Decolonizzare la realtà

di Federico Battistutta
Se la nostra visione della realtà non è la riproduzione esatta di ciò che si trova fuori di noi, le mappe cognitive con cui ci orientiamo sono spesso il prodotto di una macchina performativa che legittima uno specifico sistema storico di rappresentazioni, un complesso di discorsi e di pratiche che fanno in modo che una società decida ciò che è vero e reale. Per questo c’è tutto un lavoro da fare per decolonizzarci, un lavoro su più livelli, da quello individuale e interiore a quello sociale e politico. Il testo che segue è la relazione tenuta al convegno “Ebbrezza, sogno e realtà”, tenutosi a Torino nel settembre 2023.
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Per una critica del realismo capitalista
Per provare a sviluppare le possibili relazioni tra ebbrezza, sogno e realtà partirei da quest’ultimo elemento – la realtà -, in qualche modo più inclusivo; infatti, potremmo parlare di una realtà del sogno, di una realtà dell’ebbrezza, di una realtà della realtà. Non solo, ma dovremmo pure considerare la possibilità dell’interazione fra questi piani. C’è, a questo proposito, il famoso apologo di Chuang-tzu in cui racconta di aver sognato di essere una farfalla, la quale volava nel cielo leggera e spensierata. Ma risvegliandosi si trovò nella confusione, domandosi se era veramente Chuang-tzu che aveva appena finito di sognare di essere una farfalla o, al contrario, era lui proprio una farfalla che stava sognando di essere Chuang-tzu (Chuang-tzu, 1989).
Già posta in questi termini la questione su cosa sia la realtà comincia a rivelarsi intricata e dovremmo allora parlare di realtà al plurale, di molteplici livelli di realtà. In altre parole, che cosa sia la realtà si rivela un discorso apparentemente semplice, non dico a livello teoretico, ma a cominciare proprio dal rapporto che ciascuno di noi intrattiene con ciò che siamo soliti chiamare realtà.
Sostenere che la realtà è tutto ciò che percepiamo con i nostri sensi non semplifica poi la questione: se la realtà è ciò che esiste di per sé, concretamente ed effettivamente, dovremmo cominciare a operare una serie di distinzioni tra ciò che è reale e ciò che non lo è, ma che esiste solo come possibile o potenziale, o addirittura apparente o ancora solamente su di un piano ideale. E, proseguendo, potremmo incontrare altre distinzioni: tra una realtà interna, pensante, distinta da una realtà esterna, mera estensione, inconsapevole di sé (v. Cartesio, res cogitans/res extensa). Oppure tra una realtà soggettiva, personale se non personalissima e una invece oggettiva, condivisibile e misurabile. E mi fermo qui, non vado oltre circa le sconfinate discussioni in materia. Mi fermo anche perché, se andiamo a ritroso nel tempo, ci accorgeremmo che gli antichi greci non operavano tutti questi distinguo e, se facevano così, non credo fosse per ignoranza o superficialità.
Fra l’altro il riferimento all’antica Grecia è dovuto al fatto che la parola “realtà” proviene da lì: deriva dal latino res che significa innanzitutto “cosa”, da cui si ricava la locuzione natura rerum (“natura delle cose”) con cui traducevano il greco φύσις per indicare la realtà come espressione della forza della natura, a un tempo principio e causa di tutto ciò che esiste, vale a dire la materia intesa come forza dinamica e vivente che non richiede principi motori esterni perché ha già in sé ogni principio di animazione, movimento, sensibilità e intelligenza. Tutte le distinzioni – di cui ho fornito solo qualche pallido esempio – che hanno condotto via via a classificazioni sempre più dettagliate e analitiche, verranno dopo.
A ben vedere questo procedimento volto a sezionare e separare ciò che chiamiamo realtà, per sviluppare forme di conoscenza dettagliate e specialistiche, poggia su un assunto che fu formalizzato bene da Hegel e che incontra ancora non pochi sostenitori, secondo cui ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale (Hegel, 1996). La realtà altro non sarebbe se non ragione realizzata (razionalità, appunto). Ciò che è avvenuto e quanto accade in questo momento è giusto e razionale che sia così e che quindi accada. Di conseguenza, ciò che nella storia non riesce a realizzarsi è dovuto al fatto che è irrazionale, letteralmente privo di ragion d’essere. L’intento di Hegel era ambizioso: evidenziare l’identità fra ragione e realtà, in modo che la razionalità non fosse un concetto astratto, ma qualcosa capace di inverarsi nella realtà concreta. Al contempo, l’esistente diventa così manifestazione della ragione, perché nella realtà ogni evento si dispiega obbedendo a un ordine razionale: quanto è avvenuto e quanto sta accadendo e accadrà è pertanto razionale, naturale e giusto.
Ora, collegando quanto fin qui detto, si può dire che la nozione di realtà che ci hanno insegnato e che conosciamo è questa: qualcosa di conoscibile attraverso un sapere sempre più analitico, che seziona, divide, classifica e archivia ogni cosa e ogni vivente in base alle tassonomie delle varie discipline scientifiche. E perché? Sostanzialmente per mettere alla fine tutto a profitto e renderlo fruibile sul mercato per i consumatori. Enfatizzo questo aspetto perché a partire dagli anni ‘80/’90 il capitalismo ha cessato di mostrarsi come un’ideologia economico-politica che si confronta con altre visioni del mondo, ma si è imposto come un principio assoluto, senza alternative. “There is no alternative”, andava ripetendo Margaret Thatcher, in quanto il divenire storico si era definitivamente compiuto, raggiungendo il traguardo finale, al punto da arrivare a dire – come straparlava in quegli anni qualche politologo (Fukuyama, 1992) – che la storia era giunta alla sua fine. Questo offrirsi del capitalismo contemporaneo come realtà allo stato puro è stato acutamente descritto dal compianto Mark Fisher nei termini di un “realismo capitalista”, non solo per il carattere pervasivo di questa visione sistemica in ogni ambito dei processi di produzione e di riproduzione sociale, ma soprattutto per la colonizzazione dell’immaginario volta a eliminare qualsiasi orizzonte di senso possibile al di fuori dello scenario neoliberale (Fisher, 2021).
Etnocentrismo e decolonialità
Sempre in merito al rapporto reale/razionale faccio ancora un passo indietro per andare agli inizi del ‘900, quando Freud parlava di un “principio di realtà” sotto la cui egida l’essere umano sviluppa la funzione della ragione, arginando l’erompere dispersivo di un “principio di piacere”, attraversato dal desiderio, dalla fantasia e dal sogno. A questo proposito già Marcuse negli anni ‘60 aveva contestato a Freud il non riconoscimento della dimensione storica e politica in base alla quale il principio di piacere è stato detronizzato dal principio di realtà, un’estromissione dovuta al fatto che il principio di piacere è estraneo a una civiltà il cui progresso persegue la dominazione e la fatica del lavoro, perpetuando un modello sociale patriarcale e una divisione gerarchica del lavoro, in cui “corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato”.
Marcuse: “Gli uomini non vivono la loro vita, ma eseguono funzioni prestabilite; mentre lavorano non soddisfano propri bisogni e proprie facoltà, ma lavorano in uno stato di alienazione”. Di fronte a ciò Marcuse si interrogava sulla possibilità di una società non repressiva, orientata da un eros ritrovato, grazie al risveglio dell’immaginazione, dell’arte e dell’utopia, in grado di oltrepassare il principio di realtà storicamente determinato con i suoi criteri di efficienza e produttività finalizzati al profitto (Marcuse, 1974). Più recentemente, Preciado ha sottolineato come la psicoanalisi sia un etnocentrismo che non riconosce la propria posizione storicamente e politicamente situata (Preciado, 2021).
In un periodo intermedio fra le riflessioni di Marcuse e quelle di Preciado, ecco cosa avrebbe detto in merito Michel Foucault, un autore tanto vicino quanto distante da Marcuse, riflettendo sulla sua esperienza con l’LSD nella Death Valley: “Quel che dobbiamo fare è trovare il modo di fare del ‘principe de plaisir’ un ‘principe de réalité’. Penso che questo sia un problema etico e politico da risolvere oggi” (cit. Wade, 2023).
Per questi motivi credo sia necessario parlare oggi di una decolonizzazione della realtà. Con un chiarimento a monte: il colonialismo europeo, che a partire dall’età moderna ha occupato e sfruttato popoli e territori di altri continenti, è solo l’aspetto più evidente di quel fenomeno meno visibile che possiamo chiamare colonialità. Tutti quanti siamo stati e siamo tutt’ora soggetti a forme plurime di colonizzazione che riguardano i territori della mente e del corpo, dai luoghi dell’educazione al mondo del lavoro, dalle relazioni affettive fino al cosiddetto tempo libero. Pertanto c’è tutto un lavoro da fare per decolonizzarci, un lavoro su più livelli, transitando da quello individuale e interiore a quello sociale e politico. Come sostiene Rachele Borghi – che si è occupata a lungo di queste dinamiche – decolonizzarsi significa uscire dalle ristrettezze di un pensiero che si vuole unico, per arrivare a pensare che la realtà possa essere caleidoscopica, un mondo pluriverso senza centri o periferie, una costellazione di enunciazioni che creano le condizioni affinché punti di vista diversi si aprano su mondi diversi, su realtà diverse (Borghi, 2020).
Se è vero, come suggeriscono i costruttivisti (Watzlawick et al. 1988), che la nostra visione della realtà non è la riproduzione esatta di ciò che si trova fuori di noi, ma viene inevitabilmente determinata in gran parte dai processi mentali attraverso i quali siamo arrivati a formulare tale visione, al punto che la realtà, in quanto oggetto della nostra conoscenza, sarebbe l’esito di questo continuo fare esperienza per ordinare questi flussi di informazioni, di per sé informi, in una serie di successioni attendibili, riconoscibili e ripetibili. Tutto ciò si manifesta poi nei processi d’interazione sociale, attraverso l’attribuzione di determinati significati all’esperienza attraverso il linguaggio che viene così a svolgere un ruolo fondamentale. Ma tutte queste mappe cognitive che servono per orientarci e costruire le nostre interpretazioni avvengono per lo più dentro un processo sociale, storico e politico determinato, e, alla base, sono orientate e finalizzate a perpetuare quest’ordine simbolico. Si tratta, in altre parole, di una macchina performativa che produce e legittima uno specifico ordine, un sistema storico di rappresentazioni, vale a dire un complesso di discorsi e di pratiche che fanno in modo che una società decida ciò che è vero e reale da ciò che è falso e irreale.
Tra rêverie e utopia
A questo punto entra in gioco la dimensione del sogno, ma non intendo con ciò riferirmi nello specifico al sogno notturno, inteso come appagamento di un desiderio inconscio, ma a quella costellazione di pratiche strettamente connesse con l’attività onirica, come l’atto del fantasticare, la rêverie, il gioco, l’immaginazione.
A questo proposito sono interessanti le pagine che Gaston Bachelard dedicò alla rêverie, un campo, rispetto al sogno vero e proprio, poco esplorato (“la rêverie diventa così un po’ di materia notturna dimenticata nella limpidezza del giorno”), laddove invece c’è di peculiare che vediamo all’opera un cogito della rêverie: “la possibilità di intervento della coscienza caratterizza la rêverie in modo determinante”. Attraverso di essa “immaginiamo dei mondi in cui la nostra vita potrebbe avere tutto il suo splendore, tutto il suo calore, tutta la sua espansione”. È questa la rêverie cosmica (Bachelard, 1972), dove il lavoro dell’immaginazione si dispiega e incontra l’utopia.
E proprio Marcuse ha esplorato il rapporto tra fantasia/immaginazione e utopia. La fantasia/immaginazione svolge un ruolo decisivo nella struttura psichica, sottolinea Marcuse, in quanto ci ricollega agli strati più profondi dell’inconscio, conservando ed elaborando le immagini di libertà, ostracizzate e represse dalle richieste della società, latenti nella memoria collettiva e individuale, recuperando il passato, anche quello più arcaico, agendo sul futuro, facilitando la riconciliazione del desiderio con la ragione, del singolare con il plurale, per una vita finalmente degna di essere vissuta.
Sullo stesso ordine troviamo Ernst Bloch quando discorre di “sogni ad occhi aperti”. Con tale espressione egli non intendeva negare la realtà con cui quotidianamente facciamo i conti, ma si opponeva con determinazione a ogni passiva accettazione di una realtà “già data” e a un presente immutabile, fondando, al contrario, la sua ontologia sul principio-speranza, sull’apertura a un cambiamento radicale attraverso il dispiegamento delle potenzialità dell’essere. Il sogno ad occhi aperti costituisce indubbiamente un materiale composito e ambivalente: in parte può esprimere solo un desiderio insipido di fuga, ma può anche custodire l’insurrezione contro un cattivo presente.
Non solo, anche Bloch dirà che il sogno ad occhi aperti si differenzia dal sogno notturno in quanto non è legato al venir meno di un io, ma, al contrario, qui l’io diviene potenza che si esplica grazie all’immaginazione, socializzando affetti, passioni e speranze in essa presenti, da cui può emergere il novum, l’utopia concreta (Bloch, 2019). Un’utopia concreta in grado di agire radicalmente e in profondità al punto di modificare la coscienza e la realtà. Riprendendo le parole di Toni Negri e Felix Guattari: “chiamiamo comunismo l’insieme delle pratiche sociali di trasformazioni delle coscienze e delle realtà a livello politico, sociale, storico e quotidiano” (Negri e Guattari, 2007).
Decolonialità e corpo-che-sogna
Qui è in gioco il corpo-che-sogna, il corpo come luogo di conoscenze e di relazioni con il mondo, sede di un’esperienza viva che interfaccia interiorità ed esteriorità, il proprio corpo con il corpo del mondo. Usiamola pure allora questa espressione – il corpo-che-sogna – proveniente da lontano, dal mondo degli sciamani.
Parlare del corpo che sogna, immagina e fantastica vuol dire seguire i transiti del corpo per entrare nel campo della modificazione degli stati della coscienza. A questo punto la decolonialità incontra gli stati di coscienza, non può non incontrarli, e quindi è il momento opportuno per parlare di ebbrezza, della gioia intensa e della qualità del sentire a cui a volte viene collegata. All’interno di questo discorso consideriamo gli stati di coscienza come fenomeno sociale, il varcare delle soglie per accedere a una diversa fruizione della realtà, sempre e comunque dentro contesti storici e culturali. Dal canto suo, un autore come Walter Benjamin, negli anni Trenta, osservava il divenire sempre più poveri di esperienze di soglia.
Ma, come ha osservato recentemente Preciado, una cultura non è altro che una complessa architettura sociale dove un insieme di pratiche specifiche possono funzionare come soglie che consentono il transito da un livello di realtà a un altro, vale a dire un insieme di tecnologie biosociali di produzione/alterazione della coscienza attivate da specifiche forme di energia, dentro altrettanto specifici contesti rituali e sociali (Preciado, 2023).
Allora, pur riconoscendo di vivere in un contesto multiculturale, a titolo esemplificativo vorrei riferirmi – tornando all’antico mondo greco, a cui ho già accennato all’inizio – a una specifica tecnologia biosociale, cominciando con l’evocare un nome che ha accompagnato a lungo, in forma diretta o indiretta, le esperienze di soglia e le modificazioni della coscienza in Europa. Sto pensando alla figura di Dioniso – il “dio dell’ambiguità”, come qualcuno l’ha definito – che unisce polarità contraddittorie, figura a un tempo violenta e tenera, potenza provvidenziale e distruttiva, in cui convivono gli opposti: l’umano, l’animale e il divino, così come il maschile e il femminile, la vita e la morte, tutte maschere di un unico grande mistero senza fondo.
Dyonisos renaissance e sobria ebrietas
A dirla tutta, confesso che alla locuzione “psychedelic renaissance”, oggi in voga, preferirei quella di “Dyonisos renaissance”. Dioniso è la figura che torna a vivere nell’ebbrezza, in quell’uscire-fuori-di-sé (l’estasi – ἔκστασις -, nel significato letterale della parola) che diviene processo cognitivo, utensile da adoperare. La rottura paradossale, estatica ed ebbra dell’individualità (paradossale perché “individuo” indica letteralmente ciò che non si può separare, dividere) conduce a una liberazione dai vincoli consueti della vita quotidiana, verso ciò che è stata chiamata μανία, “mania, follia”, vale a dire uno stato di coscienza profondamente differente da quello ordinario. A questo proposito Platone, nel Fedro (Platone 2000), aveva classificato quattro tipologie di μανία: profetica, misterica, poetica ed erotica, e come ha sottolineato Giorgio Colli, fine studioso di quei mondi lontani, queste forme di μανία si trovano sotto la cifra di due divinità: Dioniso e Apollo, i quali presentano sia una profonda antitesi che un’intima affinità (Colli 1975, 1977).
Ora, prestando attenzione alle ormai celebri osservazioni di Nietzsche – secondo cui l’apollineo nasce come reazione alla visione dionisiaca della realtà, per integrare il caos nella forma, in modo da rendere sostenibile la visione (Nietzsche, 1977) -, così come alle più recenti considerazioni di Colli, possiamo parlare di una particolare forma di ebbrezza che è stata chiamata “sobria ebrietas”, cercando anche qui una prospettiva al di là di una visione binaria che contrappone sobrietà a ebbrezza, così come, poco sopra, si è cercato di non inciampare nei dualismi tra principio di piacere e principio di realtà, tra condizione onirica e stato vigile della coscienza.
Che cos’è la sobria ebrietas? Il tema risale a Filone di Alessandria, filosofo ebreo vissuto in età imperiale, il quale ne parla nel suo De ebrietate e, attraverso il neoplatonismo, diventerà il registro simbolico e poetico per molti mistici, i quali, cercando l’unione con la sophía divina, miravano a conseguire la “tranquilla estasi”, la sobria ebrietas. Nel cristianesimo, infatti, il concetto di ebbrezza lo troviamo collegato all’ἔκστασις nel senso positivo di un’esperienza di rapimento sovrarazionale. Tale motivo lo vediamo infatti articolato in diversi autori, nella patristica così come nella mistica fiamminga o in quella spagnola. Fra l’altro, ne parlerà in anni vicini a noi anche Roland Barthes in un noto libro sul discorso amoroso (Barthes, 1979).
Ora, se è pur vero che Filone parlando di sobria ebrietas la colloca in alternativa ai culti dionisiaci, in qualche modo la sobria ebrietas compare in filigrana proprio all’interno di un’opera che celebra dichiaratamente la figura di Dioniso. Mi riferisco alle Baccanti di Euripide, un testo su cui è sempre utile tornare per chi si interessa di stati di coscienza.
Ora, nel primo episodio delle Baccanti c’è un passaggio degno di rilievo: incontriamo due anziani – Cadmo, il re di Tebe, e Tiresia, l’indovino cieco -, i quali si apprestano a compiere qualcosa che eccede le loro possibilità: i due amici desiderano partecipare alla sacra ascesa al monte per celebrare colui che “libera dal dolore gli sventurati mortali”, vale a dire Dioniso: “Incoronati di edera, noi danzeremo: coppia di uomini con i capelli bianchi, ma coppia che danza” (Euripide, 1968). Entrambi sono consapevoli che per loro non sarà semplice, perché sanno che i loro corpi segnati dal tempo non li aiuteranno.
Cosa c’è di interessante proprio in questo passaggio? In Cadmo e Tiresia vi è la dichiarazione della consapevolezza dei propri limiti, il riconoscimento dell’ontologica vulnerabilità che abita i corpi, tutti i corpi. Ciò che emerge è qualcosa di grande interesse: Cadmo e Tiresia, nell’arco di poche battute, sollevano con maestria la questione della percezione della vulnerabilità del corpo, quindi l’importanza di conoscere i limiti del proprio corpo dentro l’esperienza dell’eccedere, nella partecipazione ai culti dionisiaci. Attenzione: la corporeità non è assunta come fardello da cui sbarazzarsi (come una prigione orfica, neoplatonica o gnostica), ma come corpo glorioso, luogo di apparizione e rivelazione di un cammino di liberazione. Attraverso il riconoscimento dell’ontologica vulnerabilità che ci costituisce in quanto viventi accade il confronto fra limite, oltrepassamento del limite e l’individuazione della soglia oltre la quale è opportuno fermarsi e dare contenimento al possibile eccedere. Ciò che è in gioco è l’affidamento all’energia di qualcosa di altrimenti-che-razionale. Cadmo e Tiresia mostrano che nessuna impresa, soprattutto se ardua e rischiosa, può avvenire nell’inconsapevolezza o nell’indifferenza del rapporto con il corpo e i suoi messaggi. Questo è l’insegnamento ancora valido della sobria ebrietas.
In conclusione: la “tranquilla estasi” del corpo-che-sogna può diventare uno dei passaggi per decolonizzare la realtà e questo sistema-mondo, parte di quel patchwork in divenire che riguarda tutti gli uomini e le donne sempre meno disponibili ad accettare la persistenza di un cattivo presente. Con le parole di Bayo Akomolafe, autore postcoloniale: “E se invece la nostra civiltà umana e le nostre esperienze fossero orientate e strutturate dalla esilarante esplorazione dei dettagli più sottili dell’estasi? (…) E se, quando ci incontriamo, ci scambiassimo semi che sanno cantare, storie di spedizioni psichedeliche che attraversano i portali dei normali stati di coscienza e ci scambiassimo saggezze e rituali su come navigare l’ambivalenza della vita?” (Akomolafe, 2023).
BIBLIOGRAFIA
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S. Wade, Foucault in California, Blackie, Milano 2023.
P. Watzlawick et al., La realtà inventata, Feltrinelli, Milano 1988.
Federico Battistutta è un ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo, si interessa di aree di frontiera (spiritualità secolare e misticopolitica, ecosofia ed ecospiritualità, dialogo interreligioso e interculturale). Il suo ultimo libro è Misticopolitica. Orizzonti della spiritualità post-religiosa (2022). Fa parte del Collettivo Trickster.
Parole chiave: realtà, decolonizzare, stati di coscienza, utopia, Dioniso