E. Martini, F. Pergola, R. De Luca Picione (a cura di), Confini, liminalità, metamorfosi, Mimesis 2024

di Lorenzo Curti

Scarica il pdf: Recensione Confini, liminalità, metamorfosi

Tra il 1763 e il 1767 gli inglesi Charles Mason, astronomo, e Jeremiah Dixon, cartografo e agrimensore, vengono incaricati dalla Reale Società britannica di disegnare una linea di confine che separi le province coloniali del Maryland e della Pennsylvania in quelli che, da lì a un decennio circa, sarebbero divenuti gli Stati Uniti d’America. Il confine viene realizzato in sovrapposizione al 40° parallelo Nord, nei fatti risultando una lunghissima linea che spezza due regioni, un po’ come i confini che caratterizzano altri stati americani o gli stati africani.

Circa due secoli dopo, alle soglie del XXI secolo, uno dei più grandi scrittori americani viventi, Thomas Pynchon, decide di scrivere un romanzo, dai toni e dal volume senz’altro epici, dal titolo Mason & Dixon (Pynchon, 2024), dedicato proprio alla chimerica avventura del duo di astronomo e cartografo. Se il mondo settecentesco è un mondo i cui confini si stanno dilatando, espandendo, geograficamente e culturalmente, è al contempo un’epoca che vive uno stato di liminalità e soglia: dall’astrologia all’astronomia, dalla religione e la magia al pensiero scientifico, dal mondo naturale a quello meccanico-industriale, dove questi universi non si oppongono sempre drasticamente ma convivono, si mescolano e producono assurde immistioni e confusioni. Allo stesso modo, la penna di Pynchon, giocando coi confini storici e geografici, riesce a trasferirci negli stilemi, grafici e linguistici, del XVIII secolo, pur facendo permeare la sua poetica postmodernista, e facendo scivolare i confini dei narratori, dei personaggi e dei periodi storici con continui attraversamenti di soglie e trasformazioni.

Thomas Pynchon, della cui biografia e delle cui intenzioni di scrittore sappiamo ben poco, pubblica questo romanzo in un momento storico dove la questione del confine è tematizzato attorno a quei conflitti che hanno visto opporsi gli alfieri della globalizzazione ai difensori delle culture locali. Certamente, in quel momento storico, contrassegnato dalla fine dei muri (fisici e ideologici) e dall’inaudita velocità di movimento di persone, informazioni, merci e denaro, poteva sembrare che davvero si potesse arrivare a una scomparsa dei confini che separa(va)no gli stati-nazione. Diversamente da questa prospettiva, una svolta repressiva nel neoliberismo ha prodotto negli ultimi anni un maggiore innalzamento dei muri e dei confini, basti pensare a tutti i problemi legati alle politiche migratorie che caratterizzano il Mediterraneo, ma anche le politiche dell’Europa orientale sui confini. Non diversamente dalla situazione europea, quella americana è stretta dalle problematiche relative ai confini e ai movimenti migratori, mentre le politiche nazionaliste e di ultradestra si fanno sempre più forti in molte regioni del mondo.

Sebbene il concetto di confine, di limite, di soglia, sia fondamentale per una lettura critica e per un approccio alle questioni dei nostri tempi, è però vero che all’interno di quell’universo a volte chiamato scienze umane, questo concetto sembra quasi inesistente, o al più presente in qualche nicchia. Confini, liminalità, metamorfosi, il libro a cura di Elvira Martini, sociologa, Filippo Pergola, psicoanalista junghiano, e Raffaele De Luca Picione, psicoanalista e professore di psicologia dinamica, è un felice tentativo di reintrodurre questi concetti in un discorso che è riassunto nel sottotitolo del volume “La complessità del confini nell’esperienza dell’umano”. Si pone, però, innanzitutto, un problema di metodo: come può un testo che vuole approcciare la questione del confine, del limite e della liminalità, includere questo stesso concetto nel suo metodo e nella sua epistemologia? La questione è decisamente presa di petto: il volume raccoglie una serie di articoli di ricercatori provenienti da diverse aree (psicologia, sociologia, filosofia politica, psicoanalisi, semiotica, biologia, matematica) con un approccio transdisciplinare, e dove sono gli stessi autori a mettere in discussione e interrogare i fondamenti epistemologici delle proprie discipline, riflettendo sui loro limiti e sui confini che determinano i campi delle rispettive scienze. Dunque il confine viene preso non solo dal lato dell’oggetto di studio di questi autori, al contrario è già lì immediatamente come questione epistemologica. Se vogliamo, la questione è declinabile anche in questi termini: se la scienza contemporanea, almeno dopo Heisenberg, mette in discussione radicalmente la definitezza del confine fra il soggetto e l’oggetto dell’osservazione scientifica, allora si tratta di interrogare quel confine come punto centrale di uno snodo epistemologico. È evidente che, se il problema dell’effetto dell’osservatore si pone nelle teorie scientifiche dure come in quelle della fisica, nelle questioni di natura sociale e psicologica è ancora più plateale: come può un osservatore che entra in contatto con il suo oggetto di osservazione pensare che non ci siano dei processi di trasformazione fra questi due attori che sono, nei fatti, entrambi soggetti? 

In questo senso, nel testo si parla di “inestricabilità e reciproca inerenza tra il soggetto e il contesto”, che è anche il titolo di uno dei capitoli, firmato a più mani da S. Salvatore, A. M. De Fortuna, M. Reho e R. De Luca Picione. Questo capitolo si occupa di approfondire, con un taglio semiotico, il rapporto, costantemente intersecato e in relazione dinamica, fra soggetto e contesto, a partire dai processi di significazione e di sense-making che si costituiscono (pp. 128 e sgg.). In questo processo, non peculiare ma normale e quotidiano, sono proprio i soggetti e i contesti a perdere la definitezza dei confini che apparentemente li separano e si produce uno spazio in-between, una sorta di mente estesa, per usare un termine di Wilfred Bion, che permette di poter interpretare la realtà e i segni linguistici proprio a partire dagli scenari in cui questi si manifestano. Questo significa che l’idea di un individuo, un sistema indivisibile autosufficiente, non solo non è sostenibile ma conduce a delle conseguenze pericolose sia su un piano della ricerca scientifica che della concettualizzazione del problema del soggetto umano in termini etici e politici. In questo senso, possiamo vedere già in nuce uno degli aspetti centrali di questo testo, ovvero che i confini non sono solo dei tracciati che separano, ma al contrario sono dei veri e propri dispositivi che possono anche unire e soprattutto creare dei luoghi di soglia, degli spazi di liminalità, dove lo stesso concetto di confine diventa blurred e sfumato. Avviene un po’ quello che avviene quando ci si avvicina al limite matematico, citato dall’articolo di R. Capone dedicato appositamente al concetto di confine nella matematica e, soprattutto, nella topologia. Quando ci si avvicina a un limite matematico non si scopre che c’è un punto, un luogo, dove ci si ferma e basta, piuttosto si fa l’esperienza asintotica del fatto che ci si può avvicinare all’infinito senza mai raggiungerlo: un punto di limite produce una sorta di area liminare attorno al limite stesso. Questione certamente anche zenoniana – penso ad Achille e la tartaruga – nel senso che lo spazio si può ridurre microscopicamente all’infinito, ma qui l’aspetto interessante è che il limite possa costituire una zona che funziona secondo logiche diverse, appunto liminari. Di fatto, nelle funzioni, il limite è un’anomalia interna, per quanto strutturale e fondamentale, alla funzione stessa.

Ed è proprio la questione dell’esistenza di spazi liminari e di soglie da attraversare che il libro, in tutti i suoi contributi, spinge a prendere sul serio, a partire dai grandi vertici disciplinari che sono presenti nel volume, la semiotica (in particolare quella di Lotman, presente soprattutto nei capitoli di O. Puumeister et al. e di Gramigna), la psicologia culturale di Valsiner e la psicoanalisi, con una particolare attenzione, fra i tanti autori citati, a Bion e Lacan. Che siano queste discipline a fare da bussola in questi attraversamenti di soglie teoriche e pratiche non mi sembra affatto casuale. Queste sono, in modo diverso, discipline che hanno fatto dei concetti di confine e di limite aspetti centrali e che per la loro peculiare posizione epistemologica possono senz’altro essere considerate discipline di bordo, che si intersecano e si rivolgono ad altre dimensioni, pur mantenendo la loro autonomia e differenziazione. A questi vertici disciplinari, vi è da aggiungere anche la notevole presenza della teoria delle catastrofi, e in particolare delle teorizzazioni di René Thom e Ilya Prigogine, declinata soprattutto in termini semiotici. La scelta di includere questi riferimenti teorici “catastrofici” è senz’altro azzeccata: nessuna teoria matematica è stata così in grado di cogliere la complessità sistemica della realtà e la possibilità di lavorare su due grandi bordi, quello fra il qualitativo e il quantitativo, e quello fra le discipline scientifico-matematiche e quelle cosiddette umane. Com’è noto, infatti, il modello della teoria delle catastrofi prova a offrire delle spiegazioni quantitative a dei problemi di salti qualitativi (es. biologico: i cambiamenti embriologici durante lo sviluppo fetale) cui la matematica dell’epoca non sapeva rispondere. Senz’altro, è curioso che in discipline come la psicologia questo modello teorico non abbia avuto alcuna fortuna (fatte alcune eccezioni, fra cui segnalo la significativa ricerca dello psicoanalista americano Robert Galatzer-Levy), sebbene siano esattamente quelle che più di tutte si occupano di transiti e cambiamenti di stati, e invece continuino a mantenere modelli psicometrici insoddisfacenti per l’analisi della complessità dell’esperienza umana.

Dunque, per gli autori di questo volume, i confini non sono solo quelli fra territori, ma sono innanzitutto dei dispositivi che hanno la possibilità di separare quanto di unire (p. 12), di delimitare e differenziare quanto di offrire la possibilità di costruire ponti e luoghi di passaggio. In questo senso, sin dal primo capitolo, volto a immaginare un “modello semiotico generalizzato dei confini” sullo sfondo della psicologia culturale e della psicoanalisi, viene delineata la complessa polisemia e possibilità operativa e funzionale del confine e del limite. Il confine, viene infatti letto come dispositivo di separazione e differenziazione, che può tuttavia essere inclusivo, ma soprattutto come elemento che permette la semiosi: come recita il titolo del capitolo di Puumeister et al., “la semiosi è sempre operativa lungo il confine” (pp. 61-78). È in effetti proprio il confine a offrire la possibilità di costituire gli spazi segnici che permettono le differenziazione, a partire dall’articolazione tra il soggetto e il contesto (o, in termini gestaltisti, “tra figura e sfondo”, p. 37). Distinguere, separare, differenziare, contenere, proteggere, trasformare e regolare sono allora le funzioni fondamentali che mettono in luce le caratteristiche della logica semiotica del confine (p. 46). In questa direzione, è particolarmente felice la definizione di confine e di limite come “operatore di ontologia temporanea” (p. 37) e transitoria. Ci permette dunque di orientarci nella realtà e di dargli un senso, senza però essere “definitivo”: il con-fine non de-finisce una volta per tutte e per sempre. 

Il confine non è mai semplicemente un’entità data e stabile. tutto ciò che agisce in termini di confine – un sentiero, una linea, un recinto, un muro, una trincea, un fiume, una catena montuosa, ecc. – rimane tale fintanto che la sua funzione è condivisa intersoggettivamente. […] Pertanto, un confine è sempre un processo che si sviluppa e trasforma nel tempo. (p. 39)

Questa ontologia transitoria e sempre in possibile ri-definizione non è però qualcosa che viene calato dall’alto e metafisicamente: “ci riferiamo, piuttosto, a un’idea di ontologia relazionale, processuale ed ecosistemica: è solo a partire dai sistemi di relazione e di sviluppo che certi processi assumono una forma fenomenica, locale e situata” (p. 40). A proposito di ontologia relazionale e condivisione intersoggettiva, vale la pena sottolineare i molti teorici psicoanalitici che vengono citati, soprattutto nel primo capitolo. Infatti, per quanto la psicoanalisi non abbia mai sistematicamente trattato del confine e del limite, sembra essere un concetto onnipresente, a partire dai confini che separano e rimuovono il conscio e l’Io dall’inconscio e l’Es nelle topiche freudiane , fino ai concetti di funzione alfa bioniana e di Io-pelle in Didier Anzieu. Quello che gli autori mettono in luce è quanto nella psicoanalisi il confine divenga un luogo di interfaccia e soglia: è nell’incontro con l’Altro che si costruiscono i confini che divengono luogo di costituzione dell’identità e al contempo dispositivo poroso che permette di far entrare e uscire, un po’ come in una membrana cellulare (cfr. il capitolo sulla biosemiotica di F. Giorgi), e non è un caso che la pelle venga citata da Anzieu come sito specifico di questo confine. Dunque, dal volume emerge non tanto una psicoanalisi che si fa soltanto sbandieratrice del famoso “limite della castrazione”, quanto una psicoanalisi capace di giocare con i concetti di bordo, confine e margine in una logica topologica.  

Il volume però non si occupa solo di mostrare l’importanza e l’utilità epistemologica dei concetti di confine, limite e soglia in più discipline, a cui è dedicata esplicitamente la prima parte del testo. Infatti, nella seconda sezione del volume, il concetto di confine viene messo alla prova su dei campi di applicazione pratici e sulla carne viva della geografia politica, nel contributo sull’ontologia politica del confine di E. Sferrazza Papa, e su quella ancor più viva di coloro che queste soglie le attraversano, nei capitoli di V. De Micco e G. Sammut dedicati ai processi di soggettivazione su un piano individuale e su un piano collettivo durante i processi migratori.
Sferrazza Papa mette in evidenza, a proposito dei confini della geografia politica, che “a essere naturale, insomma, non è il confine, ma il continuo fare e disfare i confini da parte dell’essere umano” (p. 225), che in questo capitolo diviene una sorta di homo geographicus, per cui “barriere, muri, recinti steccati, semplici linee sul terreno, si accompagnano a documenti ufficiali, controversie politiche, trasposizioni cartografiche, cerimonie d’istituzione” (p. 227). La storia della linea Mason-Dixon, cui facevamo riferimento all’inizio, è paradigmatica di questo processo: la sua realizzazione diviene un grande meccanismo politico e burocratico, che mette in moto conflitti politici e territoriali (ad esempio, con i confini dei popoli nativi), come Pynchon sottolinea con toni sottilmente paranoici nel suo romanzo. E, come mostra Sferrazza Papa nel suo contributo, si può parlare più di un continuo processo di bordering, per cui i confini, anche quelli apparentemente più naturali (come una barriera rocciosa o un oceano) sono il risultato di un continuo rimodellamento e instabile intermediazione fra più fattori. Non è un caso che, recentemente, il Golfo del Messico sia stato rinominato Golfo d’America da Google Maps, seguendo le indicazioni del presidente degli Stati Uniti, e che, al di là del fatto che il golfo rimanga più o meno lo stesso, le implicazioni di questa rinominazione sono ben più ampie.

Il ruolo dei confini geografici nel plasmare le soggettività contemporanee è mostrato dagli articoli di Sammut e soprattutto De Micco, che mostra l’effetto del confine sulle soggettività dei migranti, in particolare adolescenti (“minori stranieri non accompagnati” nel gergo burocratico italiano). La migrazione produce l’effetto di un “vivere sul confine”, dove non si ha una doppia appartenenza ma qualcosa di più simile al rischio di una duplice esclusione, dalla cultura di appartenenza e quella in cui si sta migrando. Allo stesso tempo, però, il “vivere sul confine” è anche la possibilità di uno spazio psichico in cui sostare: 

È proprio per questo che nella situazione migratoria il confine diventa allora piuttosto che una delimitazione tra spazi e funzioni differenti, un ‘luogo liminare’ in cui bisognerà necessariamente sostare per un tempo anche lungo: vero e proprio spazio transizionale che diventerà allora lo spazio/tempo per un rinnovato processo di simbolizzazione […]. Del resto varrà la pena sottolineare che nella nostra contemporaneità ‘liquida’, in cui è sempre più complicato riuscire a tracciare confini stabili e riconoscibili, questa necessità di rimanere psichicamente sul confine riguarda non soltanto i migranti ma tutti i soggetti ‘dislocati’ (p. 280).

Non vi è, però, solo uno sguardo sui confini geografici. Vale la pena citare, infatti, anche il notevole contributo di E. Martini, L. Picarella e E. Mangone, che si occupa del caso delle politiche repressive in America Latina e in particolare in Colombia durante e dopo la pandemia da Covid-19. In questo caso i confini sono quelli del distanziamento sociale, che hanno senz’altro modificato la percezione dei confini che ci separano dall’altro dell’incontro della quotidianità in tutti i paesi in cui è stata applicata la politica del lockdown. Non solo, il caso studio della Colombia permette di vedere anche il passaggio “agambeniano” dallo stato di diritto “ordinario” allo stato di eccezione pandemico, che diventa però permanente anche dopo la fine della pandemia. Passaggio di confini che in questo caso ha a che fare con le forme istituzionali e giuridiche, ma che ha degli effetti sconfinati sulle vite delle persone.

Concludono il volume due articoli che ci indicano due possibili modi di affrontare a attraversare la questione del confine e di sostare negli spazi di liminalità in-between. Da due punti di vista diversi, per R. Gramigna la semiotica di Lotman, e per F. Pergola, la psicologia analitica junghiana, infatti provano a mettere in gioco dei concetti che possono aiutare in questi disorientanti stati di liminalità. La figura evocata da Gramigna è proprio il trickster, il dio-briccone, imbroglione e imbrogliato, che nel corso delle sue rappresentazioni all’interno dei sistemi mitologici, ha sempre incarnato proprio colui che la soglia, volente o nolente, la attraversa, e al contempo si trova ai “margini della comunità” (p. 324). Lotman individua questa posizione a partire dalla figura dello “izgoy”, cioè “un individuo che si è spostato al di fuori dello status sociale assegnatogli e vive ai margini della comunità” (Ibidem), e che può essere uno sciamano o uno stregone, quanto un fabbro, un mugnaio o un boia. La peculiarità di questa posizione sul confine offre la possibilità di una traduzione e di una mediazione, che può anche essere “pericolosa” (p. 325), con ciò che si trova al di là dei confini della comunità o della società, nel luogo dello “straniero”.  Questa posizione, che possiamo definire a tutti gli effetti scomoda, situata a cavallo fra le soglie e che può produrre un effetto di alienazione e allontanamento della società, è però quella da cui si può produrre una critica sui confini e sugli elementi che definiscono internamente ciò che è contenuto dai confini, le culture e i loro sistemi simbolici. Anche il contributo di F. Pergola, nella prospettiva di allargare la psicologia analitica e la psicoanalisi a una lettura del legame sociale e dei processi collettivi nella PolisAnalisi, chiama in causa un concetto “trickster”, cioè quello dell’archetipo junghiano dell’Ombra. È nell’incontro con lo Straniero, l’Altro, lo “sporco” che si trova ai margini e fuori dai confini che c’è la possibilità di una “cura”, sia individuale che collettiva: “l’uccisione dello straniero (dentro e quindi fuori di noi) è la psicopatologia; la cura è l’ascolto dei racconti dello straniero, scoprendo che ‘l’Io è l’Altro’” (p. 356).

Rimanendo nella semantica del confine, possiamo dire che questo volume si pone su una frontiera di ricerca che offre la possibilità di esplorare e cartografare nuovi territori, indagare la soglia non come confine, ma come dispositivo e spazio di liminalità dentro al quale si dà la possibilità di indagare e scoprire qualcosa di nuovo, se si è disposti a sostare in-between come un trickster. Allo stesso tempo è un volume che offre la possibilità di affrontare e concettualizzare tutti quei limiti e quei confini che definiscono simbolicamente ma anche molto concretamente la nostra vita quotidiana, dalla produzione dei processi di significazione fino ai confini che separano gli stati.

A proposito di questo, voglio tornare proprio al caso degli Stati Uniti che menzionavo in apertura in relazione a Mason & Dixon di T. Pynchon. Com’è evidente, la questione dei confini e dei limiti resta un tema estremamente problematico e attuale nella politica americana, soprattutto per quanto riguarda quello con il Messico, dove il confine si è trasformato in un muro, la cui realizzazione è risalente ai primi anni Novanta, sebbene venduta come una “novità” di Donald Trump sin dalla sua prima campagna elettorale. 

Il lavoro fotografico di Francesco Anselmi sul confine fra Messico e Stati Uniti, recentemente pubblicato nel volume Borderlands (Kehrer, 2024) è un modo di lavorare sul confine che coglie proprio la logica della liminalità e dello stare sul confine. Infatti, quest’ultimo viene letto dal fotografo italiano come un vero e proprio spazio da indagare e studiare, mostrando tutte le complesse sfaccettature di questo luogo proteico. Non è un caso che il titolo sia “Terre di confine” al plurale e non “Terra di confine”: qualcosa del collettivo e della pluralità emerge in questa opera. E sono proprio le comunità a divenire il focus dell’attenzione del fotografo: il brulichio di vita che si produce in questi luoghi vicino al confine, vicino alla soglia che segna concretamente il passaggio fra due mondi, è il vero protagonista dell’opera. Infatti, nonostante la violenza e la drammaticità che è legata alla migrazione su quel confine, comunità stabili ma anche in  movimento e in trasformazione si producono su quei bordi. Come dice Francisco Cantù nella postfazione di Borderlands, accanto alle immagini dei droni e degli elicotteri della Border Patrol, la polizia di confine americana, “ci sono quelle delle vite vibranti che hanno sempre vissuto qui, […] la cura umana che pervade ogni comunità e la bellezza naturale che le circonda” (Cantù, p. 124).
Quello che ci permette di vedere Confini, liminalità, metamorfosi, così come Borderlands di Francesco Anselmi, è che se si sposta il focus, la lente, sui confini e sui limiti e si prova a guardare più da vicino, si scoprono mondi nuovi, spazi di trasformazione. Dove si pensava ci fosse solo una linea, si scopre uno spazio altro di “liminalità”. Allo stesso tempo, i confini, quando non sono luoghi di processo e trasformazione, possono diventare luoghi di irrigidimento, di muro e violenza, che producono stagnazioni e paralisi. La questione è, dunque, come avere a che fare con questi confini affinché non siano duri e rigidi, ma flessibili e porosi, luogo di incontro con l’alterità piuttosto che di odio e  conflitto.

Bibliografia:

F. Anselmi, Borderlands, Kehrer Verlag, Heidelberg 2024.

F. Cantù, Borderlands, in F. Anselmi, Borderlands, op. cit.

E. Martini, F. Pergola, R. De Luca Picione, Confini, liminalità, metamorfosi, Mimesis, Milano 2024.

T. Pynchon, Mason & Dixon, Einaudi, Torino 2024.


Lorenzo Curti, psicologo, membro del Collettivo Trickster. I suoi interessi di ricerca sono rivolti all’intreccio della psicoanalisi con più campi del sapere, tra cui la letteratura, i processi artistici, la filosofia e la riflessione sulla tecnica.