta una solida genealogia  del sapere su cui poggia lo stesso lavoro di Zappino: dal lesbismo  materialista di Monique Wittig a Judith Butler con il suo fare e disfare il genere (ma interessante, nel libro, è la presa di distanza dal binarismo  violenza/nonviolenza di Butler); dalla critica radicale omosessuale di  Mario Mieli al meno noto Luciano Parinetto, uno fra i maggiori interpreti  eterodossi del marxismo in Italia (ricordo qui il suo Corpo e rivoluzione  in Marx, riedito anni fa da Mimesis, ma costituito da testi risalenti ai  primi anni Settanta). 

Vediamo così affrontati in modo stringente una serie di problemi non  ulteriormente rinviabili; come, ad esempio, il rapporto tra struttura  (economica) e sovrastruttura (culturale, ideologica, spirituale) o la rigida  distinzione fra produzione (di merci) e riproduzione (sociale). L’autore  ricorda più volte che sottovalutare o ignorare questi, come altri  argomenti, conduce ad archiviare in un ambito separato le questioni di genere, decontestualizzandole dal piano sociale, economico e politico in cui accadono e prendono forma, improntando di conseguenza lotte e  rivendicazioni dentro una pratica e un lessico politico squisitamente liberal, rivolto ai diritti delle minoranze, alla condanna dei pregiudizi ecc.  Beh, si sarà compreso che qui la preoccupazione non è esclusivamente teoretica, bensì tutta attraversata da uno sguardo politico e appassionato rivolto a una prassi trasformativa. Per dirla in poche e chiare parole: orientato all’abolizione dello stato di cose presenti. In questo senso ci troviamo dinanzi a un libro rivolto a tutti e a tutte. O meglio: a chiunque avverta come invivibile la condizione in cui attualmente ci troviamo. 

Sulla produzione della materialità corporea 

Il focus del discorso ruota attorno a ciò che Federico Zappino chiama  “modo di produzione eterosessuale”. Cosa si intende con tale  espressione? Se il modo di produzione capitalistico è incentrato sul  rapporto tra capitale e lavoro, tale rapporto però non è sospeso nel cielo,  si innesta a sua volta su una relazionalità sociale preesistente, strutturatasi  e sedimentata in epoche passate, fondata su processi di soggettivazione  gerarchicamente ordinati, contenenti rapporti di genere e sessuali  connotati dall’esercizio di forme di dominio. In questo senso il conflitto  di genere e sessuale finisce per attraversare e fratturare lo stesso conflitto  di classe, in quanto c’è alla base una silenziosa ontologia gerarchica dei  corpi, dove la materialità corporea si trova fin dall’inizio inscritta e di  conseguenza prodotta in forma binaria come maschio o come femmina.  Tertium non datur e neanche il neutro (neuter, né l’uno né l’altro).  L’eterosessualità viene così a configurarsi come quella forma razionale  che presiede a una specifica produzione della materia, sovraintendendo  alla trasformazione di ogni corpo in un genere e garantendo l’inclusione  quanto l’esclusione sociale, in base all’accettazione o meno di tale  procedura. Ed è proprio questo modo soggiacente di produzione delle  risorse umane e simboliche che informa e organizza tutta la società –  economia e politica comprese – la quale la riconosce e la utilizza in  quanto funzionale a suoi scopi.  

Tutto ciò è ancora di più valido nella misura in cui inseriamo questi  discorsi nella situazione socio-economica presente, quella che in termini  marxiani viene designata come sussunzione reale, intendendo con tale  espressione quel processo in cui la vita intera è assoggettata al capitale in  una maniera intensiva, organica e funzionale. E’ tutta la ricchezza  riproduttiva sociale a venire capitalizzata e messa al lavoro nel nostro  tempo, con la conseguenza che bisogni e desideri vengono soddisfatti  nella forma dello scambio mercantile, cosicché tutta la produzione della  vita, attraverso una serie di circuiti multipli, si trova risucchiata nella  valorizzazione del capitale. In breve: lavoro e vita sempre più si  sovrappongono e si confondono. Il soggetto stesso diviene “imprenditore  di sé stesso” e nella società proliferano “fabbriche del soggetto” (che è pure il titolo di un libro poco conosciuto di Toni Negri uscito negli anni  Ottanta). 

A cosa serve tale riflessione? Se è vero che oggi, tanto a livello locale che  globale, vediamo profilarsi i lineamenti di un capitalismo reazionario,  fondamentalista e sovranista, con tratti marcatamente autoritari e  discriminatori, quindi razzisti, sessisti e abilisti, è pure vero che sullo  sfondo assistiamo da tempo alle manovre su larga scala di un capitalismo  più “maturo”, liberal, rainbow, inclusivo, il quale vuole promuovere la  diversità nei luoghi di lavoro (diversity management) e incorporare  nell’economia di mercato bisogni e desideri di soggetti minoritari (per lo  più provenienti da classi sociali medio-alte), definendo così  comportamenti, estetiche, modelli di consumo e canoni pubblicitari ad  hoc. Fondando tutto ciò – sottolinea a più riprese Federico Zappino –  sempre sulle ferree logiche del mercato da un lato e sul disciplinamento dell’inclusività dall’altro, certamente non sull’eliminazione dei  presupposti dell’esclusione, vale a dire l’esistenza del modo di  produzione eterosessuale. 

Sulle alleanze dei corpi 

Ma il modo di produzione eterosessuale non è l’unica forma di  diseguaglianza in cui si esplica l’organizzazione attuale della società  insieme allo sfruttamento di classe. Giustamente nel libro ne vengono  enucleate altre, come il razzismo, il sessismo, l’abilismo e, il più antico  fra tutti, lo specismo. Dentro questi presupposti come sovvertire queste  ontologie gerarchiche dei corpi per liberarci dall’assoggettamento di  questi marcatori identitari e costruire il comune? Personalmente credo  che il “queer come dispositivo” possa costituire un attrezzo efficace anche  fuori dalle questioni di genere. Queer in un’accezione estensiva, come  utensile ermeneutico per smontare in primis le fissazioni identitarie ed  essenzialiste che possono allignare nelle pieghe delle nostre soggettività e  della nostra quotidianità, ostacolando la relazione con la pienezza della  vita e il suo divenire. In questo modo significa anche rendere queer lo  stesso lavoro intellettuale, incominciando a rendere “strana” la teoria,  trasgressiva, non ordinaria, non conforme ai canoni, sfidando una buona  volta ciò che convenzionalmente viene definita teoria dagli ambienti  accademici. 

In questa prospettiva il comunismo queer tratteggiato in queste pagine  può allora incontrare e dialogare con altre forme di comunismo elaborate  in questi anni, anch’esse poco conformi a letture dogmatiche, per dare vita a ciò che Foucault chiamava un’”insurrezione dei saperi  assoggettati”, un patchwork multiforme, un assemblaggio tutto  orizzontale di pratiche e di conoscenze. In particolare sto pensando (ma  altri nomi si potrebbero fare) ai contributi di due autori che ci hanno  lasciato troppo presto: David Graeber e Mark Fisher. Sono sincero: non  so quanto Zappino possa condividere le presenti riflessioni, le offro come  contributo alla discussione da tempo in corso sulla costruzione di un  nuovo paradigma politico. 

Graeber parlava spesso di “comunismo della vita quotidiana” (everyday  communism), indicando una pratica all’opera qui e ora, senza nome e  senza volto, per questo motivo spesso invisibilizzata (ne parla  diffusamente nel suo Debito, Milano, Il Saggiatore, 2012). In altre parole,  comunismo per Graeber è qualsiasi relazione umana operante secondo il  principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi  bisogni”. Pertanto il comunismo è la materia prima di ogni forma di  socialità, è il riconoscimento della nostra fondamentale interdipendenza  (o, detto diversamente, la rivalutazione positiva della nostra costitutiva  condizione di dipendenza), è qualcosa che è esistito ed esiste in ogni  società umana, anche adesso, proprio in questo momento, laddove, pur  con tutte le difficoltà che il presente attuale impone, si lavora e si collabora secondo principi egualitari, di solidarietà e di mutuo appoggio. Non sono posizioni nuove, riecheggiano infatti i temi della rivoluzione e dell’autogestione della vita quotidiana di matrice situazionista (penso  soprattutto a Raoul Vaneigem) o le tesi di Toni Negri secondo cui il  capitalismo sfrutta forme di cooperazione esistenti in gran parte a  prescindere da esso.  

Il pregio dello sguardo di Graeber risiede nel sottrarre il comunismo alle  rigidità dei cieli dell’ideologia, con i suoi mondi a venire richiedenti  sacrifici senza fine, per ricondurlo al qui e ora, a una “militanza della  gioia” – per usare una felice espressione di Silvia Federici – nel saper  configurare obiettivi tangibili da raggiungere nel presente, i quali si  distendono comunque lungo un orizzonte senza limite. 

Dal canto suo Mark Fisher nei suoi ultimi scritti (cfr. Il nostro desiderio  è senza fine, Roma, Minimum fax, 2020) usava l’espressione iperbolica  “comunismo acido” (acid communism), con la quale intendeva  sottolineare i processi di costruzione della realtà, la sua plasticità contro  la prospettiva totalitaria dell’attuale realismo capitalista (ben divulgato  col mantra thatcheriano there is no alternative). Come Graeber, anche  Fischer sosteneva la necessità di volgere l’attenzione a ciò che il capitale  è costretto a ostacolare, vale a dire la capacità produttiva collettiva, il  prendersi cura, la gioia di vivere, appunto.

Al realismo capitalista Fischer opponeva (anche, non solo) la “coscienza  psichedelica” emersa negli anni Sessanta/Settanta, cogliendo in essa  proprio la componente demistificatoria verso una concezione ingessata e  rassegnata della realtà, per far emergere una prospettiva talmente radicale  da promettere una democratizzazione e una politicizzazione delle stesse  mappe cognitive che producono ciò che viene esperito come realtà.  

Tutto ciò per giungere a costruire un’altra idea di realtà che – partendo  dalla sovversione delle attuali condizioni sociali, con tutte le matrici di  oppressione imposte alla materialità vivente, come ribadito da Federico  Zappino, – possa riconoscere, comporre, ricomporre e celebrare la vita  nella sua multiformità, ciò che in fondo il capitalismo nella sua storia ha  pervicacemente diviso, incasellato e sfruttato. Perché – dinanzi alla crisi  planetaria in cui siamo immersi, con le sue guerre, emergenze ecologiche,  pandemie, migrazioni ecc. – è ciò di cui abbiamo un grande bisogno oggi.


Federico Battistutta è un ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo, si interessa di aree di frontiera (spiritualità secolare e misticopolitica, ecosofia ed ecospiritualità, dialogo interreligioso e interculturale). Il suo ultimo lavoro è Misticopolitica. Orizzonti della spiritualità post-religiosa (2022). Fa parte del Collettivo Trickster.